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Ferrara film corto festival

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Vite di carta. Il gelso di Gerusalemme e l’ecocidio.

Da alcuni giorni rielaboro nei miei pensieri, sotto la superficie della quotidianità, quanto ho ascoltato andando a Ferrara a sentir parlare a vario titolo della città come spazio vitale. Vivo in paese, ma mi muovo spesso a Bologna e a Ferrara, dove ho ampie zone che mi sono familiari e abitudini che ogni volta trovo sempre più assediate da forme di accesso distopiche.

Dal libro di Paola Caridi, Il gelso di Gerusalemme, imparo a riconsiderare la categoria del” nonumano” e dopo ne parlerò; ora mi lascio trasportare da lei nell’area urbana di Roma, dove la generazione di suoi nonni, contadini, ha vissuto un rapporto di convivenza tra la terra e la città nel quartiere della Balduina, con alberi e colture a un tiro di schioppo dalla Cupola di San Pietro. Ora la città si è appropriata di ogni spazio.

Cambiare la città per cambiare il mondo mi sembra allora un titolo tempestivo. Mi è piaciuto ancora prima di partecipare al convegno di giovedì 3 ottobre organizzato dal gruppo Ferrara, le donne e la città, per riflettere sugli spazi urbani in un’ottica femminile e femminista non aggressiva e più inclusiva proprio a partire dal rapporto tra esseri umani e natura.

Ho ascoltato le relatrici e mi si è aperto un mondo, mentre raccoglievo abbozzi di idee accumulate negli anni riuscivo a  sistemarle in un quadro. Occorre un mutamento culturale per reimpostare la città come spazio di vita, serve un approccio multidisciplinare che relazioni i bisogni dei cittadini alle risposte di una politica esperta e lungimirante.

Dalla città delle disuguaglianze alla città delle pari opportunità, con spazi pubblici ripensati per essere accoglienti a tutte e a tutti, con una progettazione urbana coerente con le esigenze di aggregazione e convivenza.

Una delle espressioni chiave che ho sentito mi pare piena di bellezza anche nei suoni, ed è la città della curadella responsabilità collettiva, inclusiva e con meno barriere che si può.

Entro il programma di Internazionale a Ferrara, il festival del giornalismo giunto alla diciottesima edizione, venerdì 4 ottobre vado a sentire la scrittrice e giornalista Paola Caridi, esperta di politica del mondo arabo, che presenta il suo ultimo libro Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi.

Siamo in Sala Agnelli alla Biblioteca Ariostea, un luogo che frequento abitualmente. Sarà che gli spazi in cui esperiamo non sono fondali neutri, sarà che vengo dall’Aula magna della Facoltà di Economia, che invece mi era estranea, fatto sta che le parole di Caridi e della sua brillante intervistatrice, Catherine Cornet, mi trovano particolarmente ricettiva.

Ho accanto due studentesse del Liceo Ariosto che conosco da tempo, Sofia e Martina, due giornaliste in erba che seguono come bloggers tutto Internazionale e ci scrivono su anche per la stampa locale. Più a casa di così non potrei sentirmi.

Prendo appunti gomito a gomito con loro, che più tardi dovranno farle l’intervista; Paola Caridi intanto parla del gelso che aveva davanti alla sua casa a Gerusalemme e che non ha più trovato tornandoci dopo alcuni anni. Al suo posto, un moncherino di tronco e una assenza che lei avverte con sofferenza. Sente una mancanza culturale di quel gelso, unico rimasto in vita di sette che erano, sente il tempo della sua lunga storia sradicato con lui.

Quanti altri alberi sono rimasti travolti dalla lunga guerra israelo-palestinese dal 1948 in poi. Quanti spazi e territori sono stati ridisegnati e segnati dalle ferite di muri e linee divisorie. Attraverso gli alberi Caridi dice di avere capito molto di più del rapporto con la terra che hanno i due popoli.

Quando nasce lo stato di Israele l’atto di piantare un esercito di alberi significa legittimazione della propria presenza e totale appropriazione della terra per costruire “un paesaggio che rispecchi la visione dello Stato”. All’opposto i palestinesi, che vengono cacciati dalla loro, vedono infranto il senso di appartenenza, il legame atavico con la loro casa, con i campi e gli alberi da frutto.

Ripenso alla città come ne hanno parlato le relatrici al convegno di giovedì, al suo rapporto necessario con la campagna circostante e con l’ambiente nella sua accezione più vasta. Oggi sento Caridi definire nonumani  tutti gli elementi di un mondo fatto non solo di noi, a cui abbiamo riservato un atteggiamento distruttivo, un ecocidio. Parla di colonialismo botanico e fa l’esempio della monocultura dei gelsi in Libano, che ha provocato migliaia di morti per fame negli anni della prima guerra mondiale. Allude alla necessità di una botanica decoloniale femminista.

Mi viene in mente l’albero gigante che mio padre mi ha mostrato nei lunghi anni dei nostri giri in bici in campagna: una quercia, che ha visto piantare nel 1930 sul davanti di una casa colonica lunga e bassa. Un albero che aspettavamo di vedere dopo una curva dello stradone non asfaltato, sapendo che ci saremmo fermati sotto la sua ombra a riprendere fiato. Se voglio, ancora oggi posso raggiungerlo e in raccoglimento ricordare mio padre.

Alberi così, che Caridi chiama “alberi-piazza”, si trovavano in gran numero sul territorio di Gaza, prima che la Striscia venisse murata. Gelsi, sicomori, ulivi, carrubi, palme. Soprattutto sicomori, presso i tanti santuari sparsi in tutta la Palestina e anche dentro i villaggi e le città: alberi sotto le cui fronde era possibile incontrarsi, rifocillarsi e raccontare storie.

Alberi sacri vicini ai luoghi della preghiera. Dalla Nakba in poi, la cacciata dei palestinesi nel 1948, gli alberi sopravvissuti hanno mantenuto le loro posizioni su un territorio che si è andato riempiendo di fitte linee di demarcazione che sono l’eczema della terra di Palestina, come scrive Susan Abulhawa nel suo bellissimo Ogni mattina a Jenin.

A loro, conclude Paola Caridi, dobbiamo chiedere perdono.

Nota bibliografica:

  • Paola Caridi, Il gelso di Gerusalemme, Feltrinelli, 2024
  • Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, 2013

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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