UNA STORIA DIMENTICATA
Cadde nella ghisa incandescente e sparì: ecco cosa rimane dell’Operaio Ignoto
Tempo di lettura: 8 minuti
Cadde in un carro siluro. E subito si liquefece nella ghisa incandescente.
Era un operaio dell’Italsider di Taranto.
I funerali si celebrarono con una bara in cui furono posti settanta chili di ghisa.
Per anni il carro siluro, con l’operaio dentro, fu parcheggiato in un binario morto della fabbrica. Perché nessuno se la sentiva di rimetterlo in produzione.
Poi se ne è persa memoria.
Nessuno più si ricorda il suo nome e cognome.
Si è perso anche l’anno della morte.
Nessuna strada è mai stata intitolata a lui.
Ma i vecchi operai ancora in vita si ricordano questa storia, ed è uno di loro che la raccontò dieci anni fa in piazza Masaccio, nel quartiere Tamburi di Taranto. Gli altri ex operai aggiunsero in quell’occasione alcuni particolari, a conferma dell’accaduto.
Oggi decido di scriverne, prima che la già sbiadita memoria si sbiadisca del tutto.
(Taranto, 4 ottobre 2022)
Ed è bastato lanciare una gara di cooperazione fra persone che ne vogliono recuperare la memoria, per far emergere i dettagli di una storia tramandata oralmente ma mai scritta, chissà perché. Molti ricordano quei settanta chili di ghina nella bara, dato che il corpo dell’operaio non venne mai recuperato.
Qui di seguito riporto i ricordi che tentano di ricostruire la storia. A volte i ricordi non combaciano, ma qui di seguito ne cito alcuni.
Una signora ha scritto: “Ricordo perfettamente quel giorno in cui mio padre di ritorno dal lavoro ci raccontò di quell’operaio, un suo lontano parente! Se ricordo bene i suoi colleghi misero il suo casco su quei 70 chili di ghisa! Sua moglie fu indennizzata e nessuno ne parlò più!”
Alla domanda “che anno era?” l’ex operaio Peppe Roberto risponde: “Era il 1981”. E aggiunge: “Non so con precisione se il carro siluro fosse pieno o parzialmente, comunque la ghisa lì aveva una temperatura di 1520 gradi”.
Francesco scrive riportando i ricordi di suo padre, testimone dell’accaduto: “Quando cadde nel siluro si vide una fiammata, lo vaporizzò. Sicuramente non ebbe nemmeno il tempo di capire quello che stava per capitargli. Tutto avvenne in un lampo. E così pure in un nulla svanì la faccenda”.
Silvia scrive: “E’ incredibile che un fatto cosi’ grave sia passato completamente sotto silenzio”.
Un’altra testimonianza: “Mio padre fu testimone di questo episodio drammatico avvenuto in un periodo in cui gli incidenti là dentro erano il pane quotidiano. Mi ha raccontato che gli operai, tra cui lo sfortunato che morì, lavoravano vicino a un macchinario dotato di volano ad avviamento manuale. Questo volano, di fatto un grosso manubrio metallico, era dotato di un asse saldato di traverso al manubrio, asse che serviva per muoverlo. Per fare sì che potessero impugnare l’asse più operai, era stata fatta una “prolunga” saldando all’asse un pezzo di tubo più lungo e in questo modo due o tre operai affiancati potevano impugnare il tubo e far forza assieme per avviare il volano. Una volta avviato, il volano girava assieme al motore e questo, purtroppo, assieme all’asse che gli operai avevano modificato allungandolo, e occorreva prestare attenzione a quel tubo che roteava con il manubrio. In pratica proprio quel tubo agganciò la tuta del malcapitato e lo catapultò in aria. Finì così nel carro siluro. Mio padre me ne ha parlato qualche volta di questo episodio. Ma in generale l’epoca Italsider la ricorda come caotica, con moltitudini di operai ovunque e rottami dappertutto. E tanti, troppi incidenti”.
Peppe Roberto interviene: “Sì, confermo la dinamica dell’incidente, me lo raccontarono gli altri operai presenti”.
Altra conferma: “Il tubo che girava lo agganciò da dietro alla cinta della tuta e lo lanciò in aria sotto gli occhi dei suoi colleghi, nessuno ebbe modo e tempo di fare nulla!”
