Un altro naufragio. Ma questa foto non serve a nulla
E queste? Anche queste foto non raccontano niente…
Eccetera eccetera eccetera …
A volte una foto, una “bella foto”, può da sola raccontare tutta una storia. E’ stata l’intuizione di un geniale quotidiano del secolo scorso, si chiamava Lotta continua (il giornale, non il movimento politico) e aveva inventato la “foto notizia”: una fotografia da sola, senza alcun commento, nessuna didascalia… e quell’immagine parlava, raccontava da sola un’intera notizia. Anche a Periscopio abbiamo una grande considerazione per le foto. Perché le immagini possono parlare, come le parole, a volte di più delle parole. Abbiamo anche creato una rubrica intitolata Immaginario.
A volte però il gioco della “foto notizia” non funziona. Cerchi l’immagine giusta, ne scegli una, poi un’altra, un’altra ancora, ma ti accorgi che quelle immagini non servono a niente, non parlano, rimangono mute. Come quando prendi in mano una fotografia e l’immagine sparisce sotto i tuoi occhi, alla fine è solo un foglio bianco.
Come adesso. Dove trovo la foto giusta? Ora che vorrei dire qualcosa dell’ultimo naufragio “al largo della Libia”, che uno potrebbe dire anche “al largo dell’Italia”, perché siamo sempre nello stesso mare, nel nostro Mediterraneo, ma tutti diciamo “al largo della Libia”, così siamo più tranquilli.
Riporto la nota di agenzia: “11 i corpi recuperati, 62 i dispersi. solo 7 i salvati, a seguito di “un tragico naufragio” al largo della costa della Libia: lo ha riferito l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Secondo le informazioni disponibili, l’incidente si è verificato ieri. “L’imbarcazione”, riferisce Oim in un messaggio diffuso anche sui social network, “trasportava circa 80 persone e sarebbe partita da Qasr Alkayar diretta per l’Europa”.
La notizia con annessa foto di questo naufragio (“tragico”, concede la nota di agenzia), ha fatto capolino sui media, ma solo per un attimo per scomparire dopo meno di 24 ore. Una strage che nessuno ha più voglia e tempo di raccontare: 73 morti anonime, 73 sommersi, 73 inghiottiti dal mare e velocemente digeriti dai media. Cancellati. Proprio come una foto che svanisce.
I naufragi sono tutti uguali, almeno così dovrebbe essere, se diamo retta al vocabolario Treccani: ” naufràgio s. m. [dal lat. naufragium, comp. di navis «nave» e tema di frangĕre «rompere»]. – Sommersione o perdita totale di una nave per grave avaria del suo scafo, dovuta all’azione degli elementi naturali, a urto contro un ostacolo o a collisione con altra nave, a incendio o altra causa di forza maggiore…” .
Insomma, per “fare naufragio” (lo dice anche l’etimo) è sufficiente un mare (verosimilmente in tempesta) e stare a bordo di una nave che si rompe: per qualche difetto di fabbrica, per l’errore del comandante, per uno scoglio, un iceberg, un’onda anomala, una bomba…
Purtroppo non è cosi. Un naufragio, per essere un vero Naufragio, per diventare un evento memorabile, per meritare una storia da raccontare e commentare, deve essere Unico, Eccellente, Straordinario. L’Odissea per esempio. Ma se non ricordiamo il naufrago Ulisse soccorso da Nausicaa, possiamo sempre rifarci con il Titanic, quel naufragio sì che è diventato leggenda, con il povero Leonardo di Caprio che ci rimette le penne e vince svariati Oscar.
Ma che ce ne facciamo dei “naufragi in serie”? Quelli che ogni settimana ce n’è uno? Quelli che nemmeno sai da dove arrivano e il nome che li accompagna, se pure loro hanno avuto come noi un battesimo e un nome? Chi sono questi naufraghi seriali, questi morti di oggi che raggiungono in fondo al mare la schiera dei loro fratelli? Mio dio, sono talmente tanti, sono così troppi, che uno non ci fa più attenzione.
I naufragi in serie sono così “ripetitivi” che è difficile montarci sopra una nuova storia. Una foto a tinte drammatiche con gli annegati in primo piano? Non ce ne accoriamo neppure. Se non fai più notizia, non esisti più. Così è il destino del migrante: non esistevi da vivo, a maggior ragione non esisti neppure da morto.
La nostra inconsapevolezza, quella di ognuno di noi, non può accampare scuse. La responsabilità è sempre individuale. Ma un’invettiva se la merita l’informazione, quella becera informazione che ci avvolge e che ha sempre bisogno di carne fresca, di sangue e di arena.
Ieri sera, prima di avviarmi verso il letto, ho inopinatamente acceso il televisore e sono capitato in mezzo a “Quarta Repubblica” di Nicola Porro. Stiamo parlando di un giornalista, di un programma, di un canale che metto al primo posto per faziosità, bugiardaggine, cattiveria. (Perché allora lo guardo? Perché non cerco qualcosa di meglio? Semplicemente perché preferisco ascoltare parole chiare anche se terribili, piuttosto che parole tiepide, ipocrite e sfumate).
Di che parlava Nicola Porro con i suoi ospiti nel talk di Rete 4? Non dell’ultimo naufragio appena successo, ma del processo (per ora mediatico) al promotore di Mediterranea Saving Humans, quel brutto ceffo di Luca Casarini (in studio giganteggia un suo primo piano: con la barba incolta, segno evidente di delinquenza). L’obiettivo dichiarato era distruggere completamente la sua opera e la sua stessa vita. E tutto nel segno della menzogna e della cattiveria. L’accusa più idiota è scritta in grande su una parete dello studio: “Casarini il Guru della sinistra”.
Di Luca ho un’idea affatto differente. Mi pare stia tentando di fare due cose importanti e difficili: soccorrere i naufraghi ed evitare altri morti in fondo al mare, e chiamare a raccolta il senso di umanità che alberga in fondo a ogni uomo e ogni donna. Di conseguenza – e come potrebbe essere altrimenti? – Luca si è schierato dalla parte di Papa Francesco e contro l’egoismo, l’autoritarismo e il cinismo del governo Italiano e dell’Europa nel suo insieme.
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Francesco Monini
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Bello