Preparo la partenza per Mantova con una felicità nuova, nonostante sia l’ennesima partecipazione al Festivaletteratura.
Ma stavolta non me l’aspettavo di essere di nuovo reclutata come volontaria al servizio eventi, ho pensato di andare solo per un paio di giornate col pass della stampa come lo scorso anno, già contenta di questo privilegiato assaggio.
Invece presterò servizio per tutte le giornate del Festival, da mercoledì 7 a domenica 11 settembre e tornerò col gruppo nel mattino di lunedì.
Già, il gruppo: sono cinque studenti del Liceo Ariosto e la amica ed ex collega che li accompagna. Saremo insieme nel viaggio, nella palestra dove alloggeremo e anche alla postazione di San Sebastiano, almeno noi due prof.
Mi sentirò ancora in servizio presso il mio liceo di sempre, ancora dentro il gruppo di lettura che chiamiamo Galeotto fu il libro.
La notizia che andrò a Mantova ha quasi spazzato via dai pensieri il libro di Alessandro Carlini [Qui], che devo presentare alla Biblioteca di Poggio Renatico poco dopo il rientro, mercoledì 14 settembre.
Ho detto “quasi” perché in realtà continuo ad abitare anche l’intenso universo di questo libro che ha per titolo inquietante Il nome del male, lo visito con senso di appartenenza ma a intervalli irregolari.
Nel frattempo la mente scappa a Mantova: leggo il programma cartaceo, lasciando segni di colori diversi sugli eventi più interessanti, verde per la musica, rosa per gli incontri di letteratura, blu per i grandi temi del presente e per gli autori imperdibili.
Penso a come riempire la valigia ideale che deve contenere un po’ di tutto: arredo letto, farmacia e beauty, abbigliamento e molto altro.
Settembre ha proprio cambiato le mie giornate, ho salutato il ritmo pigro di agosto e ritrovato il clima più fresco e più attivo della stagione autunnale.
Si intensificano le relazioni, scrivo e mi scrivono mail gli interlocutori del vivere sociale, soprattutto mi cade addosso il carico greve delle pastoie burocratiche in cui incappo a ogni piccolo atto da cittadina di questo paese.
Leggo. Ho ripreso a farlo ai ritmi consueti. E ascolto meno i notiziari tv, nella convinzione che le notizie dilaganti sulla campagna elettorale siano in buona misura eludibili.
Ma veniamo al libro di Alessandro Carlini che è uscito lo scorso aprile presso Newton Compton e rappresenta il sequel dell’altro recente romanzo, Gli sciacalli, uscito presso lo stesso editore nel 2021.
Li ho letti in ordine di edizione e in giorni ravvicinati, dunque mi rimane in testa una sorta di spumosa somma delle loro storie, la conoscenza ampliata del protagonista, il procuratore Aldo Marano, che investiga su assassini efferati nella Ferrara violenta degli ultimi anni di guerra e nell’immediato dopoguerra, tra il 1944 e il 1946.
Mi avvolge il quadro storico della città e della nazione uscita dalla Repubblica di Salò e dal conflitto civile senza avere una bussola, con gli Alleati in casa e i voltagabbana che aumentano ogni minuto. Mi intrigano le spire del romanzo giallo (o piuttosto del genere noir?) che Carlini padroneggia bene nel distribuire gli svelamenti della investigazione.
Nel primo romanzo Marano si occupa del caso della Fiat 1100 nera: una banda di feroci assassini percorre la provincia compiendo omicidi e vendette, nel buio della notte si vedono appena le luci e la targa dell’auto che uccide e poi si lancia a folle velocità facendo perdere ogni traccia.
Marano ipotizza che la banda sia formata da ex partigiani, ma anche da falsi partigiani ex repubblichini, che mascherano con la loro vendetta una diversa pulsione criminale alla conquista di denaro e potere.