E una signora aggiunge una storia inquietante: “Due mesi dopo capitò anche a mio marito la stessa caduta ma ebbe la fortuna di cadere sulla parte meccanica portando solo una frattura al piede”.
Molto articolato l’intervento di Francesco Caiazzo: “Ho svolto una tesi in storia delle donne sulla fabbrica di Taranto. Le donne c’erano! Qualcuno si ricorda lo sciopero delle impiegate ad inizio anni Settanta? Sarebbe interessante discuterne insieme. E ho registrato diverse storie di vita raccontate da operai, cittadini ecc. Un operaio entrato nel 1974 mi ha raccontato: «Credo che non eravamo ancora usciti e sentimmo che Capone [nome fittizio] era caduto nel carro siluro. Oddio, un amico, un collega. Era successo che… i carri siluri contengono circa 240 tonnellate di ghisa e quello quando doveva andare in colata. . . e c’erano due comandi, quello pneumatico che stava giù e poi a due metri stava quello manuale nel caso in cui [quello pneumatico] si bloccava […]. C’erano due operai, ci fu un malinteso senz’altro, che poi lì non si capì niente, imbrogliarono un po’ le carte. Uno stava sopra alla manovella e dato che quando tu usavi il pneumatico, le due assi laterali che giravi automaticamente facevano un giro: o non si capirono o quello che stava giù non vide, come successe non lo so. Azionò il pneumatico, prese l’operaio e lo butto nel carro siluro e scoppiò, era bollente, era rosso, scoppiò e recuperarono solo l’elmetto e niente più. Anzi poi ho saputo che l’azienda lo diede per disperso perché non si trovò traccia. Fu dato per disperso, il resto non lo so come è andato […]. La potenza che c’aveva a quell’epoca l’Italsider imbrogliava tutto. Pure oggi si camuffa un po’ tutto. La moglie fece causa, pero i magistrati lo diedero per disperso». Credo sia molto importante quello che richiama il professore Alessandro Marescotti, cioè la necessità e insieme il bisogno di registrare anche queste memorie del lavoro in fabbrica. Io ho utilizzato la storia orale, cioè una storia ricostruita anche con l’uso delle fonti orali, vale a dire storie di vita raccontate dalle persone coinvolte. Credo sia una possibilità per arricchire la memoria pubblica di cosa ha significato la siderurgia per Taranto e soprattutto per i tarantini. Un abbraccio e buon lavoro a tutte e a tutti”.
La storia è stata rilanciata da Made in Taranto. Il social network è molto seguito. E riesce a raccogliere altre storie connesse a quella principale. Daniela scrive: “Ricordo che andavo a scuola, forse era il quarto o il quinto liceo. Sopraggiunse la notizia che un dipendente dell’ilva era caduto nella colata di ghisa. Molti di noi non riuscirono più a concentrarsi nella giornata di studio avendo il padre che lavorava li. Ricordo il freddo che provai quel giorno fino al ritorno a casa e il sollievo di sapere che non era toccata a mio padre”.
Leanardo Capobianco segnala: “Mi sia consentito citare il mio libro ‘Italsider, Lavoro e Paura’, un libro di oltre 300 pagine e circa 200 foto dello stabilimento dove si narra di tutto, incidenti compresi. Si trova su Amazon”.
Mimma ricorda: “Era un collega di mio zio! Lo ricordo benissimo! E ricordo la disperazione di mio zio, poi morto di tumore, grazie al luogo dove lavorava!”
Girolamo riceve 17 like per questo commento: “Quel carro siluro doveva essere posizionato in un luogo della città di Taranto. Doveva essere l’emblema degli operai morti in quella fabbrica”.
Ma Grazia annota mestamente: “Mio marito me l’ha raccontata tante volte questa storia, lui era lì vicino. Quanti fantasmi si portano dentro gli operai in pensione dell’Italsider/Ilva!!”
Marcella: “Ricordo quella storia… ce la raccontò disperato mio padre quando tornò dal turno… c’era molta solidarietà fra il personale che rischiava la vita per portare il pane a casa ogni giorno…”
La segue a ruota Donata: “Me ne ha sempre parlato mio padre di questo incidente, ha lavorato all’Ilva per tanti anni… Agghiacciante”.
