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TABUCCHIANA. Quando il caso diventa destino. Antonio Tabucchi, la vita, le opere, la passione, il Portogallo

“A volte può prendere il via con un gioco”. Così Tabucchi nell’incipit del racconto che apre l’Angelo nero, un racconto che è anche un meta-racconto, visto che parla delle tecniche dell’invenzione (quanto meno della sua), adombrando anche le ragioni segrete che a un tratto piegano verso l’essenziale qualunque iniziale pretesto.

In fondo persino nella biografia tutto può prendere il via davvero così, “con un gioco”, tutto può iniziare per caso o quasi, senza che si possano prevederne le conseguenze. Per lui (a credere almeno al libro delle sue interviste: Zig-zag, Milano, Feltrinelli, 2022) tutto cominciò con un film, La dolce vita.

Aveva appena finito il liceo, ma gli bastò quella pellicola di Federico Fellini per fare crollare il suo mondo e spingerlo a partire. Davanti all’Italia lì raffigurata (non vi apparivano che “intellettuali da strapazzo”, un’intellighènzia autodistruttiva, aristocratici ‘imbecilli’, una borghesia corrotta, un proletariato credulone, mezzi di comunicazione cinici e opportunisti), insomma riflettendo su un paese che da quella rappresentazione cinematografica “usciva con le ossa rotte”, il giovane Tabucchi si disse: “voglio andar via di qui”.

Il mito della Francia lo portò a Parigi, nel mondo magico di Saint-Germain-des-Prés, a seguire come uditore libero le lezioni della Sorbona, mentre per campare faceva il lavapiatti alla mensa della Cité Universitaire.

Dopo un anno, partendo per tornare in Toscana, trovò su una bancarella nei pressi della Gare de Lyon, tradotto in francese, un piccolo libro di un autore sconosciuto che parlava di una tabaccheria vista da un personaggio collocato alla finestra di una casa di fronte.

Era una poesia che iniziava con un’amara riflessione metafisica (“Non sono niente. / Non sarò mai niente. / Non posso voler essere niente. / A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo”) e si chiudeva con il ritorno alla realtà e con una disincantata speranza al saluto di Esteves e all’enigmatico sorriso del padrone della tabaccheria. Il caso gli aveva messo davanti quelle pagine, e quel caso creò per lui un destino.

Incantato dal quel poemetto che gli ricordava forse anche un’attività familiare (il caso opera a volte seguendo persino suggestioni inconsce), Tabucchi si chiese chi mai ne fosse l’autore, scoprì che a Pisa alla Facoltà di Lettere insegnava Letteratura portoghese la bravissima Luciana Stegagno Picchio, e mentre ne seguiva i corsi cominciò a frequentare il Portogallo, allora sotto la dittatura di Salazar (se ne sarebbe ricordato in Sostiene Pereira) e a conoscere e fare amicizia con scrittori dissidenti.

Incontrò lì perfino una bella ragazza bruna, Maria José de Lancastre, che condivideva con lui la passione della letteratura e che qualche anno dopo sarebbe diventata sua moglie. Poi tutto sarebbe seguito, come avviene con le vocazioni e il destino.

È stato in Italia il primo, grande traduttore dell’opera di Pessoa (si ricordino in particolare, pubblicati da Adelphi, i due volumi di Una sola moltitudine, le Poesie, il Libro dell’inquietudine…) e di tanti altri scrittori di lingua lusitana; ha insegnato per tutta la vita letteratura portoghese nelle università italiane (Roma, Genova, Siena…); ha scritto in quella lingua diventata per lui familiare uno dei suoi romanzi più belli (Requiem); è sepolto a Lisbona, nella cappella degli scrittori portoghesi, per desiderio del Portogallo che, grato, l’ha sentito e riconosciuto sempre come uno dei suoi.

In questi ultimi mesi, a consolidare quel che già si sapeva sui rapporti con il suo paese di elezione. sono usciti due libri preziosi: uno pubblicato a Lisbona dalla Fundação Cupertino de Miranda (Mário Cesariny e Antonio Tabucchi, Cartas e outros textos, a cura di Fernando Cabral Martins con la collaborazione di Maria José de Lancastre), l’altro proposto da uno dei nostri più raffinati editori di poesia, il genovese Giorgio Devoto, per le Edizioni di San Marco dei Giustiniani (Concrezioni di Saturno. Antonio Tabucchi traduce Mário Cesariny).

I due testi ruotano intorno a uno dei più significativi poeti del surrealismo portoghese, Cesariny appunto, di cui Tabucchi si era occupato già al tempo della sua tesi di laurea dedicata a un movimento nato in terra portoghese solo nel 1947, con enorme ritardo rispetto all’esperienza francese, destinato, nonostante questo, a essere perseguito e impedito nel suo anelito di novità e libertà.

Un movimento a cui il nostro scrittore, appena laureato, avrebbe dedicato un ricco libro/antologia (La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi, Torino, Einaudi, 1971) che si giovava anche della conoscenza e frequentazione degli autori trattati (in particolare Cesariny e Alexandre O’Neill, di cui soprattutto sarebbe diventato amico).