Sono sciacalli che approfittano del momento caotico in cui anche Ferrara si trova per seminare violenza; hanno appoggi importanti a livello politico e non sembrano avere ostacoli sulle strade polverose del contado.
Li combatte un magistrato che crede nella legge, che ne auspica il ritorno come principio di ordine contro il caos postbellico. Nel romanzo la figura letteraria di Aldo Marano riprende quella reale del magistrato Antonio Buono [Qui]; del resto la situazione storica è ricostruita dall’autore sulla base di documenti d’archivio, alcuni dei quali sono inediti.
Per esempio molte delle azioni criminali della banda sono riprese da verbali originali delle forze dell’ordine e da materiale giudiziario relativo al processo ai capi della banda, istituito presso il Tribunale di Ancona e finito con l’applicazione dell’amnistia Togliatti.
Storia e finzione si intrecciano, ‘manzonianamente’, anche nell’ultimo libro: fin dal titolo la promessa è di immergere il lettore in una nuova serie di “atti tenebrosi” da romanzo gotico. Così è.
Le indagini del dottor Marano sono rivolte a un efferato omicidio avvenuto nel maggio del 1944 in una villa fuori città: è stata violentata e poi uccisa la contessa Maria Gherardini Franchi.
Il caso fino a quel momento insoluto è avvolto da segreti e misteri: mentre indaga Marano scopre che la vicenda si incrocia con i delitti della banda della 1100 nera.
In più, tra le insidie e la impaurita omertà dei testimoni che interroga Marano raccoglie alcuni segni che non può che qualificare come diabolici, viene a conoscere credenze e leggende del territorio, che lo spingono ad andare oltre l’interpretazione razionale dei fatti.
Deve mettere in gioco tutto ciò in cui crede se vuole dare un nome al male. Il finale, che è un finale aperto e non consolatorio, come in un giallo classico, non risponde completamente alla domanda. Nel senso che del nome tanto atteso vengono svelate solo alcune lettere…
Viene spiegata per intero, invece, la etimologia del nome Aldo: l’origine è longobarda, e aldio indica il semilibero, “colui che non si poteva allontanare dalla terra dove il padrone lo aveva collocato.
Non era ammesso nell’esercito né poteva partecipare alle assemblee del popolo… Forse il suo padrone è la legge, e il suo nome sta lì a ricordarglielo sempre”, anche quando lui viene tentato dalla vendetta verso i colpevoli che lo ossessionano con la loro efferatezza e la immunità a cui sembrano essersi assicurati, diabolicamente. Il nome è dunque uno stigma.
La città di Bassani, quella raccontata in Una notte del ‘43, si arricchisce di nuovi tasselli storici e di nuova invenzione letteraria sotto la penna di Alessandro Carlini.
Il linguaggio in quest’ultimo romanzo ha soluzioni espressive ancor più coinvolgenti rispetto al precedente, ha una maggiore carica allusiva e si avvale di espedienti formali cari alla nostra tradizione poetica, non solo narrativa.
Il registro espressivo non è mai neutro, perché il narratore pur utilizzando la terza persona assume il punto di vista dei personaggi e di Aldo Marano innanzitutto.
Nelle analisi psicologiche e anche nella esposizione di azioni e pensieri prende corpo il mondo interiore di ogni personaggio, nei dialoghi le parole, con cui ognuno si esprime, emanano coerenza col quel mondo e il lettore trova davanti a sé figure a tutto tondo che risultano credibili.
Carlini a Mantova non c’è. Devo aspettare il dopo Mantova per incontrarlo e fare la sua conoscenza. Ora lo percepisco lontano, posizionato al di là dell’universo del ventiseiesimo Festival.
Tuttavia se le cose andranno come di solito accade quando ci si addentra nella letteratura, dall’universo di Mantova tornerò carica di nuove ricche suggestioni.
Credo che alla biblioteca del mio paese porterò nuove domande, o domande meglio pensate da porre al nostro ospite.
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
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Roberta Barbieri
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