di Sandro Abruzzese (insegnante e scrittore); Marco Belli (insegnante, scrittore e fotografo, direttore artistico di Elba Book Festival); Davide Carnevale (ricercatore e docente di antropologia visuale, Università di Ferrara); Cassandra Fontana (ricercatrice in studi urbani, Università di Firenze); Sergio Fortini (architetto-urbanista, co-fondatore di Metropoli di Paesaggio); Marco Manfredi (attore, viandante, studioso dei rapporti tra cinema, narrazioni e territorio); Michele Nani (storico, ricercatore Consiglio Nazionale delle Ricerche – Ferrara); Giuseppe Scandurra (antropologo, Università di Ferrara) e Wu Ming 1 (scrittore e saggista, originario del Basso Ferrarese)
Si tramanda che nel secolo scorso, nelle miniere di carbone di varie parti del mondo, a fronte del pericolo rappresentato dal grisù e in assenza di sistemi di ventilazione, i minatori portassero con sé un canarino in gabbia. Molto più piccolo e dunque più sensibile al gas, il canarino cominciava ad agonizzare ben prima che i minatori sentissero gli effetti di quel che stavano inalando. Quando l’uccello cominciava a soffocare, era segno che la miniera andava evacuata.
Da qui la nota metafora del «canarino nella miniera», usata anche dal meteorologo Luca Mercalli durante una conferenza di alcuni anni fa, in un centro del Basso Ferrarese [1]. Il Delta è il canarino, ovvero l’area più esposta, quella a cui guardare per capire meglio gli effetti del cambiamento climatico.
1. Per Delta del Po qui intendiamo
Per Delta del Po qui intendiamo il Delta storico, o Delta grande, l’area geografica plasmata nel corso dei secoli dalle piene ed esondazioni del fiume, e dal progressivo spostarsi verso Nord del suo ramo principale.
Il Delta grande è un ventaglio di alvei in cui il fiume ancora scorre, di altri che il fiume ha abbandonato, spesso invisibili a occhio nudo, e di altri ancora divenuti artificiali, ovvero trasformati in canali, com’è accaduto al Po di Volano.
Il Delta grande non ha confini tracciati con esattezza, ma di sicuro include la parte orientale del Polesine rodigino, la parte orientale della provincia di Ferrara e parte della provincia di Ravenna. Lungo la costa si estende dal confine settentrionale del comune di Rosolina – ovvero l’ultimo tratto dell’Adige – fino al confine meridionale del comune di Cervia. In quest’area, contando solo i residenti, vive quasi un milione di persone.
Il Delta è un’area geostorica, geoeconomica, geoculturale con caratteristiche proprie, caratterizzata dalla presenza di zone umide residuali, scampate alle bonifiche, e dalla pericolosità idraulica, e distinta dal resto d’Italia – paese in prevalenza montuoso e collinare [2] – dalla presenza assoluta della pianura.
2. Vicoli ciechi in comune
I territori del Delta hanno storie e problemi simili. Ad accomunarli è anche il fatto di aver imboccato vicoli ciechi, di aver scommesso su modelli di sviluppo locale che ora vanno ripensati: turismo balneare di massa, una certa agricoltura intensiva, un certo sviluppo industriale. Alcuni modelli si sono rivelati da tempo fallimentari, e i territori li hanno pagati con emigrazione e spopolamento; altri hanno generato ritorni economici per qualche decennio, ma ora si rivelano insostenibili, anzi, catastrofici.
È il caso della trasformazione, avvenuta a partire dal XIX secolo, della bassa padana da zone umide in distesa di terre coltivabili. Un processo che non può mai dirsi concluso, sempre aperto e reversibile, che rende la zona del Delta particolarmente fragile sotto vari aspetti ambientali e sociali.
3. In terra di bonifiche
Siamo cresciuti o ci siamo trasferiti o lavoriamo in terra di bonifiche. Vivevamo o transitavamo ogni giorno accanto agli impianti idrovori e ad altre tecnologie di gestione delle acque, ma a lungo non ci abbiamo pensato, a lungo abbiamo dato per scontato quest’assetto del territorio, questo complesso «territorio-macchina», per citare la geografa Federica Letizia Cavallo [3].
Davamo per scontata la terra, l’emerso, il paesaggio bassopadano, e invece vivevamo dentro una parentesi tra sommerso e, mutatis mutandis, di nuovo sommerso.
4. Parentesi si aprono e si chiudono
Rapportando ogni durata a quella delle nostre vite, percepiamo come di lungo corso fenomeni che in realtà si sono manifestati solo di recente, magari poco prima che nascessimo. Per gli stessi motivi, diamo quei fenomeni per scontati e avvertiamo come compiuti, definitivi i processi da cui dipendono, anche quando sono ancora in corso e più che mai aperti.
