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Tre racconti brevi del sud

L’appuntamento

Gelsomina era analfabeta, intelligente, vecchia non so quanto, stanca di tanti anni a zappare sassi e terra rossa. Gelsomina coniugata Dimunno. Tutti i Dimunno maschi in Argentina, per decenni, erano tornati solo da vecchi. Poi uno a uno erano morti, era rimasta lei, l’ultima. Anche oggi Gelsomina aveva un appuntamento.

Ogni mattina usciva dal suo basso senza luce, indossava  il vestito della domenica, blu a pallini bianchi, i sandali quelli belli, i capelli bianchi raccolti dietro la nuca. Non parlava più con nessuno, la figlia Adele, il genero Luigi, i nipoti che già erano grandi. Appena faceva luce si sedeva sulla sua seggiola appena fuori l’uscio di casa. Alle otto si alzava dalla seggiola, attraversava lentamente il cortile del padrone con la palma e il gelsomino; oltre il cancello c’era la strada. Non passavano macchine in quella contrada, la strada era invasa dal sole, ma l’antica casa nobiliare proiettava un breve rettangolo di ombra. Gelsomina si metteva lì, in piedi sul ciglio della strada e aspettava. Cosa aspetti, Chi aspetti Gelsomina? Anche oggi  non è venuta, Gelsomina mi rispondeva così. Tornava verso il cancello, attraversava il giardino con la palma e il gelsomino, tornava a sedersi sulla sua seggiola, fino al prossimo appuntamento.

Quando le passavo davanti aveva quasi sempre gli occhi chiusi. Non dormiva, sentiva i miei passi e apriva gli occhi. Non guardava me, guardava un po’ più lontano, oltre il cancello.  Mi piaceva quel suo nome profumato, forse, anzi, ero sicuro, a 16 anni Gelsomina era un fiore, un gelsomino di Spagna.

 

Una scoperta

Ospiti tutta la mia famiglia dai cugini, nella antica villa, un vecchio casino di caccia ingentilito nel Settecento con stemmi, volute e balconi. Nel cortile, una cappella che alla domenica mattina serviva per la messa della piccola contrada. La palma faceva una chiazza d’ombra contro un sole già infuocato.

Alle 8 meno dieci una piccola campana chiamava a raccolta i pochi fedeli, e pochi, non più di una ventina, ne poteva accogliere la cappella. Intanto era arrivato l’officiante, si era chiuso nella chiesa, una vecchia lo aiutava a vestirsi. Era vecchio anche lui, vestito di nero, in abito preconciliare, lungo fino alle caviglie e una infinità di bottoni sul davanti. Avevo quattordici anni, mai visto un prete fatto così, un marziano. Ma avevo già assaggiato Manzoni, quello non era un parroco, era un prevosto, un curato, un tipo di quel tipo.

Tutto normale fino alla predica, sempre girato di spalle alla piccola assemblea, preghiere biascicate. Invece no, arriva alla predica ed è tutto un fuoco d’artificio, un’ eruzione vulcanica, una filippica. Parte da Abramo e tira diritto con tutti i profeti, fino all’acme dell’ultima frase, che ripete due volte “Il cristianesimo è tutta una tragedia!”. Il tono lugubre, definitivo, invitava al riso, ma per me, nei giorni successivi continuavo a pensarci, era una scoperta. Non c’entrava il cristianesimo, quello andava avanti da solo da millenni, senza il mio aiuto. Scoprivo un’altra tragedia, quella continuamente evocata da mia nonna, il marchio di famiglia. Scoprivo il carattere tragico del meridione d’Italia. Scoprivo che anche io, senza saperlo, anche se deportato al nord da generazioni,  anche io ero meridionale. Senza rimedio. Tragicamente. Fieramente.

 

Il principe

Non si discute, principe era principe il Palmieri, nella sua insegna un monticello, sul monticello una palma, sopra la palma una stella. La sua villa era bassa e lunghissima, un torrone da fiera coricato per terra, brutta, bianchiccia, con un interminabile viale che dal cancello che affacciava sulla provinciale raggiungeva una misera scala d’ingresso.

Il principe aveva le maniere distratte degli aristocratici, innaturali, progettate con cura per essere esposte in pubblico. Due baffi incredibilmente sottili, alla Aramis, come si usava al sud molti anni addietro. Rideva sommessamente, senza mostrare i denti. Sfilava una sigaretta ovale senza filtro da una piatta tabacchiera d’oro con inciso il suo stemma, un’operazione che compiva al rallentatore, a favore di ogni interlocutore gli fosse abbastanza vicino per notarlo.
Così il principe Palmieri poteva anche essere ridicolo, ma non mi era parso né signorile né simpatico.

Cambiai idea una mattina di mercato nella città più vicina. Camminavo per una viuzza bianca del centro storico. Il principe mi vide e mi venne incontro per un saluto. Era uscito improvvisamente da una minuscola bottega – Sei già stato nella nostra antica cattedrale? Faccio in un attimo, chiudo l’ufficio e ti accompagno.

Perché il principe, decaduto fin che si vuole, era avvocato patentato. Ogni mattina partiva con la sua utilitaria e si recava in città. Alle 9 in punto alzava la saracinesca e riceveva il popolo dei suoi piccoli clienti. Alle 12,30, al tocco della vicina cappella del Carmine, abbassava la saracinesca e chiudeva bottega. Che non era una bottega, ma uno studio legale fornito di ogni occorrente: un tavolino, tre seggiole, due mensole con i codici. Nessuna insegna, non ce n’era bisogno, tutti in città conoscevano l’avvocato Palmieri. Che avvocato era avvocato ma anche principe.

 

®  Francesco Monini 2024

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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