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Ferrara film corto festival

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Vite di carta. La portalettere di Francesca Giannone.

“Devi leggere La portalettere, è troppo bello. Lo cominci e non ti stacchi più”. Dopo essermelo sentito dire più e più volte, ho chiesto e avuto in prestito il libro da Federica, che è nel gruppo di lettura della biblioteca del mio paese.

Eccomi qui ad aspettarla davanti al nostro bel Castello Lambertini da poco restaurato. Non esco mai di pomeriggio e oggi fa molto caldo, ma per un libro… Federica arriva e riparte sulla sua auto in un battito di ciglia, eppure fa in tempo a sorridere porgendomi il volume e a dirmi che le fa piacere passarmelo. “Buona estate, e grazie” le rispondo, grata per questa sintonia.

La sera comincio la lettura senza sapere nulla sulla trama e sulla scrittrice. Ho aspettative altissime e il senso critico a mille: in queste condizioni è difficile stabilire una sereno patto tra me lettrice e la voce narrante. Difatti per le prime cento pagine procedo attratta dal racconto ma anche pronta a trovarci qualche difetto, come nel caso di Anna, la protagonista, che ha una personalità forte, ma poco sfumata. Così monolitica da risultare inverosimile.

Vengo catturata alla distanza. Il respiro della storia è lungo quattrocento pagine e mentre procedo ne riconosco l’istanza narrativa: ecco un altro bel romanzo del nostro realismo otto-novecentesco, che in questi anni mi risulta praticato da altri apprezzati autori, con un impianto narrativo solido e articolato su molti personaggi, e un ambiente ben definito che fa da spazio vitale alle vite che dentro vi disegnano il loro percorso.

Come mai gli altri non sono più riusciti a staccarsi dalla lettura? Perché la voce che narra ottiene la nostra fiducia, portandoci in un paese del Salento, Lizzanello, come fossimo al seguito di Anna Allavena, che dalla Liguria ci arriva con la corriera nel 1934.

Va a viverci col marito, che lì è nato e ora ha avuto casa e terre in eredità, e col figlio piccolissimo. Come lei ci guardiamo intorno straniati, e subito notiamo come è fatta la gente al sud e come ci si vive. Le risorse della terra e del clima e una mentalità chiusa.

Comincio a sentirmi proprio a casa quando si parla del cibo e si nomina Lecce. Sono conquistata dalla pagina in cui alcuni personaggi vanno alla pasticceria Alvino, in piazza Sant’Oronzo, e gustano i pasticciotti, che conosco anche come buccunotti, per come li chiamava mia suocera.

Mi si para davanti agli occhi la scena dal film Le mine vaganti di Özpetek, in cui Ennio Fantastichini compera una grossa guantiera di dolci per gli ospiti che ha a casa: amici del figlio venuti da Roma che egli si ostina a vedere come giovanotti dalla virilità prorompente e invece sono gay.

Cara Lecce, bellissima e deserta in altre scene, con il barocco delle chiese che parla la più bella lingua del mondo e ostenta il colore caldo del tufo anche sullo schermo.

Ma torniamo al romanzo. Alle spalle di Anna ci intrufoliamo nella raggera di parenti e amici che prendono posizione attorno a lei nel tempo. Entriamo nella piazza del paese e nelle botteghe, nella casa ereditata e in quella del fratello del marito.

Quando lei caparbiamente fa la domanda per occupare il posto di portalettere, frequentiamo l’ufficio postale e la mattina di ogni santo giorno suoniamo campanelli e bussiamo a porte e portoni.

Anna non se ne è andata dopo il primo impatto come fa la signorina elegante nella novella verghiana Fantasticheria: fino al 1961, anno della sua morte, si aggrappa allo stesso scoglio dei compaesani, entra un minuto nelle loro case per leggere le corrispondenza a chi è analfabeta e sa trovare le parole giuste di fronte a missive importanti.

Di una mia prozia, postina storica al mio paese, si diceva che volente o nolente sapeva tutto di tutti, e che negli anni dell’ultima guerra doveva bere un goccetto prima di portare a certe madri il telegramma con la notizia della morte del figlio caduto in combattimento.

Poi Anna fa di più: fonda la Casa per le Donne, occupando l’abitazione che è stata di un’amica a cui ha dato aiuto per anni e che da tempo vive con lei. Insieme accolgono ragazze abbandonate e prive di mezzi. A questo doveva prepararci il sommario in copertina: ” Italia, anni ’30. Un paesino del Sud. Una donna del Nord. Un incontro che cambierà entrambi”.

Questa donna del nord, scopriamo alla pagina dei ringraziamenti, è la bisnonna di Francesca Giannone, che ne ha ricostruito la storia a partire dal biglietto da visita con su scritto Anna Allavena – Portalettere”. Ha anche lavorato di fantasia, ha modificato e rimaneggiato le storie familiari “per restituire al meglio… il paesaggio e l’atmosfera del territorio”, in cui peraltro è tornata a vivere dopo avere vissuto e lavorato a Bologna.

 La forza di questo romanzo sta nella compattezza che sa assegnargli la voce narrante, capace di controllare ogni rivolo narrativo e di intrecciarlo con gli altri, mantenendo fluida la esposizione e fluido lo stile.

So di andare a saccheggiare la nostra storia letteraria, come deve avere fatto anche Giannone, e di rispolverare due categorie narrative della tradizione più illustre: la prima è l’entrelacement, ovvero la matassa di fili narrativi magistralmente orchestrata da Ariosto nel Furioso; l’altra corrisponde al verosimile manzoniano, in cui si fondono gli elementi del vero storico e della invenzione romanzesca e ne esce quel “bravo figliuolo” di Renzo, che se fosse vero non potrebbe essere diverso da come lo ha immortalato la pagina.

Ne La portalettere sono molti i personaggi ben riusciti, tipi umani credibili e dalla psicologia anch’essa verosimile, e non mi riferisco tanto ad Anna – come dicevo – quanto a una folla di personaggi minori. Alcuni abitanti di Lizzanello, per esempio, sbalzati con pochi sicuri tratti di penna sullo sfondo del paese con la sua ritualità all’apparenza immobile.

Come il fruttivendolo, che somiglia tanto a Gilda, la venditrice di erbe al mercato rionale di Taranto da cui ricevevo ogni volta un ciuffetto di menta in più o il dono di una pesca.

Nota bibliografica:

  • Francesca Giannone, La portalettere, EditriceNord, 2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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