Già nel secolo scorso l’idea di una temporalità unica e lineare è stata messa in crisi in ogni campo del sapere. Sopravvive solo nell’idea di sviluppo che impregna le politiche economiche. Le temporalità sono multiple, parentesi si aprono e si chiudono e stanno dentro o accanto ad altre parentesi. La storia del mondo è compresenza di tempi.
5. Non capiamo davvero le bonifiche se non…
Non capiamo davvero cosa siano state le bonifiche, nelle loro diverse fasi, e cosa ci abbiano lasciato, se non teniamo conto delle loro contraddizioni interne, di come si imposero, di quali resistenze dovettero sbaragliare e da quali altre resistenze furono fermate al mutare della situazione e delle sensibilità.
Nei discorsi correnti sulle bonifiche agisce un errore di ragionamento noto come survivor bias o «pregiudizio di sopravvivenza»: per valutare una situazione si prendono in esame solo gli elementi rimasti dopo un processo di selezione, che non necessariamente veicolano più informazione di quelli non sopravvissuti. Ciò che è stato soppresso, ed è rimasto a lungo fuori dalla rappresentazione dominante, nondimeno è oggetto di ricerca storica e portatore di sapere. Una volta recuperato ci parla, arricchisce la nostra conoscenza e la nostra presa sulla realtà.
Nel XIX secolo, il Delta e l’area Nord-Adriatica in generale conobbero resistenze popolari alle bonifiche, che con violenza cancellavano usi civici ed economie locali e disgregavano comunità. Grazie allo storico Piero Brunello, conosciamo la lotta contro le bonifiche delle valli di Cona e Cavarzere, oggi nella città metropolitana di Venezia, durata dal 1853 al 1861 [4]. Nota è anche l’opposizione di parte della popolazione di Massa Fiscaglia, nel Basso Ferrarese, alla bonifica della valle Volta, battaglia condotta con ogni mezzo e durata dal 1874 al 1880 [5].
Altre lotte, stavolta condotte da associazioni ambientaliste e per la tutela del territorio, come Italia Nostra, furono combattute esattamente cent’anni dopo, a metà degli anni Settanta del XX secolo, nel Delta ferrarese, quand’era ormai chiaro che l’Ente Delta Padano stava procedendo col pilota automatico, con l’intento di prosciugare ogni zona umida ancora esistente, in primis le valli di Comacchio, in nome di modelli di sviluppo che oramai mostravano la corda. La mutata percezione e consapevolezza fu un fattore determinante, le ultime bonifiche in programma non ebbero luogo [6].
6. Conoscenza “aumentata”
Questa conoscenza “aumentata” si arricchisce di quanto allora non si sapeva; oggi è acclarato: le zone umide sono tra gli ecosistemi che meglio immagazzinano anidride carbonica: una palude ne sequestra cinque volte più di una foresta. Le zone umide coprono solo l’1% della superficie del pianeta, ma catturano CO2 cinquecento volte più di quanto facciano gli oceani [7].
Col senno di poi, le bonifiche di paludi e valli salse hanno contribuito ad accelerare il riscaldamento globale. Questa consapevolezza, fra molte altre oggi ineludibili, suggerisce la necessità di studiare le esperienze di ripristino di zone umide nel territorio deltizio come in altre zone del mondo, per configurare prassi di intervento future.
7. Un’altra parentesi: vivere sulla costa
Anche la “litoralizzazione” della popolazione, fenomeno perlopiù avvenuto nel Novecento, sta dentro una parentesi. Oggi vediamo che il mare si innalza, e il suo innalzamento è un problema anche perché il fenomeno colpisce centri abitati, talvolta densamente abitati. Un tempo, quando, fatta eccezione per alcune località portuali, i litorali erano liberi da presenze umane, non ce ne saremmo accorti, mentre oggi questa parentesi di coste popolate rischia di chiudersi in modo catastrofico.
8. Wasteocene
Allo storico dell’ambiente Marco Armiero dobbiamo il concetto di wasteocene [8], a intendere non solo l’era dell’immane accumulo di spazzatura ma l’era incentrata sugli scarti, intesi come relazioni di esclusione, dentro le quali determinate comunità e località sono designate come sacrificabili. Su queste comunità vengono scaricati, spesso letteralmente, i “costi esterni” dello sviluppo, ovvero l’inquinamento, i residui tossici, le merci giunte alla fine del loro ciclo e divenute immondizia.
