Vite di carta. Ferraù e la seconda scelta
Sto rileggendo il primo canto dell’Orlando furioso insieme a Federica, che recupera la storia letteraria di quarta liceo dopo avere fatto l’intero anno scolastico all’estero. Nell’universo grande costruito da Ludovico Ariosto col suo poema non è piccolo l’universo che si incontra nel primo canto: le antologie della scuola superiore lo presentano come canto indicativo dei temi e di modi narrativi della poesia ariostesca. Vero. A leggerlo con cura ci si fa un’idea di come debba essere il poema, con i restanti 45 canti già avviati dal motore narrativo del primo. Con i tempi risicati che ha la didattica questo pregio esce dal testo e si trasforma in un secondo, graditissimo: quello di dare una spintarella allo “svolgimento del programma”.
Ciò che non dirò a Federica è la propensione che provo per un personaggio minore, anche lui talmente preso dall’amore per Angelica ora in fuga nella selva, che non ha esitazioni nel lasciare ciò che stava facendo per rincorrerla quando la vede passare a cavallo. Di innamorati così, ne girano altri nelle 81 ottave che compongono il canto e vengono tutti da lontano: letterariamente, escono dalle pagine incompiute dell’Orlando innamorato del Boiardo e si gettano nel nuovo labirinto tessuto dai fili narrativi delle ottave del Furioso.
Il mio preferito resta Ferraù, il cavaliere saraceno spagnolo che nell’Innamorato aveva ucciso in combattimento il fratello di Angelica, Argalia. Tra l’ottava 14 e la 31 si consuma l’epopea individuale di questo cavaliere, non meno cortese dei cugini Orlando e Rinaldo e pronto alla “tenzone” in difesa della bella fanciulla. La vede passare a cavallo vicino al fiume dove egli ha trovato riposo (ma ha perduto qualcos’altro) rispetto alla battaglia che si combatte presso Parigi tra l’esercito cristiano di Carlo Magno e il suo, quello infedele del re Marsilio. Appare “pallida e turbata” mentre fugge da Rinaldo (lo odia perché, sempre nell’altro poema, ha bevuto a una fontana fatata), Ferraù la riconosce e subito interrompe la ricerca dell’elmo che gli è caduto in acqua e affronta in un cruento duello il suo inseguitore (ottave 17- 18).
In un poema fatto di donne, cavallier, arme, amori, cortesie e audaci imprese, come proclamano i due versi iniziali, Ferraù è al posto giusto. In un poema che prende il motivo corale delle armi proveniente dalle chansons de geste e lo fonde con i temi del ciclo bretone, l’amore e il gusto dell’avventura individuale, Ferraù è la figura esemplare del cavaliere che nello spazio della stessa giornata combatte per il suo re e duella per amore.
Nello spazio delle successive 13 ottave gli accade di: interrompere saggiamente lo scontro e unire le forze per cercare Angelica insieme a Rinaldo, procedere con lui “per selve oscure e calli obliqui” fino a dove il sentiero si biforca, lasciare Rinaldo e mettersi “ad arbitrio di fortuna” (sempre lei, volubile e donna, come dice Machiavelli) in una delle due strade, non sapendo quale abbia percorso la donna. Infine ritrovarsi, dopo un lungo giro nel bosco, esattamente al punto di partenza.
Non dirò a Federica che anche a lei sta accadendo qualcosa di simile col programma di Italiano: ha fatto un lungo giro per seguire l’anno scolastico negli Usa e ora è tornata nel punto in cui lo aveva lasciato (il programma).
Scherzi a parte, non vorrò dirle quanto mi sia vicino l’errare di Ferraù, un zigzagare fuori di sé nella selva e anche dentro i suoi desideri (i nostri desideri) seguendo il proprio cammino di uomo prima che di cavaliere in un poema epico-cavalleresco.
Ci penseranno le pagine del manuale a perimetrare per lei la grandezza inventiva e narrativa di Ariosto, in quel suo poema che è opera aperta, piena di spifferi e di folate soffiate dalla mutevolezza del vivere che spingono i personaggi in ogni dove, ognuno con un desiderio in testa. Orlando, il cui desiderio folle verso Angelica è destinato a rimanere deluso, sarà il più inappagato di tutti. Perduto e poi recuperato il senno che Astolfo gli ha portato giù dalla luna, negli ultimi canti uscirà in via definitiva dal filone dei romanzi bretoni per infilarsi nel genere epico della Chanson de Roland: farà la guerra e solo la guerra, portando alla vittoria il suo re, Carlo Magno.
Senza occupare troppo spazio, Ferraù come Orlando mostra a chi legge qual è la parabola della vita dentro al poema. Indica quale sia la circolarità complessiva del suo movimento: corri corri, fai sempre lo stesso giro dietro a obiettivi che non cambiano o, se cambiano, soffiano all’indietro per predisporti ad accettarli.
Di Ferraù mi incanta il suo adeguarsi alla mutevolezza del mondo. Fallita la prima scelta, quella d’amore, si adegua a sposarne una seconda. Che poi è la prima che aveva interrotto: insomma cerca l’elmo caduto nelle acque del fiume.
Sulla spinta delle parole del fantasma di Argalia che è sbucato dall’acqua, Ferraù si prepara a uscire dal canto con la testa piena di un ulteriore desiderio: impadronirsi dell’elmo che è più elmo di tutti, quello di Orlando.
Federica apprenderà dal suo manuale che nel caso di Ferraù la ricerca dell’elmo è una ricerca degradata, il surrogato cioè di una meta più alta e irraggiungibile. Nel Furioso l’inchiesta come motore dell’azione individuale alla fine fallisce e i personaggi devono ripiegare su un oggetto sostitutivo, e via di nuovo col meccanismo della ricerca, quello che nel mio manuale preferito di docente viene definito il “meccanismo comico dell’attesa delusa”.
Con la sua sensibilità di diciottenne apprezzerà, credo, che nella architettura così complessa del Furioso la monade narrativa del primo canto rechi in sé l’intero DNA del poema e del suo altissimo valore letterario.
Quello che non vorrò suggerire è di far uscire Ferraù dalla pagina per dirle che spesso così è anche la vita fuori dal poema. Federica ha sogni e progetti che non è ancora tempo di relativizzare davanti al suo sguardo acceso di futuro.
Nota bibliografica:
- Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Garzanti i grandi libri, 1994
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