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Vite di carta. L’abitudine al dolore

Dopo avere letto il suo L’abitudine sbagliata, uscito nel 2023, ho voluto vedere il volto dell’autrice, Francesca Capossele. Benedetto Youtube, in questo. Nel video di pochi minuti Capossele ha parlato con fluidità e con voce sicura dei temi del libro e in particolare dei protagonisti: quattro giovani che somigliano ai giovani che siamo stati noi nati negli anni Cinquanta.

Tre di loro crescono in provincia, a ridosso del fiume che bagna un città piccola e dall’aria stantia, il quarto si aggiunge negli anni dell’Università quando per Maria, Bruno e Lalla è avvenuto il trasferimento nella città grande, dopo lo strappo tanto atteso dall’ambiente familiare.

Sono amici fin dalla prima infanzia. Sono anche di più, come dice Maria che è la voce narrante: “Fratelli. Complici. Se preferite, soldati nella stessa trincea”. Lottano da adolescenti contro la mentalità ristretta del loro ambiente, contro le aspettative a tenaglia delle rispettive famiglie.

Concretamente, Lalla e Maria tendono a dare spazio ai loro sogni, sgravandosi da pesi e retaggi degli stereotipi al femminile, Bruno ha a che fare con la propria omosessualità in molti modi, tutti inautentici e corrosivi. Finché non incontra anche lui nella grande città Luis, il quarto vertice del  quadrilatero esistenziale su cui è costruita la storia.

Dice Francesca Capossele che tutto il racconto dipende dalla foto descritta nella pagina iniziale: Maria la porta bene impressa nella memoria, è stata scattata in montagna e li ritrae tutti e quattro mentre camminano nella luce del pomeriggio. È una luce sinistra, lo si capisce dalla chiusa: “L’immagine è terribile, e noi ci siamo dentro, prigionieri”.

Con questo viatico inquietante inizia il racconto all’indietro nel tempo: infanzia, giovinezza ed età adulta dei quattro si dispiegano attraverso la ricostruzione che ne fa Maria, attraverso piani temporali sfalsati che bene si accordano alla soggettività di lei e alle suggestioni della memoria.

Mi sono dovuta interrogare durante la lettura. Da quasi coetanea dell’autrice, da ragazza di paese quale sono stata e tale rimango con serenità, ho mantenuto acceso il laser del mio coinvolgimento. Ho sondato il panorama sociale di quegli anni, i Sessanta e i Settanta, per come ne parla Maria Francesca e mi sono chiesta quale consapevolezza avessi io a quei tempi del cambiamento in atto. Del boom economico che imborghesiva a grandi passi anche le famiglie più modeste. Del costume che si imbizzarriva come un cavallo libero dal morso e scalpitava fino alle esplosioni degli anni di piombo.

Sapevo poco, sapevo di quell’aura che mi cingeva non troppo lontana dal corpo che ho portato dentro le aule scolastiche fino all’Università: un’aura piena di energia. C’era dentro la voglia di riscatto dei miei, che volevano farmi studiare e la mobilità sociale necessaria e sufficiente a farmi arrivare all’obiettivo.

Leggevo i quotidiani con accanimento. Studiavo. Avevo amici, ma senza contrarre il legame così esclusivo, utopistico, che nel libro lega Lalla a Maria, a Bruno e poi a Luis. Ho frequentato solo un coetaneo, che percepivo come omosessuale, ma nessuno di noi ci ha costruito su.

Così come nessuno di noi ha lottato contro la propria famiglia, se non per piccoli oggetti del contendere, una uscita con gli altri o un voto preso al liceo. I miei erano avanti, tutto sommato. Mio padre non trascinabile dal consumismo e mia madre una donna libera. Il disinteresse in ciò che faccio è quello che mi hanno trasmesso e che mi caratterizza.

Se guardo al destino che hanno avuto i quattro protagonisti di L’abitudine sbagliata riconosco varianti che non somigliano alla mia. Nel presente della narrazione due di loro non ci sono più. Gli altri, Maria e Luis, vivono in una solitudine ovattata.

Intuisco che abbiano stipulato una tregua con i se stessi che sono stati. Per Luis, che ha i capelli corti e brizzolati, Maria dice verso la fine del libro che la sofferenza è un’abitudine “ora conclusa”. Vivere al Nord gli ha fatto trovare equilibrio e autenticità.

Quanto a me, posso dire che ho sofferto nella mia infanzia e nella giovinezza, ho sofferto di timidezza. Ma non ho contratto l’abitudine al dolore. Mi sembra che la possibilità di soffrire si spalmi sull’intera nostra parabola di vita, e che il dolore cambi volto nel tempo. Ora anche per me somiglia alla paura e ha i toni della fragilità, a suo tempo è stato senso della perdita.

Riconosco tuttavia ai quattro protagonisti la titolarità a rappresentare una generazione come la nostra, che si è risparmiata la guerra, ma non le compromissioni del benessere venuto dopo e si è liberata dal paradigma culturale del primo Novecento non senza squilibri. Soprattutto Bruno è stato perseguitato dal disagio della sua vita inautentica. Lalla spezzata dalla malattia.

La nostra cifra esistenziale è questa: ci siamo potuti permettere una vita interiore complessa e l’abbiamo scandagliata con qualche raffinatezza. Manteniamo la curiosità e l’impegno, anche in questa epoca che sembra essersene allontanata.

Di questo sarà fatto l’osso a mandorla che abbiamo nella schiena e che non può mai andare distrutto, come usava dire il padre di Maria.

Nota bibliografica:

  • Francesca Capossele, L’abitudine sbagliata, Playground, 2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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