Per sua natura e collocazione, il Delta è oggi il penultimo ricettacolo – l’ultimo è il mare Adriatico – dei costi esterni dello sviluppo della val Padana. Lo è materialmente, perché il Po e gli altri corsi d’acqua arrivano al mare pieni di scarichi di industria e agroindustria, e culturalmente, in quanto espressione di un’Italia minore, subalterna.
Nella storia d’Italia, i pubblici poteri hanno spinto per fare della val padana l’area industriale per eccellenza. Per ottenere questi risultati si sono spinti alla migrazione milioni di persone, prima dalle aree interne dello stesso Nord, poi dal meridione, esacerbando i già esistenti squilibri tra Nord e Sud Italia, poi dall’Est Europa e dal Sud del mondo.
Ora il territorio paga quelle scelte, fa i conti con politiche economiche che lo hanno devastato e con concentrazioni mefitiche di particolati. La pianura padana è di gran lunga la zona più inquinata dell’Europa occidentale e tra le più inquinate dell’intero continente [9]. È l’area con più morti premature causate da eccessive concentrazioni di ozono, NO2. (biossido di azoto) e pm2.5 (polveri sottili)[10]. È la zona di gran lunga più cementificata del Paese[11].
Il Basso Ferrarese
9. Un focus territoriale preciso
Occorre un focus territoriale preciso per pensare e agire in un luogo determinato. Al tempo stesso, lavorare in modo centripeto ha senso solo se ha esiti anche centrifughi. Partire dal Basso Ferrarese e al contempo allargare il focus a tutto il Delta e oltre.
Il Basso Ferrarese va dal capoluogo di provincia al mare, con il Po a settentrione e il Reno a meridione. Po e Reno sono confini aperti: torniamo a concepire i fiumi come erano un tempo: luoghi di attraversamento e scambio.
10. Il territorio con meno consumo di suolo
La grande anomalia del Basso Ferrarese, anomalia che oggi può essere rovesciata in vantaggio, è che per vari motivi – non per le virtù di chi ha amministrato, ma per dinamiche storiche complesse – è rimasto il territorio con meno consumo di suolo di tutta la val Padana, esclusa ovviamente la ferita dei Lidi, speculazione edilizia partita negli anni Sessanta e accelerata a partire dagli Ottanta.
11. «Niente da vedere»?
Quello del Basso Ferrarese è un paesaggio in larga parte “ingegnerizzato”, costruito con le bonifiche, e a una prima occhiata sembra perfettamente vuoto e liscio, privo di segni particolari, di quelli che il geografo Eugenio Turri chiamò «iconemi»[12].
«Non c’è niente da vedere» è il cliché che rovesciamo nelle nostre perlustrazioni. Perché è alle occhiate successive che questo territorio sorprende, mostrandosi pieno di dettagli, striato, sottilmente corrugato da dislivelli (argini, catini di valli bonificate, paleoalvei di fiumi), realtà nascoste e “aree di incertezza”. E gli iconemi abbondano, dai manufatti della bonifica alle case abbandonate, di cui la provincia oggi è gremita.
Inoltre, le aree naturali e protette coprono il 13% del territorio della provincia. In gran parte sono zone umide sopravvissute alla febbre prosciugatrice.
Per non dire di certi anfratti lungo il grande fiume, interzone senza alcuna giurisdizione dove chissà cosa accade, luoghi dove si fermano e si formano comunità inaspettate.
12. Spaesamenti
L’emigrazione, la conseguente rarefazione sociale e la perdita del senso dell’abitare hanno creato spaesamento. In parole povere, chi vive in queste lande non conosce più il territorio. C’è un bisogno di ri-conoscerlo, perché, anche senza esserne del tutto consci, ci si sente espropriati.
Territori di margine, territori inespressi
13. Senza voce
Il Delta del Po è un territorio di margine, un territorio inespresso. I territori di margine sono subalterni – economicamente, socialmente, culturalmente – al mondo urbano e agli immaginari metropolitani, a un’unica idea di modernità. Subalterni, perciò inabilitati – usiamo qui una categoria del sociologo Franco Cassano – a essere soggetti di pensiero. Faticando a trovare una voce propria pur avendo proprie specificità e peculiarità, sono territori il cui futuro rimane inespresso.
In queste zone le disfunzioni della modernità vengono spiegate non con ragioni strutturali, ma attraverso stereotipi e pregiudizi. Ne derivano complessi di inferiorità e spinte all’emulazione: dalle città e dalla civiltà tecnologica si mutua l’amore per il potere e il «successo» in ogni loro manifestazione. Dalle zone di prosperità economica si desumono modelli congetturalmente «esportabili»: ne è esempio calzante la storia dei Lidi Ferraresi, goffa e tardiva riproduzione di un modello di turismo ad alto impatto ambientale [13].
