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Almarina, un nome di ragazza nel titolo del romanzo di Valeria Parrella.

A pagina otto del romanzo Almarina aspetta nel corridoio del tribunale; scopro così che il titolo del libro è un nome di adolescente. Non ne sapevo nulla, pensavo al nome di una località o ad altro elemento vaporoso, senza associare la parola così lieve a un corpo.

L’ingenuità che a volte mi concedo è finita: ora vorrò sapere tutto di questa storia, di chi l’ha scritta. Entrerò curiosa nelle pieghe del racconto.

Scopro già nel prologo che chi legge è portato a procedere lungo un sentiero ben tracciato: le parole della narratrice sono luci che fanno avanzare solo di pochi passi per volta. Dove siamo? Nell’edificio grigio del Tribunale dei minori di Napoli.

Elisabetta Maiorano, la protagonista che parla in prima persona, ha addosso il suo vestito migliore: la causa che si discute riguarda lei e la sua adozione di una ragazza rumena, fuggita in Italia insieme al fratellino dopo un’esperienza famigliare di violenza e finita nel carcere minorile di Nisida per un reato minore.

È lei quella che attende fuori dall’aula, Almarina. In carcere Elisabetta è stata la sua insegnante di matematica, si sono conosciute nella scuola, “l’unico spazio senza sbarre alle finestre”.

Durante la lezione capita che Almarina si addormenti sul banco, sapremo qualche pagina dopo che ha vegliato e pregato per tutta la notte. Almarina non ha mai freddo, ma per darle calore non bisogna toccarle il braccio, sennò si sente “un pezzo duro…come legno scanalato”, lo stigma delle botte che ha preso dal padre, qualcosa di non umano.

Elisabetta prende a proteggerla, a provare una predilezione da cui non sa e non vuole difendersi.

Elisabetta. Il libro è suo: la storia è raccontata da lei, in soggettiva. Almarina è la luce che la inonda nel prologo tra il grigiore del Tribunale, a lei brilla “la luce del futuro negli occhi“.

Dal momento in cui aspetta di sapere la sentenza dei giudici, tutte donne, relativa alla sua richiesta di adozione, la narratrice va all’indietro a raccontare la sua vita di prima, il suo lavoro di insegnante a Nisida e l’umanità speciale con la quale è in contatto ormai da anni.

Recupera il suo vissuto di moglie e in seguito di vedova, la soffocante famiglia del marito rappresentata dalle cognate, la vana aspirazione a diventare madre.

Si assicura di averci alle spalle, noi lettori, e ci fa strada nelle sue giornate piene di solitudine. La luce delle parole sempre accesa che ora proietta il cono di luce sui dettagli, ora si apre a ventaglio sull’orizzonte, quello della città, mentre guida al mattino presto verso Nisida, o che vede insieme agli alunni dalle finestre del carcere.

All’età di cinquant’anni, il suo sguardo è pieno di disincanto. Stando dietro di lei vediamo la bellezza di Napoli, una bellezza che si impone a oltranza in mezzo al dolore e alle fatiche di chi ci vive. Nisida è un’isola calata dentro quella stessa bellezza, eppure contiene un mondo così diverso, “che quando entro mi devo continuamente ricollocare, riposizionare, guardarmi le spalle e dentro”.

Succede ogni giorno da anni. Quanto tempo si può resistere in un posto così? A cinquant’anni la risposta si trova: “Dipende da quanto sai resistere alla frustrazione di essere inutile”. I ragazzi che sono a Nisida vengono e vanno, senza preannuncio né riti di commiato. Spesso se li riprende lo svantaggio sociale da cui sono venuti, spesso passano al carcere degli adulti.

Elisabetta ha incamerato tutto in questi anni, ha subito gli sguardi bassi dei suoi alunni, l’indifferenza con cui tollerano le spiegazioni di matematica, perfino il disprezzo non detto. Ma è come se dicessero: “Tu sei un insegnante e gli insegnanti sono senza sorte, gente che non arrischia nulla della propria pelle” e solo aspetta tredici volte all’anno lo stipendio dallo Stato.

Ad Almarina si lega, mentre guardano il mare. La protegge, mentre è in carcere, le fa vedere la vita di fuori, portandosela a casa in permesso nel giorno di Natale; la va a cercare nella parrocchia che l’ha accolta dopo il carcere. Ora in Tribunale aspetta che diventi sua figlia, e lei ne sia la madre. Anche Almarina oggi indossa il vestito più bello, è fucsia e viene dall’armadio di Elisabetta, che subito glielo ha donato, e come le segna bene i fianchi.

Vorrei citare molte più frasi dal libro. Nicola Lagioia, che l’ha presentato allo Strega nel 2020, riconosce questa “forza linguistica rara” che ha preso anche me, mentre procedevo tra le pagine alle spalle della narratrice.

Eppure quando il libro è finito ho provato la sensazione di essere  bruscamente stoppata. Ho sentito esatto esatto quel senso di non finito, di poco sviluppato, che mi aveva anticipato l’amica Sabina, un’altra vorace lettrice, che legge con desiderio e nel mentre vigila sulla efficacia dei racconti e sulla bellezza delle storie.

Sono tornata a rileggere il prologo, più volte, e ho riletto anche le righe finali col loro sapore di geometria applicata alla vita. Niente, mi sento abbandonata da Elisabetta. Che poteva avanzare di più nel suo futuro, dargli più luce. Fino a superare l’ostacolo, superare la paura di tornare nella solitudine di non-madre.

Nota bibliografica:

  • Valeria Parrella, Almarina, Einaudi, 2019

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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