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Tempo del pittore, tempo del cineasta. Alcune riflessioni su liturgia e arti figurative

Pubblicato in: Il giornale di Rodafà

In un suo famoso libro, Tempo della Chiesa, tempo del mercante,  J. Le Goff  individuava la fine della sovrapposizione, o meglio della perfetta coincidenza, fra tempo liturgico e tempo quotidiano che aveva caratterizzato l’Europa continentale – ad esclusione della Russia – per tutta l’epoca medioevale, facendo coincidere questo cambio di prospettiva e di percezione, con l’installazione dei primi orologi e delle prime campane sulle torri civiche delle città.

Questa improvvisa apertura verso un tempo “laico” impiegherà diversi secoli prima di concretizzarsi, specie nelle campagne. Qui, ancora nell’Ottocento, le campane delle chiese non avevano affatto perso il loro ruolo extra-liturgico, strettamente legato al quotidiano. Oltre a scandire ancora la Liturgia delle Ore, indicando Lodi, Ore Medie e Vespri, le campane chiamavano a raccolta gli abitanti in caso di incendio, inondazione e persino rivolte (1).

Allo stesso modo, la tradizione delle Vigiliae (i turni di guardia delle sentinelle sopra le mura), che si sviluppa in ambito cittadino nel Medioevo, ha dato luogo ai tre Notturni, riuniti poi in un’unica celebrazione – il Mattutino.

Esisteva quindi un legame, un interscambio fra vita liturgica e vita quotidiana. L’arte sacra, che pure di liturgia era permeata, impiegò meno tempo a liberarsi dei simboli liturgici veri e propri, anche se le rappresentazioni strettamente liturgiche, specie del sacramento della Comunione, ma anche di altri momenti del culto, si diffusero moltissimo grazie all’arte della stampa popolare, giungendo fino al tardo Ottocento.

Se prendiamo in esame una delle cosiddette natività di notte di Lorenzo Lotto, quella dipinta nel 1523 e conservata alla National Gallery, vi troveremo ancora una molteplicità di simboli sacri (2). Contrariamente ad un affresco, la cui collocazione ideale era all’interno delle chiese (absidi, navate, cappelle votive) o dei palazzi nobiliari, il quadro era quasi esclusivamente riservato al committente e alla sua famiglia.

Ciò che vi era dipinto doveva servire a richiamare l’attenzione del riguardante ai Vangeli, alla vita di Gesù e dei Santi, più raramente all’Antico Testamento, per farne memoria o suscitare in lui pietà e compassione (si pensi ad una Crocifissione o ad un Compianto di Cristo).

Diverso il caso dei richiami all’antichità classica, alla mitologia, al paganesimo antico – tanto per usare un’espressione cara ad Aby Warburg – presenti in tanta pittura del Rinascimento. Un insieme di figure, segni e simboli che metteva in gioco la cultura stessa del committente e dei riguardanti.  Attraverso l’astrologia e la mitologia, richiamava poi un sistema di fedi, leggende e credenze rituali, in cui l’Oriente si fondeva con l’Occidente, mai del tutto abbandonato (3).

Torniamo alla funzione liturgica dell’arte sacra. Come si può intuire da quanto affermato, per collocazione e sistema iconico, essa costituiva anche un elemento o un’estensione dello stesso rito liturgico, a seconda che l’affresco o la tela si trovassero nella chiesa o nell’abitazione. L’introduzione della figura del committente nell’affresco e poi nel dipinto, inizia lentamente a disgregare questa funzione, ponendo l’accento sull’individuo: un elemento “laico” che acquisterà sempre più importanza.

Un altro elemento disgregante fu la volontà di rappresentare le scene religiose, come fossero vedute della vita cittadina o di corte (si veda, già nel Trecento, la Maestà senese di Simone Martini, o la più tarda cappella Brancacci a Firenze, ad opera di Masaccio e Masolino); elemento accentuato dagli intenti celebrativi delle Signorie (Camera picta e Ciclo dei mesi a Mantova e a Ferrara).