Per l’incapacità di rispondere all’immaginario mediatico, a una rappresentazione del mondo unidimensionale e alle aspettative delle generazioni più giovani, i territori di margine sono afflitti da spopolamento, abbandono, depressioni, anomia. Subiscono i processi e i progetti dall’alto e barattano la chimera del lavoro con l’inquinamento, le grandi opere impattanti, magari col diventare discarica per rifiuti speciali. I territori di margine sono sugli Appennini, sulle Alpi, su isole, lungo frontiere, nella bassa depressa.
14. In perenne attesa di pseudosoluzioni
Nella crisi climatica, i territori di margine sono percossi e attoniti. Ne subiscono le conseguenze in modo immediato, partendo da situazioni già svantaggiate. Sono vittime di modelli eteronimi. Influenzati da pesanti interdipendenze, non vengono resi autonomi soggetti di pensiero. Possono solo attendere soluzioni da fuori, sempre pensate come tecno-rattoppi.
Ǫuello che incombe
15. Il ritorno del mare
Tutta la costa occidentale dell’Alto Adriatico e il suo entroterra di pianura sono territori in bilico di fronte all’aggravarsi della crisi climatica. Sempre più studi confermano che nel corso del XXI secolo l’innalzamento del livello dell’Adriatico (eustatismo) – unito alla subsidenza del suolo e ad altri fenomeni in corso – sconvolgerà l’intera area che va dalle Marche al golfo di Trieste.
16. Il MOSE e il veneziacentrismo
Da decenni il discorso pubblico nazionale si incentra su Venezia, luogo emblematico quando si parla di «acqua alta».
C’è chi spera che con le dighe mobili del MOSE il problema sia in gran parte risolto. Questo approccio è viziato nelle premesse da quello che Evgenji Morozov chiama «soluzionismo tecnologico», la soppressione dei sintomi senza diagnosi del male, l’illusione che si possano mitigare gli effetti senza intervenire sulle cause[14].
Inoltre, il dibattito sul MOSE è sempre stato “veneziacentrico”, come se la laguna di Venezia non fosse parte di un ben più vasto sistema di zone umide e territori in bilico tra terra e acqua. Invece, se il caso Venezia ha un valore, lo ha come sineddoche, come parte per il tutto. A nord e a sud della città, lungo più di trecento chilometri di costa, il territorio rischia la medesima sorte. La differenza è che la rischia nel silenzio e nell’inconsapevolezza diffusa. E a che servirà il MOSE se l’acqua entrerà e dilagherà tutt’intorno?
17. Al di qua della cifra tonda
Le stime vanno dai +80 ai +140 centimetri di innalzamento dell’Adriatico entro il 2100[15]. Carte topografiche realizzate ad hoc mostrano l’ipotetica situazione in quell’anno: l’attuale linea di costa è svanita, l’acqua ha fatto ingresso nell’entroterra, anche – in alcune fasce di territorio, come nei polesini veneti e ferraresi – per decine di chilometri. Va ricordato che il 44% della provincia di Ferrara è sotto il livello del mare.
La cifra tonda, 2100, aiuta a produrre uno scatto, nella molteplice accezione del termine: sussulto improvviso, rapido passo in avanti nella percezione del problema e fotografia di un momento che permette uno sguardo d’insieme; al tempo stesso, però, distoglie l’attenzione dal fatto che tali processi stanno già avvenendo e continueranno anche dopo quella data.
18. Le conseguenze
Le conseguenze. Abbandono degli insediamenti costieri e del vicino entroterra. Migrazioni climatiche verso altre parti d’Italia o verso l’estero. Perdita di migliaia di ettari di terreni agricoli. Perdita di falde d’acqua potabile. Distruzione di ecosistemi d’acqua dolce e di aree naturali e protette, come quelle dei due parchi regionali del Delta del Po, della laguna di Venezia, della laguna di Marano e Grado, ecc. Un cambiamento climatico epocale.
19. Non è solo «acqua»
È importante tenere in mente che non stiamo parlando di “acqua”, ma di melma tossica e infetta. Il litorale nordadriatico è densamente urbanizzato e industrializzato. Il mare attraverserebbe aree edificate, ergo farebbe scoppiare fognature, trascinerebbe con sé rifiuti, prodotti chimici, carburanti, plastiche di ogni genere, carcasse di animali, come ha fatto nel 2023 e nel 2024. Quel che si è visto a Conselice, cittadina romagnola rimasta soffocata per settimane da fango pregno di ogni sorta di veleni e cocktail batteriologici, va elevato a diversi ordini di grandezza.
