Vite di carta /
L’ultimo romanzo di Viola Ardone, “Grande Meraviglia”, grande vicinanza
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Vite di carta. L’ultimo romanzo di Viola Ardone, Grande Meraviglia, grande vicinanza.
Non posso lasciarlo andare, restituirlo a chi me l’ha prestato senza tenermi ancora per un po’ alcune sue parole. Il libro di Viola Ardone, dico. Si parla di pazzia e di manicomi chiusi con la legge Basaglia del 1978, eppure quello che nel libro si dice della vita e della imperfezione di noi creature mi ha fatto bene.
Sapevo che la storia viene raccontata da una adolescente internata insieme alla madre nel manicomio di Napoli, ma poi appena sono entrata nel libro ne ho saputo il nome: Elba come il “grande fiume del nord che passa per la Germania”.
Glielo ha dato la sua Mutti, la madre, così come insieme hanno dato nomi di fantasia a persone e cose nelle loro giornate tutte uguali dentro al Fascione. Hanno creato filastrocche in rima e modi di dire per dare uno stigma giocoso alla disperazione.
Un esempio che rende bene la privazione del mondo in cui Elba vive: “A me piace fare le rime e per fortuna al mezzomondo tutte le parole finiscono in -ia, come pazzia”.
Un po’ come avviene nel film La vita è bella di Roberto Benigni, dove la vita del lager viene straniata da un padre prigioniero e presentata agli occhi del suo bambino come un grande luna park dove si fanno giochi di squadra in cui bisogna assolutamente vincere.
Dopo che ha presentato le altre, le pazze del suo reparto, non la cambieresti più col miglior narratore al mondo, questa ragazzina che nel suo Diario dei malanni di mente stila il catalogo di malattie e terapie, in lizza col primario del manicomio, Colavolpe, che non ne azzecca molte più di lei. Accoglie la Nuova, che resta muta e non mangia, e le sta accanto a lungo presentandole una ad una le altre malate e una per volta le regole della vita lì dentro.
“Sai, al mezzomondo ogni giornata è sempre la stessa: svegliarti quando arriva la luce, andare alle docce, infilare il camicione, mangiare pane raffermo nel latte annacquato, aspettare il giro delle visite, pranzare. Camminare una mezz’ora nel cortile se non piove, aiutare Gillette con le pulizie, guardare la televisione se non sei stata messa alla corda, cenare, prendere la Caramella-grigia del Buon Sonno, tenerla tra la guancia e la gengiva per poi sputarla senza farti scoprire, attendere che si spengano le luci, sentire gli zoccoli della sorvegliante che battono sulle mattonelle e scendere in un pozzo nero nero, se non hai fatto in tempo a gettare la pillola di nascosto”.
Quando nel libro il narratore è cambiato, non l’ho accettato subito. Come se non fosse ancora il momento di staccarmi da Elba e ascoltare il dottorino che da quando è entrato nel Fascione ne ha scardinato le regole cieche: ha portato fuori i pazzi, facendoli giocare a pallone o lasciandoli camminare in cortile sotto la neve. Trattando Elba non da pazza, perché pazza non è mai stata. Nemmeno sua madre, fatta rinchiudere dal marito quando era rimasta incinta di lei da un altro uomo.
Meraviglia è il suo cognome, e meraviglia sparge col suo metodo nel trattare i malati, che è anche il suo modo di valutare la vita. Come narratore interviene quasi quarant’anni dopo che Elba è uscita dal manicomio, dopo la morte della sua Mutti, e lui se l’è presa in casa, l’ha aiutata a studiare e l’ha accompagnata fino alle soglie della laurea in psicologia.
Ignaro, o distratto, rispetto al turbamento che la presenza di Elba poteva apportare ai suoi figli, a Vera in particolare, che soffriva della assenza di lui come padre e di quella sua dedizione pressoché totale al lavoro dentro al manicomio.
Ignaro e innamorato della vita e dei propri ideali.
Quando racconta ha settantacinque anni: i figli sono adulti e lontani dalla sua quotidianità, la ex moglie si è risposata ormai da molti anni. Elba se ne è andata da tantissimo tempo, ha scritto molte cartoline, poi è calato il silenzio.
Ecco: ci ho messo un po’ ma poi questo anziano che vive solo e si interroga sulle cose passate, pieno di disincanto e di sensi di colpa a metà, perché la sua indole cinica e sorniona glieli ha fatti perdonare, mi si è fatto vicino vicino. L’ho ascoltato e dalla parabola della sua vita ho preso lezione.
Dice alla ex moglie Elvira incontrata per strada nell’ultimo giorno dell’anno: “La vita mi è piaciuta, Elvì, e pure io a lei, ma era solo una cotta, poi è passata. Lo sai come ti accorgi di invecchiare? Quando incominci a perdere. Prima la vista, poi gli oggetti, poi la salute, il sonno, le amicizie, i capelli, gli amori. E infine il tempo. Ho trascorso la vita a fuggire dai legami e quando mi sono fermato ho scoperto che nessuno mi inseguiva più… Perfino Elba è scomparsa così, di punto in bianco, senza una spiegazione. Almeno a lei credevo di avere fatto solo del bene“.
La storia ha una conclusione che non svelerò, una conclusione in cui il caso ha messo il suo zampino, non bastassero gli errori che si commettono o quello che non si comprende delle situazioni a complicarci la vita. La morale, però, posso dirla per come l’ho intesa io. La morale è che a dispetto di tutte le forze che ce ne allontanano ci fa bene e ci dà senso rimanere aderenti a noi stessi.
Nota bibliografica:
- Viola Ardone, Grande Meraviglia, Einaudi, 2023
Cover: Marco Cavallo, Trieste 1973
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Roberta Barbieri
Commenti (1)
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Veramente un bel libro dove le distanze tra il mezzomondo e il mondo di fuori, tra i matti e i nonsiamomicamatti si intrecciano, si mescolano e si fondono, fino a invertirsi.