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Un universitario in pandemia

Rivolgo questo articolo principalmente a noi giovani che abbiamo trascorso ben due anni di sessioni di esami con l’ansia di contrarre il covid. La pandemia ovviamente non è stata facile per nessuno, ma volevo provare ad esternare il mio punto di vista di universitaria (presentato con giusto un pizzico di ironia, perché la realtà così com’è  è già pesa di suo).

Febbraio 2020. Finalmente, dopo le solite ansie da esame e un bel sospiro di sollievo di fine febbraio, e quindi di fine sessione, si sta per dare inizio al nuovo semestre, ergo lezioni, nuovi incontri, aperitivi con amici, libertà da post esami e giusto un pizzico di spensieratezza, quella tanto agognata tra una sessione e l’altra.

Ma, ecco i primissimi casi di Corona virus nel nord Italia. “Vabbè, due o tre casi, non andrà oltre, passerà in fretta” – dicevamo, o meglio speravamo, mentre quello che era inizialmente un piccolo timore, che di tanto in tanto bisbigliava dentro di noi i più terribili presagi, stava diventando vero e proprio terrore.

I casi aumentano, scendono velocemente in tutta Italia, e in pochissime settimane ci ritroviamo in lockdown. Trauma. Ci ritroviamo tutti chiusi in casa a fare pizze, fingendo che in fondo vada tutto bene .“Sopravviveremo. Basta rimanere in casa e usare l’Amuchina. Passerà presto” – ripetiamo a noi stessi, illudendoci.

Iniziano le lezioni on line, c’è chi le ama, chi le odia, a chi non cambia nulla, perché le lezioni fanno schifo comunque. Le connessioni vanno e vengono, i professori spiegano, ricordando vagamente un rigido C3PO mentre tenta di farsi capire il più possibile, anche se le difficoltà sono tante.

Intanto siamo chiusi in casa. Si comunica per messaggi, chiamate whatsapp o meet, niente più birrozzo e piadina su una panchina a chiacchierare al parco, niente più gruppi di “studio” in aula studio, niente più passeggiate, serate al cinema, niente più vita vera.

Molti si sono isolati, cercando di rispettare il più possibile le regole, alcuni hanno tentato di resistere all’isolamento totale, provando a incontrarsi al reparto surgelati al supermercato, oppure “casualmente” facendo attività fisica (mai fatta prima, ma pur di uscire di casa si sarebbe stati disposti anche a fare “sport”, poco importava se con un kebab in mano al passo di lumaca).

I casi aumentano, il covid avanza imperturbabile, senza pietà, nemmeno davanti ai cadaveri cremati in serie. I telegiornali non fanno che ricordarci il numero di morti, gli intubati, quanto rischiamo se usciamo di casa.

Nel frattempo però, dobbiamo ancora dare i nostri esami. Dobbiamo studiare, mantenere la calma, il controllo, la concentrazione, l’ottimismo. L’OTTIMISMO, come no. Più volte potremmo aver considerato, ma solo di sfuggita eh, la rinuncia agli studi.

“Niente più ansie! Nel peggiore dei casi mi apro una pizzeria, tanto mi sono esercitato durante il lockdown!” – potremmo aver solo pensato di mollare tutto per un attimo, perché quello che ci veniva richiesto in quel momento ci sembrava decisamente più grande di noi.

Mantenere la calma, essere ligi al dovere, rispettare tutte le regole, quando fuori c’era una pandemia e avremmo potuto rischiare la vita in qualsiasi momento, magari andando a comprare proprio il lievito, oppure mentre il disgraziato di turno ci tossiva in faccia durante la fila in cassa.

Dovevamo rimanere segregati a seguire lezioni al pc per ore, studiare dando il meglio di noi. Ma l’isolamento e l’enorme stress sicuramente non avranno influito positivamente sulla nostra già altalenante autostima da studente universitario.

Non uscendo, l’ansia, già presente in noi dal momento in cui abbiamo avuto la brillante idea di iscriverci all’università, non ha fatto altro che aumentare, le insicurezze sono triplicate, la paura di non farcela era il buongiorno del nostro caro Super Io (quello str**zo pignolo).

Sono usciti anche i vaccini. Una/due dosi e passa la paura. Qualche morto è scappato anche lì, pochissimi – dicono, ma vallo a spiegare alla mia amigdala, stressata già di suo, che tra un esame e l’altro si deve ricordare ogni volta, tipo schiaffone allegorico, che “ah sì si può morire di covid, NON DIMENTICARLO, MAI”.

Ma non c’è due senza tre e ci sarà la terza dose anche per te! Così tutti salvi saremo, finché un’altra dose non faremo! (forse, chi lo sa, le stime sono pur sempre stime, la scienza sembra diventata un’opinione, una chiacchiera dal parrucchiere, tra un “secondo me” e un “lo scopriremo solo vivendo, se vivremo”).

E poi spunta il green pass, che ti dice dove andare e dove non puoi andare, cosa puoi fare e cosa no (cosa che probabilmente, a sentirla un paio di anni fa, ci avrebbe fatto accapponare la pelle), per tutelare la salute del cittadino, OVVIAMENTE.

Un sunto velocissimo è che se sei in regola con il set di vaccini completo puoi fare quello che ti pare, se ne hai solo due di dosi ti scade la libertà dopo sei mesi, con una dose non conti nulla e se sei un lurido no-vax sei peggio dello sterco sotto lo zoccolo di un cavallo, “irresponsabile!” – dicono.