La più impetuosa piena di un corso d’acqua appenninico è niente se paragonata alla massa d’acqua di un mare: non solo l’inquinamento dell’Adriatico aumenterebbe esponenzialmente, ma si creerebbero delle “grandi Conselice”, vaste aree “anfibie” prigioniere della melma, i cui miasmi arriverebbero a molti chilometri di distanza.
20. Intanto…
Questo lo scenario ipotizzato in completa assenza di interventi. Intanto l’innalzamento del mare è già in corso e ritenuto, in larga misura, ineluttabile. Sta già avvenendo.
Ǫuel che sta già avvenendo
21. Avanguardie del mare che avanza
Cuneo salino, nubifragi sempre più intensi e mareggiate sono le avanguardie del mare che avanza, e manifestazioni della stessa crisi climatica.
i. Cuneo salino: nei periodi di siccità i fiumi si indeboliscono, il mare risale i loro corsi e li riempie di sale, con gravi ripercussioni sugli ecosistemi, sull’agricoltura e sulle falde di acqua potabile.
ii. Nubifragi, spesso del tipo downburst, spesso confusi con le trombe d’aria. La loro maggiore intensità e frequenza è sintomo del nuovo clima. L’Adriatico è sempre più caldo: nel corso dell’estate 2024 ha raggiunto più volte i 30°. Aumentano così l’evaporazione e l’umidità nell’atmosfera. Quando arrivano correnti più fredde, il loro impatto con l’aria calda e umida sprigiona grandi quantità di energia e causa precipitazioni violente. Quelle che i media chiamano «bombe d’acqua».
iii. Subsidenza ed erosione della costa: mentre il suolo continua ad abbassarsi per un concorso di cause naturali e antropiche, la cementificazione e l’impatto del turismo intensivo erodono il litorale, che è sempre più vulnerabile di fronte a mareggiate e altri eventi «estremi», in realtà ormai ricorrenti e parte di una nuova “normalità”.
22. Le «notizie» sono un problema
I mezzi d’informazione “spacchettano” la crisi climatica in unità discrete, in episodi distinti chiamati «notizie» e trattati con attenzione ed enfasi diverse. Ad esempio, siccità e «bombe d’acqua» sono momenti di un unico fenomeno, detto effetto whiplash o colpo di frusta, ma la prima colpisce l’attenzione meno delle seconde.
La siccità ipoteca il nostro futuro in maniera differita, le si dedicano notizie illustrate con foto di fiumi in secca, ma non fora lo schermo, soprattutto in città, lontano da dove si coltiva il cibo e dagli ecosistemi in sofferenza. Finché dal rubinetto di casa esce l’acqua, il problema non è adeguatamente percepito.
Nubifragi e alluvioni, invece, ci colpiscono subito e direttamente. I loro effetti sono visibili e tangibili, quindi la loro copertura giornalistica è gridata, emotiva, sensazionalistica e di norma scollegata dalla siccità. Questa separazione impedisce di cogliere l’intimo nesso tra i due fenomeni, e la totalità del processo.
23. Non va difeso il territorio com’è oggi
Quello che incombe non si può affrontare prolungando le stesse logiche del presente che hanno generato il disastro, confidando in espedienti di corto respiro ed escamotages tecnologici. La crisi climatica non è un problema di momentanea inadeguatezza tecnologica: è crisi sociale, esito di un modello socioeconomico sbagliato, accumulo di contraddizioni dell’attuale modo di produzione.
La logica del rattoppo, del soluzionismo tecnologico a difesa dell’esistente è del tutto inadeguata.
La risposta più facile e frettolosa a quello che incombe consisterà nell’installare dighe e paratoie mobili in stile MOSE, nell’aumentare e potenziare gli impianti idrovori ecc.
Tutto ciò per difendere il territorio com’è oggi. Ma «com’è oggi» è parte del problema. Quel che ci dice la crisi climatica è che il territorio va radicalmente ripensato e trasformato.
Una “federazione” dei territori inespressi sarebbe il soggetto più qualificato per tale ripensamento, in grado di disegnare una linea d’orizzonte plausibile d’intervento.
24. Inconsapevolezza
Nei territori che da qui al 2100 subiranno l’avanzata dell’Adriatico, la consapevolezza della situazione va dal minimo all’inesistente. L’inadeguatezza della conoscenza e della percezione di fronte al disastro climatico non è certo un problema solo locale: è planetario. Ma nelle zone di cui ci stiamo occupando presenta caratteristiche peculiari.
