Vite di carta /
Se incontri in un colpo solo Daria Bignardi, Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo.
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Vite di carta. Se incontri in un colpo solo Daria Bignardi, Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo.
Giovedì 13 giugno alla libreria Libraccio di Ferrara Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo hanno dialogato sull’ultimo libro di Daria Bignardi uscito lo scorso marzo, Ogni prigione è un’isola, rivolgendo all’autrice domande sulla sua esperienza ormai trentennale di volontaria nelle carceri italiane e ricevendo domande da lei. Non è scontato che chi fa l’intervista e chi la riceve siano così alla pari per esperienza e impegno nell’ambito di cui si parla oggi: la situazione carceraria in Italia.
Mi sono seduta in seconda fila una buona mezz’ora prima che l’evento cominciasse, con la mia copia del libro piena di post-it incollati in più pagine e zeppi di appunti e citazioni.
Ci ho infilato anche la schedatura dell’articolo di Mauro Presini apparso l’11 giugno su questo giornale, Le carceri in Emilia Romagna: la relazione del Garante dei Detenuti, e un foglio bianco in cui ho segnato numeri e percentuali e una lista di servizi prioritari di cui i carcerati necessitano per migliorare la loro condizione detentiva.
Sono qui per capire e sapere di più, al centro mantengo il libro. Ho rielaborazioni istantanee che mi passano per la mente, compongo quesiti che potrei rivolgere a chi ne sa più di me e da più versanti. Eppure.
Non ho valutato che questo tipo di incontri non li gestisco più in prima persona, non siamo al Liceo e gli autori invitati non trovano qui – come là accadeva sempre – una platea di studenti lettori pronti al dialogo che conoscono già l’opera.
L’evento mi scivola addosso con la sua logica e con i suoi contenuti di grande interesse per me e per i tantissimi presenti. Prendo appunti e sbircio i volti dei tre relatori, mentre sento che in sala avviene di più e avviene di meno rispetto a ciò che mi aspettavo.
Dice Daria Bignardi che ha inteso scrivere questo libro per capirsi, per sapere come mai continua a tornare nei luoghi di pena vicini e lontani, a San Vittore come a Pozzuoli e fino a Tirana. Lo ha scritto a Linosa, l’isola di fatto in cui si è raccolta a fare sintesi su altre isole che ci sono sparse nei nostri mari, Lampedusa, Stromboli. Nomina isole che sono state la sede di un carcere così come ogni carcere – lo dice il titolo – è un’isola metaforica, circoscritta e orlata da un perimetro netto, da confini marcati, ognuna una summa dell’umanità.
Cita Svjatlana Aleksievič quando a proposito dei militari russi in Afghanistan scrive “Nelle condizioni di laggiù l’uomo era come illuminato a giorno“: anche il carcere è laggiù, dentro c’è l’essenza della vita. Esposta più che in ogni altro luogo dallo stigma della pena o dall’attesa di giudizio. In carcere si ride, anche, nella mia piccola esperienza si leggono poesie e si scambiano sensazioni e pensieri. In carcere si soffre per lo più.
Viene fuori la sofferenza, quando Ilaria Cucchi parla del suo impegno come senatrice per la salvaguardia dei diritti dei detenuti e contro ogni violenza perpetrata dentro le strutture carcerarie, vengono in luce le mancanze e gli errori del nostro sistema carcerario. Li sottolinea a sua volta Fabio Anselmo, che si rifà alla sua esperienza di avvocato specializzato nei casi di abusi delle forze dell’ordine. Si parla di peggioramento in generale nelle condizioni di vita dei detenuti, di suicidi in aumento.
Volano frasi definitive sulla ingiustizia sociale così elevata in questo nostro tempo, sulla inutilità della detenzione che punisce anziché rieducare chi ha commesso un reato. Sul ruolo improprio che il carcere ha assunto di discarica sociale, uno spazio dove racchiudere come ‘mele marce’ gli individui più fragili e socialmente svantaggiati: drogati e psicolabili, stranieri immigrati, persone senza casa e senza lavoro.
Eppure il carcere dovrebbe essere un luogo di rieducazione, uno spazio il più possibile aperto, dove i detenuti lavorano e fanno formazione: più il carcere è aperto e meglio è per tutti. Scrivo nei miei appunti i dati impressionanti sulla recidiva: in un anno circa il 70% dei detenuti usciti dal carcere tornano a delinquere e ci rientrano, il dato crolla al 20% se hanno potuto lavorare.
Scrivo sulle donne, che sono una minoranza e che soffrono per le condizioni rese ancora più disagiate dagli stereotipi di genere e dalle condizioni di sovraffollamento in cui vivono.
Ecco il di più che esce da un incontro del genere, mi si apre un mosaico grande, dove la tessera del mio laboratorio poetico fatto nel carcere di Ferrara la scorsa primavera trova una sua collocazione tra così tante altre realtà e tessere diverse.
Ho segnato i libri da consultare di cui parla Bignardi, ho trascritto nomi di detenuti che ha incontrato, di un direttore straordinario come Luigi Pagano, di Roberta Cossia, magistrata di sorveglianza che si occupa delle misure alternative alla detenzione, di quelle guardie carcerarie – ce ne sono – che fanno del bene ai detenuti.
Eppure esco dalla libreria con un senso di incompiutezza. È vero che si scrive per raccontarsi, è vero anche che si legge per raccontarsi. Il libro è al centro di un dialogo con chi l’ha scritto, e il libro di Bignardi è fatto per dire “Ecco, a me è andata così….Tu?” Ma non c’è stato spazio per intervenire e in me resta la sensazione di avere assistito a una performance monca, senza reciprocità.
Nota bibliografica:
- Daria Bignardi, Ogni prigione è un’isola, Mondadori, 2024
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
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Roberta Barbieri
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