Da questo ormai famosissimo pass dipende il lavoro, l’università, la vita sociale e la cosa più importante, la tua sanità mentale. In pratica un po’ tutto. E ci sta anche che qualcuno la perda di tanto in tanto, direi che è giustificato. Ma vabbè, noi ci proviamo a mantenere il controllo.

Anche se resta piuttosto difficile: se accendi la tv vedi la conta dei morti, presentata e ripresentata senza sosta. Ma che morti? Tutti i morti, di covid, per covid, l’ultracentenario investito da una bici, tutti, perché lì non si esclude nessuno. Escludiamo solo i non vaccinati, quelli sì, bastardi.

Persino Sanremo, il festival della canzone italiana che ha ben poco a che fare con tutto ciò, quella che sarebbe dovuta essere una delle più nobili forme della celebrazione artistica italiana, uno svago, un tentativo leggero quanto piacevole di staccare, anche se per poco, dall’irrefrenabile lista di chi non ce l’ha fatta, ha dedicato a chi, per libera scelta o per ragioni di salute, ha deciso di non vaccinarsi, o a chi ha avuto effetti avversi, un siparietto a dir poco meschino, di livello misero, che ha sfoggiato “comicità” da saltimbanco o da giullare di corte disperato che, poveretto, se non si esibisce il re gli taglia la testa!

Tutto questo non aiuta di certo a scrivere un elogio sulla società che stiamo vivendo, che avrebbe da rivedere un paio di cosucce, dalla gestione dell’informazione, la lievissima tendenza alla discriminazione, la sanità, al governo che sembra voler giocare con la nostra pazienza, imponendoci dei rebus sgrammaticati, altrimenti detti dpcm, sfornati come biscottini, pensando sicuramente di farci divertire un po’, facendoci trascorrere quei dieci minuti di tempo libero a decifrare i lampi di genio concepiti in una notte (e si vede) dalla cabina di regia.

Intanto i casi aumentano (non hanno mai smesso in realtà, in un saliscendi continuo, fatta eccezione per l’estate – meriterà una vacanza anche il covid e che cavolo!) e insieme a loro anche l’ansia, non sia mai che ti abbandoni un attimo. Nuova variante, nuovi casi, anche i vaccinati (e lo sono quasi tutti, quindi accipicchia!) si contagiano, ma è solo influenza! Ma non bisogna abbassare la guardia! Ci contagerà tutti! Nessuno finisce più in terapia intensiva! Moriremo tutti (prima o poi, sia chiaro)!

In tutto ciò dobbiamo anche sostenere qualche esame, perché, anche se è tremendamente difficile, non dobbiamo dimenticare che, in questo mondo che ormai sembra fatto solo di covid, ci sono anche gli esami, il lavoro, la famiglia, la speranza che tutto questo gigantesco incubo prima o poi finirà (meglio prima che poi).

E l’universitario medio, in tutto ciò, continua a studiare, forse con un (bel) po’ di concentrazione in meno (che già si andava elemosinando prima del covid), tra un attacco d’ansia e l’altro, fa i suoi esami, o almeno ci prova, qualcuno va bene,  qualcun altro un po’ meno, ma che importa, siamo ancora qui, a studiare sì, ma vivi, e se stiamo qui a lamentarci leggendo questo articolo si vede che non abbiamo nient’altro di più importante a cui pensare, o di cui preoccuparci se non ridere (anche se un po’ amaramente) di questo articoletto da strapazzo, scritto per la stessa ragione per cui voi lo state leggendo, per staccare un po’, per sentirsi capiti, per condividere uno stato d’animo o per sentirsi simbolicamente solidali.

Solitudine, senso di frustrazione, paura di non riuscire a raggiungere i propri obiettivi, di non stare nei tempi prestabiliti, angoscia, insicurezza, sono tutti sentimenti normalissimi, che hanno sempre fatto parte dell’universitario medio dall’alba dei tempi e che sicuramente hanno acquistato un considerevole peso specifico con questa pandemia, pesando sulle nostre spalle e sui nostri polmoni come macigni.

Con questo piccolo articolo invito chi sta leggendo a condividere, se vuole, la sua piccola storia personale della pandemia, un sentimento, delle semplici sensazioni o opinioni su quello che ha vissuto e che sta ancora vivendo in questo periodo difficile, con il solo scopo di non sentirsi soli, di sentirsi compresi da tanti altri studenti, che probabilmente ci sono già passati, o che stanno vivendo lo stesso tipo di esperienza anche ora.

Per leggere gli articoli di Giusy De Nittis su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

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Giusy de Nittis

Mi chiamo Giusy de Nittis, ho conseguito la mia laurea magistrale in Lingue e letterature straniere l’anno scorso e da allora è iniziata la mia ricerca senza sosta di lavori e lavoretti in lungo e in largo, senza essere riuscita a trovare nulla di soddisfacente che rispettasse i miei anni di studio e le ore di lavoro richieste negli annunci. Così mi sono arresa ai tirocini, che di per sé sarebbero un ottimo modo per cominciare, se non offrissero paghe bassissime per un orario di lavoro full time. Scrivo da quando sono bambina e cercare di raccontare esperienze, spesso in chiave ironica, mi aiuta sempre. Propongo dunque alla vostra attenzione questo mio piccolo stralcio di vita, nella speranza che ci possa essere per me la possibilità di una collaborazione con voi in futuro o che comunque questo mio pezzetto di esistenza venga pubblicato, per dare voce ad una crudele realtà contro cui noi giovani siamo costretti a scontrarci, dopo anni di studio e sacrifici.

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