25. Quattro messe a fuoco
Stiamo ragionando e ipotizzando modalità di intervento, alternando quattro diverse messe a fuoco.
Territori di margine → Area Nord-Adriatica → Delta del Po → Basso Ferrarese
Il Delta come luogo di sperimentazione nel vivo della crisi climatica (Appunti)
26. Quando il Delta era una causa per cui lottare
All’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo una nuova generazione di intellettuali e artisti ferraresi e non solo decise di occuparsi del Delta per farne un grande tema nazionale. Quelle figure fecero del Delta la loro «questione meridionale». Viaggiando verso est scoprirono un Sud, un territorio di margine a poche decine di chilometri dalla loro città.
Di quella campagna culturale e politica resta attuale l’intento di trasformare la percezione di un territorio “marginale” in un luogo centrale per l’analisi, il cambiamento e il riscatto sociale.
27. Settant’anni dopo
Settant’anni dopo è di nuovo necessario fare del Delta padano un grande tema, nazionale e non solo. Le condizioni sono drasticamente mutate e ne siamo consci: negli anni Cinquanta dietro gli intellettuali “deltizi” c’erano partiti di sinistra, forze sindacali e altri soggetti collettivi vicini al movimento operaio, alla grande forza del bracciantato di massa. Alle spalle nostre, al momento, non c’è nulla di paragonabile. Ma questo non può essere un alibi.
28. Fare leva sulle peculiarità del territorio: riallagare, naturalizzare
Oggi, a differenza di allora, non si tratta certo di richiedere bonifiche. Semmai l’opposto; il territorio trarrebbe grande giovamento – in termini di biodiversità, di cattura della CO2, di inaugurazione di diversi modelli socio-ambientali – dal riallagamento incrementale e dalla rinaturalizzazione controllata almeno delle aree bonificate nel secondo Novecento, come le valli del Mezzano. Certo, quelle terre dovrebbero prima diventare di proprietà pubblica; dopodiché andrebbero bonificate nella seconda accezione del verbo: «restituire a condizioni di equilibrio naturale un territorio molto inquinato» (Dizionario De Mauro della lingua italiana).
29. Decementificare, ripristinare
Altrettanto urgente sarebbe decementificare la costa, per scongiurare lo scenario di cui al punto 19. Nelle zone decementificate, andrebbero ripristinati il più possibile gli ecosistemi precedenti, il che significa liberare le dune superstiti dalla pressione dell’urbanizzazione, e riformarle dove furono sbancate. Questa sarebbe una delle migliori difese dall’innalzamento dell’Adriatico.
A chi domanda: «E l’economia dei Lidi?» si può rispondere che i posti di lavoro nel turismo intensivo – spesso lavoro precario, supersfruttato, sottopagato, in nero – sarebbero sostituiti da nuovi e meno frustranti impieghi, quelli generati da una grande riprogettazione ecologica del territorio e da un grande recupero, seguito da una cura continua degli ecosistemi: attività in sintonia con le caratteristiche contestuali dei luoghi.
30. Sono solo alcuni esempi
Sono solo alcuni esempi di come si possa far leva sulle specificità del territorio, sulla sua conformazione e la sua storia, persino sulla sua fragilità, per farne un grande luogo di sperimentazione nel vivo della crisi climatica, anche sul piano della progettazione territoriale.
31. Non servono “trovate”
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il soluzionismo tecnologico. Quelle che stiamo prefigurando non sono “trovate”, gimmick, escamotages, ma soluzioni aperte, lente e non finalizzate al profitto. Soprattutto, partono dall’individuazione delle cause sociali e politiche della crisi e svoltano rispetto ai modelli fin qui seguiti.
32. Rapporti di forza
È una questione di rapporti di forza. Proprio perché vanno a cozzare con l’esistente, questi scenari possono sembrare inaccettabili alla grande maggioranza degli amministratori, e soprattutto ai vertici di molte associazioni di categoria. Va ricordato, tuttavia, che tutte le riforme sociali, anche quelle oggi più banali (l’istruzione di massa? le pensioni? il suffragio universale?), sono nate da proposte che di primo acchito suonavano sovversive e utopistiche.
33. Estendere
Queste proposte, tarate sulla parte emiliano-romagnola del Delta, si possono estendere, rimodulandole, al Delta grande e all’intera area nord-adriatica.
Questo modo di inquadrare le questioni e prefigurare soluzioni può essere utile a chi si muove in altri ambiti di margine, territori inespressi in Italia e altrove nel mondo.
