Vite di carta. Dieci donne e due dodici.
Dieci donne è il titolo del libro di Marcela Serrano uscito presso Feltrinelli nel 2011 con la bella traduzione di Michela Finassi Parolo e Tiziana Gibilisco.
Nove donne si confessano stando in gruppo dalla psicoterapeuta che hanno in comune, lei le vede arrivare tutte insieme dalla finestra dell’istituto dove potranno parlarsi, le accoglie e le ascolta. Ascolta e basta.
Sono loro che nel corso del racconto di sé, fluente e ricco di una introspezione che nel tempo si è fatta generosa, includono lei, Natasha, e ne spiegano il valore dentro le rispettive vite.
Ognuna di loro mette in chiaro i dolori e le fragilità che l’ha portata alla psicoterapia, nessuna tralascia di indicare quanto sia stato importante il sostegno avuto da Natasha.
Per esempio vengono rimarcate certe frasi che dice spesso per suscitare il dialogo, oppure la tenerezza con cui si avvicina alla sostanza umana che le contraddistingue una per una.
Sono venuta qui, oggi. Erano mesi che ci pensavo e ora eccomi seduta nella grande cucina della mia Tata storica, quella che ha assistito a tutta la mia infanzia stando a casa mia come lavorante di mia madre.
Ritrovo in un minuto le coordinate della sua vita familiare: la stanza ben riscaldata perché si muove poco dopo l’ultima operazione all’anca, l’ultima di una serie, lo schermo gigante della tv perennemente accesa, l’affacciarsi sul davanzale della finestra di gatti e cagnolini che a turno chiedono di entrare.
E parla a ruota libera. Mentre la ascolto mi sento beata per la narrazione della sua vita che ritrovo e che abbiamo interrotto per troppo tempo. Non sono Natasha ma sì, la situazione è speculare a quella del libro e in fondo è la stessa: una donna parla e un’altra è venuta per ascoltarla.
Chi sentisse da fuori capirebbe che mi vuole bene da sempre: non mi include certo nel racconto della vita quotidiana nella quale non ho posto in questi ultimi anni, ma fa veloci incursioni nella mia infanzia, dice che qualcuno dei suoi quattro figli (ora quarantenni ) è stato come me in qualche piccola cosa. Una, la terzogenita, porta il mio stesso nome.
Oggi mi parla dei due nuovi nipotini nati da pochi mesi e le brillano gli occhi. Ora sono quattro i nipoti, tutti maschi. Provo a chiamarli i moschettieri per stemperare il rimpianto che le oscura lo sguardo mentre dice che il marito, che non c’è più, sarebbe stato felice di conoscerli uno ad uno. E subito rialza il capo, tornando a parlare dei due più piccoli, le esce anche una risata delle sue.
Viene allo scoperto il suo buon carattere, una vera miniera di forza che l’ha tenuta su, sempre. Gliela riconosco e gliela invidio bonariamente, credo di avergliela copiata negli anni in cui sono diventata adulta, se non altro ho costruito una buona impalcatura che ho chiamato compostezza e con quella tento di mantenere almeno la forma nei momenti duri.
La ascolto e intanto faccio entrare nella stanza le altre dieci donne: sono figure femminili di carta, ma hanno titolo per stare qui, ognuna con la sua parabola di vita.
Luisa è vedova di un desaparecido e rivive nel suo racconto i trent’anni che ha passato nell’attesa tenace che il suo Carlos tornasse, intanto che ha tirato su i figli e sbarcato il lunario con fatica. Andrea, una giornalista di successo, si rifugia nella solitudine del deserto di Atacama per rimettere in discussione ogni singolo pezzo che compone la sua vita frenetica. E così via con la storia delle altre.
La decima donna, Natasha la psicoterapeuta, non parla in prima persona ma affida alla sua fedele assistente il racconto della propria. Chi legge, e finora ha raccolto su di lei i giudizi delle altre, trova dispiegato nell’ultimo capitolo il nastro della sua esistenza. Una vita fatta di impegno familiare e professionale, di passioni e di spostamenti da un continente all’altro fino al Cile dove il libro è ambientato.
Di tutta la profondità della sua persona e della sua competenza nella psicoterapia mi sorprende una scheggia di poche straordinarie parole. Mi autorizza a credere che altrettanto forte quanto stare ad ascoltare chi ci parla e ci guarda negli occhi sia leggere le vite. Che anche la lettura sia una forma di ascolto.
Le parole sono queste: Natasha arriva stanca dopo una lunga giornata di lavoro e chiede alla sua assistente, donna umbratile e lettrice sterminata, “Raccontami della vita là fuori”. “Se per fuori intendi i personaggi dei miei romanzi…” “Sì, loro…raccontami che cosa fanno, che cosa dicono, che cosa pensano.“
Nota bibliografica:
- Marcela Serrano, Dieci donne, Feltrinelli, 2011
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
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