L’invenzione del ritratto volgerà poi ulteriormente la pittura verso la dimensione individuale, fino a giungere all’apoteosi, con la pittura fiamminga dei secoli XV e XVI, che T. Todorov considera un vero e proprio “elogio dell’individuo” (4).

L’irruzione nella scena della figura del committente e poi dell’individuo, finisce dunque per togliere sacralità all’arte, slegandola da quel sistema simbolico che ne faceva complemento ed estensione della liturgia. L’evoluzione artistica dei secoli successivi al XVII farà il resto, completando l’opera di laicizzazione delle immagini.

Sul finire dell’Ottocento però, e ancor più negli anni Venti e Trenta del Novecento, assistiamo alla nascita di una nuova forma di liturgia, una liturgia totalmente “laica”. Mi riferisco all’invenzione del Cinematografo e allo sviluppo successivo dello Star System. Il cinema inizia ben presto ad essere visto in modo collettivo: nelle sale si sviluppa una precisa ritualità, affatto sacra, come gli studi di G. Brunetta hanno dimostrato (5).

La pellicola proiettata sullo schermo è vissuta e partecipata dagli spettatori, che ruggiscono all’apparizione del leone della Metro, si scambiano effusioni durante le pudiche scene d’amore dell’epoca, mentre i bambini presenti fingono di sparare con le dita ai pellerossa che cavalcano sullo schermo, inseguendo la diligenza di turno. Una vera assemblea riunita per condividere; quasi una messa animata, potremmo dire.

Gli attori hollywoodiani più famosi poi, affiancano o sostituiscono i santi nell’immaginario e nella devozione popolare: nel Sud, accanto all’immagine di Santa Rosalia, compare quella di Rodolfo Valentino. Il cineasta diviene così una sorta di nuovo sacerdote, colui che mette in scena un rito collettivo nuovo. Proprio come un sacerdote, egli ha il compito di celebrarlo, di farlo funzionare, la venerazione spetta ad altri, agli attori, sostituti dei Santi.

Tuttavia i primi film di finzione che ottengono un grande successo di pubblico (si pensi ai film d’art francesi), sono a carattere storico o religioso. Le Vite di Gesù prodotte nei primi trent’anni della storia del cinema sono innumerevoli e fra loro molto simili. Ricalcano infatti gli avvenimenti universalmente noti dei Vangeli, ma non hanno quasi più scopo celebrativo, come nell’arte sacra, né ancora riflessivo (come sarà per Il Vangelo secondo Matteo di P.P. Pasolini), solo intenti didascalici e morali.

Soltanto nel secondo dopoguerra il cinema inizierà a porsi interrogativi di ordine religioso. Un precursore può essere considerato C.T. Dreyer che, sin dalla Passione di Giovanna d’Arco (1928) e poi soprattutto con Ordet (1955), compie una riflessione profonda sul significato salvifico della parola evangelica.

Dreyer adotta uno stile essenziale, fatto di frequenti inquadrature ristrette, così da permettere allo spettatore di concentrarsi su piccole porzioni di spazio, che fanno a loro volta da contraltare all’esaltazione del dono profetico, visto in entrambe le pellicole come una sorta di zona d’ombra fra follia e santità.

Molti sono i film che trattano in modo esplicito, o contengono al loro interno, argomenti a carattere religioso, e non è mia intenzione occuparmene, quanto piuttosto fornire alcune riflessioni sul ruolo e l’immagine della liturgia nel Cinema.

Ogni volta che una pellicola mostra scene liturgiche in senso stretto, ci troviamo davanti, per quanto detto sopra sulla ritualità della fruizione cinematografica, ad una sorta di cinema meta-liturgico, che mostra cioè una liturgia nella liturgia, un rito nel rito.

Quanto appena sostenuto, contribuisce a spiegare l’enorme successo di un’opera come Jesus Christ Superstar (N. Jewison, 1973). Il film mostra, demistificandola allo stesso tempo, oltre alla vita di Gesù, anche l’origine della ritualità liturgica cristiana (Domenica delle palme, ultima cena, passione e crocifissione), ma lo fa, per quanto affermato, all’interno della ritualità cinematografica.