34. Far piovere all’insù
Attraverso una lotta consapevole, i territori di margine possono restituirci parte di ciò che abbiamo perso: ambiente, ecologia delle relazioni, sostenibilità dei modi di vivere. In un mondo dove tutto arriva e piove addosso dall’alto, agendo nei territori di margine è possibile, per citare il compianto Luca Rastello, far «piovere all’insù»[16]. Opporre, ad esempio, il mondo come dimora comune all’esclusione, il sapere come forma di partecipazione all’imposizione tecnocratica, la cura dell’umano e del suo ambiente di vita all’incuria neoliberale.
35. Un percorso lungo
Questo documento vuole essere il passo iniziale di un percorso lungo, multidisciplinare e interstiziale al tempo stesso, nato per generare dubbi ancor prima che risposte, nella consapevolezza che non è facile, sotto il profilo emotivo, accettare l’urgenza di un cambiamento sensibile quanto inarrestabile.
Stili di vita, dinamiche lavorative, relazioni sociali sono destinate a trasformarsi: diventa dunque cruciale che le comunità – a partire da quelle apparentemente più marginali, in realtà avamposti conflittuali determinanti – rivendichino la propria centralità nel processo di governo ed indirizzo dell’inevitabile cambio di paradigma, rivestendosi di una responsabilità sociale e culturale, fondamento di una società che vuole pensarsi come “civile”.
NOTE
1. Mercalli tenne una conferenza nell’ambito della 71a edizione della Fiera di Migliarino, settembre 2018. Un riferimento al «canarino d’allarme« anche nella Canzone della nocività di Paolo Ciarchi e Dario Fo, per lo spettacolo Ordine! Per DI0.000.000.000 (1972).
2. I dati ISTAT relativi alle zone altimetriche, provenienti dagli uffici provinciali dell’Agenzia del territorio (che a sua volta li trae dalle mappe catastali), dicono che le zone collinari e quelle montuose costituiscono rispettivamente il 42% e il 35% del territorio, per un totale di 77%. (Istat., 2023. Annuario statistico italiano, «Territorio», cap.1, p. 8).
3. Cfr. Cavallo, Federica Letizia. (2011). Terre, acque, macchine: Geografie della bonifica in Italia tra Ottocento Novecento. Diabasis.
4. Cfr. Brunello, Piero. (2011 [1981]). Ribelli, questuanti e banditi: Proteste contadine in Veneto e in Friuli 1814-1866. Cierre edizioni.
5. Cfr. Roveri, Alessandro. (1972). Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo capitalismo agrario e socialismo nel Ferrarese, 1870-1920. La Nuova Italia.
6. Non esiste ancora una pubblicazione monografica sulla vicenda. Cfr. Bassani, Giorgio. (1970). «Il litorale emiliano-romagnolo: Problemi e prospettive», Bollettino di Italia Nostra, XII, 75-76, settembre-ottobre 1970, Associazione Italia Nostra, Roma, pp. 27-29. Ora in Id., Bassani, Giorgio. (2018). Italia da salvare: Gli anni della Presidenza di Italia nostra (1965-1980) (D. Cola & C. Spila, A c. Di; Nuova edizione accresciuta). Feltrinelli; e Dagradi, Piero. & Menegatti, Bruno. (1979). Ricerche geografiche sulle pianure orientali dell’Emilia Romagna. Pàtron.
7. Dati tratti da: Temmink, R. J. M., Lamers, L. P. M., Angelini, C., Bouma, T. J., Fritz, C., Van De Koppel, J., Lexmond, R., Rietkerk, M., Silliman, B. R., Joosten, H., & Van Der Heide, T. (2022). Recovering wetland biogeomorphic feedbacks to restore the world’s biotic carbon hotspots. Science, 376(6593), eabn1479.
8. Cfr. Armiero, Marco. (con un contributo di Chiesara, M. L.). (2021). L’era degli scarti: Cronache dal Wasteocene, la discarica globale. Einaudi.
9. Matthew Taylor e Pamela Duncan, «Revealed: almost everyone in Europe is breathing toxic air», The Guardian, 20 settembre 2023. «La situazione in Europa orientale è significativamente peggiore che in Europa occidentale, fatta eccezione per l’Italia, dove più di un terzo degli abitanti della pianura padana e delle aree circostanti nel nord del Paese respira il quadruplo della quantità-limite indicata dall’OMS per i particolati più pericolosi» (corsivo nostro).
10 Stando alla Relazione 2023 dell’Aea (Agenzia europea dell’ambiente), nel 2021 in Italia si sono registrate circa 46.800 morti causate dal particolato pm2.5, di cui ben 14.000 nella sola pianura padana (89 ogni centomila abitanti).
