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Titanio: il thriller contemporaneo di Stefano Bonazzi
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Titanio: il thriller contemporaneo dell’autore ferrarese Stefano Bonazzi.
Ho conosciuto l’autore di Titanio tre settimane fa alla presentazione di questo suo terzo romanzo presso la Biblioteca Comunale del mio paese. La conversazione sul libro è stata avvolgente: alle domande puntuali che gli sono state rivolte, Stefano Bonazzi, scrittore ferrarese classe 1983, ha risposto con generosità. Entrando nelle pagine per orientarci a comprendere la storia, uscendone per dirci quale scrittura vorrebbe essere la sua.
Si è rapportato a suggestioni cinematografiche e letterarie degli ultimi anni, che gli hanno fornito un modello: per esempio i film di Matteo Garrone, in primis Gomorra, oppure la narrativa dei cannibali, come sono stati definiti i giovani scrittori di “atrocità quotidiane” che negli anni Novanta sono entrati nella antologia Gioventù cannibale uscita presso Einaudi nella collana Stile libero.
Ho fatto sì con la testa mentre lo ascoltavo, ho anche bisbigliato alcuni nomi, alcuni titoli. Prima di ogni altro Dei bambini non si sa niente di Simona Vinci, l’autrice di Budrio di cui ho poi continuato a leggere altri romanzi, sperando che virasse verso storie meno violente. L’ha fatto, e ha mantenuto una scrittura incisiva dalle soluzioni narrative non scontate.
Sono tornata a casa e ho letto Titanio. E meno male che mi hanno sostenuta i riferimenti dati dall’autore, veri appigli per essere pronta a parare i colpi della narrazione. Fran, il protagonista, è un ragazzino speciale: vive in una non meglio precisata periferia, vive in mezzo al degrado sociale e personale dei suoi genitori e degli altri abitanti della “Ciambella”, ma è atipico. È magrolino, efebico, ama la lettura, anche se la famiglia non lo ha fatto andare a scuola, ha divorato tutti i libri raccolti dal padre ai mercatini e conosce un sacco di cose su tutte le materie.
La sua è una “adolescenza feroce”, per usare un’altra definizione cannibale. Si consuma nel quartiere residenziale dove le case sono occupate abusivamente da tossici, clandestini ed emarginati di vario genere. La famiglia di Fran, ambigua per non dire deviata, vive coltivando e vendendo erba.
La vicenda è costruita come una investigazione e parte dalla fine, quando Fran divenuto maggiorenne vive l’esperienza del carcere e dipana il racconto della sua giovane vita fino al reato gravissimo che ha commesso.
Lo ascolta l’educatore che lavora nella struttura penitenziaria: nel pacchetto di ore che gli sono state assegnate sente una attrazione sempre più forte verso il racconto di Fran e verso la sua personalità di ombre e luci profonde. Si sente schiacciato tra due fuochi: da un lato è spinto da una intensa empatia verso il ragazzo, dall’altro è imbrigliato dalla deontologia professionale e dovrà passare le informazioni ricevute all’Interpol per una inchiesta ancora aperta sul giro di conoscenze di Fran.
È suo, dopo quello di Fran, il secondo punto di vista da cui il lettore apprende la storia. Ne manca un terzo, il più misterioso, ed è quello di un uomo paralizzato nel letto che al risveglio si vede curato in una stanza che non riconosce per le gravissime ustioni diffuse su tutto il corpo.
Il lettore ne segue la delicata convalescenza intanto che Fran racconta come si sono conosciuti e scopre che la sua è stata un’altra vita vissuta nel male, il cui epilogo caratterizza il finale senza consolazione del thriller.
Secondo quanto ha detto Stefano Bonazzi durante il nostro incontro, il libro vuole essere una riflessione sul male. Da adolescente Fran non ne conosce il discrimine rispetto al bene, non gliel’hanno di certo trasmesso i suoi genitori. Da loro ha semmai subito mutilazioni psicologiche e violenza fisica.
L’immagine finale è quella di Fran che in carcere “insegna a leggere ai detenuti privi di formazione scolastica, gestisce la biblioteca della struttura” e scrive lettere per i compagni di detenzione: se in questa vita i mostri si trovano ovunque e “il mondo è pieno di cantine” buie dove puoi essere rinchiuso da chi dovrebbe volerti bene, la prigione può non essere solo un incubo che si aggiunge agli altri da cui provieni. Puoi incontrare un educatore che intende ascoltarti fino in fondo, puoi incontrare anche te stesso. Mi pare questo l’unico punto di luce del racconto.
Per tutto il tempo della lettura mi sono domandata quanto Bonazzi si sia allontanato dai suoi apprezzati cannibali nel costruire una storia tanto drammatica. La risposta l’ho cercata in alcuni testi di critica letteraria che ho rivisitato in questi giorni e l’ho trovata nel mio vissuto universitario.
Premetto che non ho mai avvertito nei racconti “pulp” di Ammaniti, Nove, Brizzi e negli altri la funzione di “intrattenimento persino piacevole” che finisce per assegnare loro Romano Luperini, sentendo invece molto forte il citazionismo crudo con cui aggrediscono il mondo contemporaneo, anche attraverso richiami a fumetti e cartoons, e sintonizzandomi sulla loro linea di realismo.
Ho riconosciuto una voglia di racconto nelle pieghe riposte in cui si annidano storie di male e di distorsione esistenziale, dopo certa narrativa postmoderna degli anni Ottanta dalle tentazioni nichiliste.
D’altro canto Daniele Luttazzi ha sostenuto che l’antologia uscita nel 1996 è stata “profetica”: la realtà italiana ritratta nei racconti, lungi dall’esserne disancorata, semplicemente è stata anticipata. Dopo qualche mese dall’uscita della raccolta l’Italia conobbe i casi del mostro di Firenze, dei satanisti lombardi, di Erika e Omar.
La conclusione a cui sono giunta posso esprimerla in due modi: il primo è che Stefano Bonazzi ha cannibalizzato una storia del nostro presente, il secondo che ha rispolverato una delle categorie fondanti della scrittura letteraria, a cui mi sono formata negli anni dell’università, il rispecchiamento della realtà.
Ho una conferma in tal senso che viene dalla cronaca dei tg di ieri: parte Qui vivo, una campagna di sensibilizzazione nonché un progetto di innovazione sociale rivolto ai giovani che vivono nelle periferie. Il progetto intende combattere marginalità e isolamento, favorendo una educazione di qualità, attività sportive, spazi sicuri di aggregazione e crescita personale.
All’interno delle 14 aree metropolitane in Italia si registrano infatti forti disuguaglianze rispetto alla media del paese per quanto riguarda sia il livello di istruzione nei bambini, sia il livello di occupazione per la fascia d’età dai 15 ai 64 anni. La fonte è il rapporto Fare spazio alla crescita curato da Save the Children in collaborazione con la fondazione Openpolis.
Un ultimo dato: sono quasi 13.000 i bambini senza tetto e senza fissa dimora nel nostro paese (dato rilevato nel 2021), il 13,3% rispetto al totale di circa 96.000 persone senza una casa.
Nota bibliografica:
- Stefano Bonazzi, Titanio, Alessandro Polidoro Editore, 2022
- AA.VV, Gioventù cannibale, Einaudi, 1996
- Simona Vinci, Dei bambini non si sa niente, Einaudi, 1997
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
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