Non è tutto. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta (specie dopo Woodstock), si consolida una nuova forma di ritualità di gruppo, quella dell’happening musicale, del concerto all’aperto o negli stadi; una ritualità inneggiante alla demistificazione dei valori tradizionali, vissuta come forma estrema di libertà, anche dagli stessi riti sociali precedenti. Un nuovo rito insomma, un rito di “rottura” che ha, in piccolo, quasi la stessa forza eversiva sulla società, dell’assemblea cristiana.

Tornando al film, ecco allora che ci viene mostrata la nascita della ritualità cristiana, attraverso una doppia ritualità visiva e sociale: l’happening musicale ed il cinema. Gli effetti, fra loro sovrapposti, di queste tre forme di ritualità, fanno di Jesus Christ Superstar un film dotato di un’enorme potenza di rottura e di conservazione al tempo stesso.

Ne La messa è finita (N. Moretti, 1986), il protagonista, Don Giulio – che veste sempre, in modo significativo, l’abito talare tradizionale – al suo ritorno, dopo aver trascorso molti anni su di una piccola isola, si scontra con l’indifferenza, la solitudine, persino la crudeltà gratuita, della società odierna. Ogni suo tentativo di riportare il reale all’interno del sacro, è destinato a fallire.

Tra nevrosi tipiche di Michele Apicella (l’alter ego di Moretti nelle pellicole precedenti), relazioni familiari, amicizie e corsi prematrimoniali fallimentari, Don Giulio capisce che oggi non v’è più alcun posto per la sacralità: del matrimonio, dell’amore e della vita coniugale, dello stesso abito talare – la celebre scena della fontana (6).

Tornerà così alla sua isola, scegliendo la solitudine in modo consapevole, con l’unico risultato di aver impedito alla sorella di abortire. Significativa è qui la figura dell’amico sacerdote che ha rinunciato all’abito per farsi una famiglia. Appare inizialmente come l’unica persona felice del film, ma finirà poi per rivelare silenzi e assenze, sintomi certi di inquietudine e smarrimento.

Vorrei chiudere con alcune considerazioni sul ruolo salvifico della liturgia, intesa come ultima risorsa praticabile di fronte alle catastrofi. Il finale de La guerra dei mondi (B. Haskin, 1953), tratto dal celebre romanzo di H.G. Wells, ci mostra una folla di newyorkesi riunita in chiesa per pregare, di fronte alle distruzioni operate in città dalle macchine tripodi marziane.

L’esercito e l’aviazione non sono riusciti a fermarle, la preghiera collettiva è l’ultima ratio, l’ultima risorsa rimasta di fronte alla catastrofe inesorabile. Puntuale il miracolo si verifica: le macchine marziane si accasciano al suolo, gli alieni, già contagiati dai virus terrestri, muoiono tutti, ponendo così fine all’invasione.

Allo stesso modo, ma con diverso risultato, in 2012 (R. Emmerich, 2009), la folla riunita in San Pietro, per scongiurare la fine del mondo, riceve come risposta “divina”, il crollo della basilica stessa, che inizia con la formazione di una profonda crepa nel celebre affresco di Michelangelo, proprio nel punto in cui le dita dell’uomo e del creatore quasi si toccano, producendo così un suggestivo effetto di separazione delle due figure, presagio di estrema sventura – l’alleanza tra Dio e l’uomo si è spezzata.

Anche ne La notte di San Lorenzo (P. e V. Taviani, 1982), una parte degli abitanti del paese si riunisce in Chiesa e celebra l’eucarestia sotto la tacita minaccia delle truppe tedesche, il cui comandante ha promesso una salvezza effimera, a cui i fedeli vogliono credere (ma li uccideranno tutti). L’ostia consacrata non basta per i presenti, ed allora le donne iniziano a spezzare alcune pagnotte di pane.

