Una forza che ha cara la vita
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Una forza che ha cara la vita
American primitives è la quinta raccolta poetica di Mary Oliver pubblicata negli Stati Uniti nel 1983 e tradotta in Italia nel 2022 da Paola Loreto per la bianca Einaudi con il titolo Primitivo americano.
La lirica di Mary Oliver rientra nel movimento letterario conosciuto come ecopoetry. Nata nel 1935 a Maple Hills Heights, un sobborgo di Cleveland nell’Ohio, la Oliver ha vissuto a Provincetown, Massachusetts e Hobe Sound in Florida fino al 2019, anno della sua morte.
Oliver è una voce poetica molto apprezzata negli Stati Uniti: il suo pensiero ecologista, erede della migliore tradizione americana partita da Whitman, Thoreau, e proseguita dai poeti della beat generation fino ad arrivare ai contemporanei Mark Strand e Louise Gluck (Nobel per la letteratura nel 2020), ha sempre ricevuto ampi consensi tanto da trasformare le sue raccolte in veri e propri bestsellers, e lei nel « poeta americano di gran lunga più venduto»(New York Times).
Il ritardo con il quale l’abbiamo scoperta qui in Italia è quasi sicuramente dovuto al gusto (e al retrogusto) del panorama poetico nazionale: rivolto più a chi scrive e meno a chi legge (quanti, quanti concorsi poetici!); sempre devoto e ossequioso alle solite chiese chiuse e sempre più auto (auto)-riferito (esibito).
La poesia della Oliver è stata probabilmente considerata troppo semplice, diretta e poco sperimentale per i palati raffinati nostrani i quali, evidentemente, non riescono a vedere nella poesia ciò che la Oliver, così semplicemente, vede e ci fa vedere : «una forza che ha cara la vita [e che] richiede una visione» ( M. Oliver, A Poetry Handbook , Houghton Mifflin Ed., 2024).
È una visione che Paola Loreto, nella sua magnifica prefazione, ha definito dionisiaca:
“Primitivo americano è un libro dionisiaco, … un libro dell’esultanza per l’immersione nella proliferazione disordinata e incontrollata della natura […]. Le poesie [di Primitivo americano] celebrano sensazioni fisiche primordiali come la percezione del pericolo del freddo estremo, o dell’appagamento nel nutrirsi di altra materia naturale che è al tempo stesso diversa e uguale a sé […].
Oliver mette in scena sia la metamorfosi del non-umano in umano – quando, folgorata dalla meraviglia, descrive una cerva che partorisce come una donna bellissima – sia dell’umano nel non-umano, quando descrive se stessa come un orso che rapina un favo di miele o se ne riempie la bocca con una grossa zampa…”
Si avverte nella poesia della Oliver questa forza, che non può essere identificata né catturata, ma che pare esistere allo stesso modo di un… mito e, si sa, il mito è una miniatura di un evento reale o fittizio. Il processo di poetare (creare), riducendo una “cosmologia” alla scala dei propri pensieri e sensazioni, è di fatto un processo di miniaturizzazione: «Potrei mostrarti l’infinito in un guscio di noce», dice Amleto.
Secondo questo criterio il segreto del tempo storico non è rappresentato dal suo scorrere e che, nel trascorrere, il tempo passi fino a diventare passato. No, non è questo. Il vero segreto del tempo è rappresentato dal suo diventare sempre più piccolo, fino a ridursi a un puntino e a rendersi invisibile alla nostra vista.
In questa sorta di prospettivismo, per così dire, mitico, la morte umana non è uno svanire nel nulla, ma il compimento di una necessità: iniziare una nuova rigenerazione nelle “cascate di un interminabile cambiamento” (“Unending/waterfall of change”). E la Oliver, in ogni suo verso, pare sussurrarci proprio questo, smuovendo ricordi umani e animali, ponendoci in una prospettiva tale da consentire la vista non solo della noce, ma anche dell’universo in essa racchiuso .
In questa revisione del rapporto fra io e mondo, tipica del pensiero ecologista contemporaneo, la vecchia e “catastrofica” prospettiva antropo-centrica lascia il posto a quella eco-centrica e relazionale tra umano e non umano ed è per grazia di tale prospettiva che la Poesia di Mary Oliver manifesta quella forza cara alla vita che potremmo chiamare semplicemente fede.
TECUMSEH*
Sono scesa, non molto tempo fa,
al Mad River, mi sono inginocchiata sotto i salici
e ho bevuto alla sua corrente increspata,
qualsiasi pazzia sia stata c’è una malattia
peggiore del rischio di morire ed è dimenticare
quello che non dovremmo dimenticare mai.
Tecumseh viveva qui.
Le ferite del passato
sono ignorate ma restano attaccate
come i rifiuti impigliati tra i rami gialli,
giornali e sacchetti di plastica, dopo le piogge.
Dove sono gli Shawnee adesso?
Lo sai? O dovresti
scrivere a Washington, e anche allora,
qualsiasi cosa ti dicessero,
ci crederesti? A volte
vorrei dipingermi il corpo di rosso e uscire
nella neve brillante
a morire.
Il suo nome significava Stella Cadente.
Dalla regione del Mad River a nord fino al confine
raccolse le tribù
e le armò ancora una volta. Giurò
di tenere l’Ohio e ci mise
più di vent’anni a perderlo.
Dopo lo scontro finale e cruento, al Thames,
fu finita, salvo che
il suo corpo non si riusciva a trovare.
Non fu mai trovato,
e puoi farne quello che vuoi, dire
che la sua gente venne tra le foglie nere della notte
per trascinarlo a una tomba segreta, o che
si ritramutò in un ragazzino e saltò
in una canoa di betulla e se ne tornò
a casa remando giù per i fiumi. Comunque,
almeno di questo sono sicura: se lo incontriamo
lo riconosceremo,
sarà ancora
così arrabbiato.
* ) Tecumseh (“Stella cadente” o “Cometa fiammeggiante”) fu un capo Shawnee, a cui si deve una strenua resistenza all’espansione americana nell’odierna regione dei Grandi Laghi organizzando una confederazione delle tribù dei nativi nord-occidentali. Nato a Springfield, nell’Ohio, intorno al 1768, morì nel 1813, nella battaglia presso il fiume Thames, in Canada.
E davvero la storia potrebbe essere come una … cometa fiammeggiante, che si riduce a un puntino freddo e buio quando si allontana per rigenerarsi nuovamente in una stella splendente quando ritorna.
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/
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Giuseppe Ferrara
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
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