Rosanna: “Purtroppo era lo zio di mia madre”.
Carlo: “Ricordo perfettamente quell’infortunio, come ricordo quello dell’acciaieria in cui morì un capo turno, caduto nell’acciaio incandescente e di cui trovarono solo il casco che galleggiava sulle scorie!!”
Antonio: “Mio padre era presente e ha visto tutta la scena dell’incidente, rimase solo l’elmetto, bruttissima storia”.
Annalisa: “Un mio zio era tra gli operai che assistettero a questa tragedia. Il non poter far nulla per questo collega lo sconvolse tantissimo. Io ero piccola, ma ricordo ancora le sue parole nel raccontarlo in famiglia”.
Franco: “Mio suocero era presente e mi ha sempre raccontato questa triste storia con tutti i dettagli dell’incidente: 70 chili di ghisa nella bara ecc. ecc.”.
Mario: “C’ero in quel periodo, fu sotto l’altoforno 2, scivolò nella bocca del carro siluro mentre lavorava, fu una delle morti più brutte in quella Italsider”.
Fabio interviene in qualità di testimone: “Quel giorno ero a pochi metri dal punto dove si è verificata la disgrazia… Una serie di coincidenze raccapriccianti”. Rodolfo gli chiede di raccontare e Fabio scrive: “Non è affatto bello dover ricordare certi tragici incidenti… In poche semplici (e tristi) parole: all’apertura della grata di sicurezza che copre il foro di colata sotto il quale si posizione la bocca del carro siluro, il poverino è stato urtato dal gancio della gruetta, perdendo così l’equilibrio e… (il carro siluro è rivestito internamente da materiale refrattario che viene preriscaldato a circa 900°C per evitare lo shock termico, quando viene introdotta la ghisa fusa arriva a circa 1150°C)”.
Sergio: “Io me lo ricordo bene attraverso i racconti di mio padre che lì dentro c’è rimasto trent’anni. Quello fu forse l’episodio più brutto ma solo uno dei tanti”.
Michele ci lavora lì, e scrive: “Mio nonno mi ha raccontato spesso quest’episodio ed ogni giorno che passo affianco a quei carri siluro mi viene in mente per ricordarmi di fare sempre attenzione”.
Gaetano: “Io c’ero, cadde dal piano di colata dell’altoforno nella bocca del carro siluro”.
Francesco: “Ricordo perfettamente, quel giorno eravamo nelle vicinanze a lavorare”.
Qualcosa nel racconto per Luana non torna, e scrive: “Scusate, il povero cristo è stato dato per disperso, non per morto, perché nessun collega vide cadere giù nel carro l’operaio. Ora leggo i commenti e quasi tutti i presenti videro precipitare giù il collega… boh…”
Salvatore: “Se non sbaglio l’operaio si chiamava Sabino Sernesi”. Mia obiezione: “Mi hanno dato altri due nominativi diversi…” E Francesco risponde: “Mi ricordo che quando entravi nella vecchia direzione c era una bramma di acciaio che portava questo nome”.
Gabriele: “Se vuole contatti mio fratello e si faccia raccontare la morte: Marco era il migliore amico di mio fratello”.
Peppe Roberto prova a ricordare: “L’anno era il 1981, il cognome non sono sicuro ma mi pare che facesse Gagliardi”.
Michele conferma: “A futura memoria si chiamava Antonio Gagliardi, ex emigrato lucano. In Germania e poi nell’Italsider. Lavorava al mio fianco quel giorno”. Ma secondo Michele l’anno è il 1978, non il 1981.
Giuseppe viene contestato ma vuole scrivere la sua: “Sono gli effetti collateri di una Storia, di un vissuto comunitario e personale che d’altro giornal online diretto dallo stesso Acanto ha salvato molte molte più vite di quante ne sono trapassate a causa sua, di una Storia che ha sollevato la dignità e retto la vita di innumerevoli persone fino a cambiare la storia di un intero territorio”.
a.marescotti@peacelink.org
Nota: Il testo presente compone 2 articoli dell’amico Alessandro Marescotti usciti il 29 settembre e il 4 ottobre su Peacelink)
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ALESSANDRO MARESCOTTI
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it
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