Il rapporto con il più anziano dei due, pittore e scrittore, capofila del movimento, per questo avversato dalla censura, non sarebbe sempre stato facile. Lo documenta bene il volume di cartas (di lettere inedite) di cui si diceva, che sulla cover ricorda una giornata di sole sulla spiaggia di Fonte da Telha. Tre figure si rivolgono con sguardo intenso a chi sta loro dinanzi: sono il giovane baffuto, divertente, ironico, mingherlino Antonio, la sua sorridente compagna e il più serio e maturo scrittore portoghese.

Il rapporto infatti si sarebbe interrotto presto, nel ’78, per divergenze letterarie proprio in merito al libro sul surrealismo pubblicato da Tabucchi e alla rifiutata partecipazione di Cesariny a un numero di Quaderni portoghesi da lui curato.

Ciò non toglie che fosse rimasto al fondo un legame tra i due; lo testimonia il bel pezzo Fra noi e le parole di Maria José che apre il volume italiano, ricco anche di testi tabucchiani dispersi, che offrono un inedito quadro del surrealismo portoghese e dei suoi protagonisti.

Antonio avrebbe continuato nel tempo lo studio degli spazi privilegiati della poesia di Cesariny (da lui collocati tra fuga e evento all’interno di evidenziate costanti: mito, parodia, eros, massime), così come avrebbe continuato a tradurlo, convinto della sua importanza nel quadro della poesia europea del secondo Novecento.

Ce lo provano queste Concrezioni di Saturno (il suggestivo titolo è desunto da un frammento poetico) che, riunendo con testo a fronte tutte le versioni dell’autore fatte da Tabucchi (comprese le disperse e inedite), consente di ripercorrere un universo poetico dove a grotte di oscurità si contrappongono continuamente luminescenze di sole, mare, giardini…

Difficile non annoverare in una nostra personale auto-antologia testi come A Edgar Allan Poe (con le sue concrezioni preziose e ibridate: “… mio granchio di diamante fra la vita e la morte la grazia e la disgrazia la verità e l’errore… […] mio fiume nero aspro velenoso scintillante e tremantesmeraldo e violetta […] parete bianca di apparizioni fumanti […] fermi ragni d’argento”), A António Maria Lisboa (“Da qui a Saturno c’è sempre stata molta strada / a meno che non si prenda il cammino più ripido…”), Un canto telegrafico…; difficile dimenticare le liriche dalle quali emerge il contrasto tra la vita condotta in una caverna di cui il sole illumina solo per intermittenze il recinto e una luce improvvisa che libera. Parimenti quelle in cui a risaltare è il contrasto tra l’ansia d’infinito e un quotidiano (che pure ‘meritiamo’) che stride clamorosamente con aspirazioni e speranze.

Nessun dubbio che al centro di quelle di Cesariny (sorvegliato e censurato dal regime), come del nostro Tabucchi, ci fosse il desiderio della libertà (giacché “dov’è il mondo se non qui?”), la pulsione verso una “città futura / dove la poesia “non ritmerà più l’azione / perché camminerà davanti ad essa” (Voce di una pietra), il ripetuto invito a discutere l’ovvio, a parlare, a impegnarsi (“Fra noi e le parole i murati vivi / e fra noi e le parole, il nostro dover parlare”: You are Welcome to Elsinore), come Antonio in qualunque sede non si sarebbe mai dimenticato di ricordare.

Cover: particolare della copertina del volume portoghese “Mario Cesariny e Antonio Tabucchi. Cartas e outros textos” 

Per leggere gli articoli di Anna Dolfi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

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Anna Dolfi

Anna Dolfi, professore emerito dell’Università di Firenze (dove ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana moderna e contemporanea), è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei. Tra i maggiori studiosi di Leopardi, di leopardismo, di ermetismo, di narrativa e poesia del Novecento, ha progettato e curato volumi di taglio comparatistico dedicati alle “Forme della soggettività” sulle tematiche del journal intime, della scrittura epistolare, di malinconia e malattia malinconica, di nevrosi e follia, di alterità e doppio nelle letterature moderne, e raccolte sul tema dello stabat mater, sulla saggistica degli scrittori, la riflessione filosofica nella narrativa, il non finito, il mito proustiano, le biblioteche reali e immaginarie, il rapporto tra notturni e musica, letteratura e fotografia, ebraismo e testimonianza. Dopo due libri su Tabucchi (“Antonio Tabucchi, la specularità, il rimorso”, 2006; “Gli oggetti e il tempo della saudade. Le storie inafferrabili di Antonio Tabucchi”, 2010), ha curato per la Feltrinelli l’ultimo, postumo libro di saggi dello scrittore (“Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema”, 2013). Su Bassani imprescindibili i suoi libri che ne leggono l’intera opera alla luce della malinconia e delle strutture e proiezioni dello sguardo (“Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia”, 2003; “Dopo la morte dell’io. percorsi bassaniani ‘di là dal cuore'”, 2017). A sua cura l’edizione critica e commentata delle “Poesie complete” di Bassani (Feltrinelli, 2021).

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