È un ritorno ad uno dei significati originari dell’eucarestia, qui intesa come nell’ultima cena: forma estrema di condivisione e purificazione prima della morte. Valore tradito, ma anche esaltato, dalla crudeltà nazista, che avrà il suo riverbero nell’incredulità del vescovo, ferito dall’esplosione della bomba nella chiesa piena di gente, mentre aiuta una madre a raccogliere il corpo esanime della figlia.

Abbiamo visto come, nel periodo della pittura sacra, liturgia arte e quotidianità andassero di pari passo, mentre la nascita di una nuova ritualità dell’immagine, ha concretizzato ancor più quella sfasatura introdotta nella percezione del tempo, dall’abbandono della pratica condivisa della Liturgia delle Ore, in epoca moderna, ma anche dello stesso memento mori.

L’estrema spettacolarizzazione a cui tende il cinema contemporaneo dei blockbusters, considera sempre più la rappresentazione degli elementi liturgici come un sorta di rito contro il male, quasi fosse la manifestazione di un vecchio superpotere, un tempo efficace contro demoni e catastrofi, risolte oramai in modo individuale (si veda il finale di 2012, con le arche high tech costruite dai cinesi, o ancora quello di Constantine, il cui protagonista è così astuto da ingannare lo stesso Satana).

Una vecchia e superata forma di lotta contro il male dunque, di cui non si sente più il bisogno, perché i confini tra bene e male sono quanto mai incerti, e il rovesciamento di significato è pratica consueta, quando la stessa simbologia sacra è ridotta ad una scarna simbologia new age.

NOTE

(1) Si veda in particolare S. Cammelli, Al suono delle campane. I moti del macinato (1869), Franco Angeli, Milano, 1984.
(2) Vediamone alcuni. Ai piedi della culla di Gesù stanno, rispettivamente a destra e a sinistra, una piccola botticella di vino e un sacchetto rigonfio. Essi stanno a ricordare, a mio parere, l’inizio e la fine della vita miracolosa di Gesù: le Nozze di Cana e il tradimento di Giuda. La Vergine e S. Giuseppe, inginocchiati presso la culla, compiono due gesti significativi: la madre di Gesù ha le braccia incrociate sul petto nel gesto, identificato da C. Frugoni, dell’obbedienza. Le braccia formano una croce (quale miglior forma d’obbedienza?), ricordando così al riguardante la morte del Cristo, come del resto fa la grande croce in legno appesa al muro, alle spalle del terzetto. S. Giuseppe è invece ritratto manibus  junctis, gesto che si diffuse a partire dal XII secolo, grazie all’influsso francescano e per analogia con la recommandatio feudale.
(3) Si vedano in particolare gli studi di A. Warburg e F. Saxl. (4) T. Todorov, Elogio dell’individuo. Saggio sulla pittura fiamminga nel Rinascimento, Apeiron, Roma, 2009.
(5) Si veda soprattutto: G. Brunetta, Cent’anni di passioni. Lo spettatore cinematografico in Italia, Marsilio, Venezia, 1989.
(6) Sceso dal furgone della sua parrocchia per protestare, in modo più che civile, contro un uomo anziano con due figli (o tirapiedi, non si capisce), che gli avevano sottratto il parcheggio, Don Giulio, che indossa l’abito talare, viene ripetutamente immerso in una fontana con la testa. La scena è agghiacciante: ogni volta che il sacerdote emerge chiedendo spiegazioni, in modo sempre civile, viene nuovamente immerso nella fontana dai tre, sempre più a lungo. Mentre compiono questo gesto umiliante, pur usando la forza, i tre continuano ad annuire con il sorriso sulle labbra, come se ascoltassero le parole di Don Giulio.

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Stefano Agnelli

Stefano Agnelli è laureato in Storia Contemporanea, ed insegna materie letterarie negli Istituti di Istruzione Secondaria. Ha pubblicato due raccolte di poesie: “La stagione del sonno fecondo”, Corbo Editore, Ferrara, 2007 e “Turno di notte”, Albatros, Roma, 2011. Ha collaborato con il sito internet Spigolature. Spigoli & Culture, e collabora con la rivista online: Il giornale di Rodafà. Rivista di liturgia del quotidiano.

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