11. Le quattro regioni italiane che in ogni rapporto annuale dell’Ispra sul consumo di suolo risultano le più cementificate – Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna – sono proprio quelle nei cui confini amministrativi si estende la pianura padana.
12. Cfr. Turri, Eugenio. (2014). Semiologia del paesaggio italiano (1. ed). Marsilio. Cfr. anche il suo contributo nel collettaneo: (a cura di) Jodice, Mimmo., & Turri, Eugenio. (2001). Gli iconemi: Storia e memoria del paesaggio. Electa, Milano.
13. Cencini, Carlo. (1994). Il litorale ferrarese: dai Lidi al Parco del Delta, in Forme del territorio e modelli culturali in Emilia-Romagna: per una nuova geografia regionale, Lo Scarabeo, Bologna.
14. Cfr. Morozov, Evgeny. (2014). Internet non salverà il mondo: perché non dobbiamo credere a chi pensa che la rete possa risolvere ogni problema. Mondadori, Milano.
15. Cfr. Antonioli, F., et al. (2017). Sea-level rise and potential drowning of the Italian coastal plains: Flooding risk scenarios for 2100. Quaternary Science Reviews, 158, 29–43.
16. Rastello, Luca. (2017). Piove all’insù, Bollati Boringheri, Torino.
Nota di redazione: un grazie agli autori per questo importante lavoro e a Giap per l’autorizzazione alla pubblicazione. Tutti i lettori potranno leggere e rileggere in ogni momento l’intervento nella rubrica Vecchia talpa di Periscopio. (La redazione di Periscopio)
In copertina: L’area nordadriatica occidentale nell’anno 2100 con il mare più alto di 1 metro rispetto a oggi. Mappa interattiva curata dall’artista Alex Tingle a partire dal 2006.
Qualche considerazione…il collasso del Delta cui stiamo assistendo è anche il frutto dell’evoluzione politica, sociale dei territori e della popolazione…Quando nel dopoguerra ,negli anni 50, le bonifiche ebbero una ulteriore spinta e un grande parte dei latifondi ( originari motori delle bonifiche di terreni paludosi proprietà pubbliche e demaniali ) furono redistribuiti dall’Ente Delta Padano il territorio del Delta aveva una gestione, una popolazione, un destino…C’era anche la possibilità che la cooperazione permettesse la sopravvivenza della piccola proprietà contadina. Attualmente il territorio non ha una direzione…nel senso che l’agricoltura moderna che doveva (poteva?) essere il motore per la costruzione di un nuovo territorio con una nuova popolazione non è bastata a garantire la vitalità delle terre nuove.I pochi insediamenti industriali sono in crisi da molto tempo. C’è un ritorno al latifondismo, la cooperazione ha enormi difficoltà e tanti fallimenti, molta terra serve a produrre commodities ( prodotti di massa con basso valore aggiunto, come il mais, il grano, le barbabietole da zucchero). Tra l’altro le colture agrarie non sono condotte in maniera tale da essere resistenti ai cambiamenti agro ambientali ( il grande esempio la pera nell’alto ferrarese…), con una continua e costante immissione nell’ambiente di pesticidi, concimi, grandi consumi di acqua irrigua… La provincia di Ferrara ospita un numero “critico” (almeno 50) di digestori; ( impianti che producono biogas pubblicamente sovvenzionato con una resa bassissima, …ricavato sostanzialmente da mais…mais che non finisce nella filiera agroalimentare ma nel circuito della produzione di energia “verde” ed “eco compatibile”…attualmente i maiali, le mucche ed i polli allevati in Italia sono alimentati con grandi quantità di mais proveniente dalle Americhe…); sempre più terra è occupata da pannelli fotovoltaici…l’agricoltura non attira più investimenti e non attira neppure le persone…ed il territorio si spopola. Un territorio che è anche molto ostile nelle espressioni politiche popolari nei confronti dello straniero, le destre razziste adesso gestiscono politicamente un grande fetta del territorio deltizio. Sono elementi che vanno considerati per immaginare una trasformazione del Delta… Tra l’altro la ri- trasformazione di uno spazio come il mezzano non sarebbe impossibile, non ci abita nessuno! La rinaturazione sarebbe possibile…ma il territorio dovrebbe essere acquistato da un autorità pubblica…con quale denaro, in quanto tempo… ? l’Ente Delta Padano non esiste più da un pezzo…e chi è in grado di avere la visione per re immaginare un territorio ? Eh l’utopia è una gran bella cosa…