Supplenti & Precari
Come si fanno i concorsi per insegnanti in Italia
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Supplenti & Precari. Come si fanno i concorsi per insegnanti in Italia
Premessa generale: uno dei rischi maggiori dell’Italia è l’emigrazione crescente dei suoi abitanti –quasi tutti giovani, dei quali un terzo laureati. Nel 2023 il saldo migratorio con l’estero è stato +274mila persone: sono arrivati 360mila stranieri e ne sono partiti 34mila (saldo +326mila stranieri), inoltre sono espatriati 108mila italiani e ne sono arrivati 55mila (saldo -53mila italiani).
Secondo uno studio di Nicola Bianchi e Matteo Paradisi su dati INPS, dal 1985 al 2015 diminuisce del 34% la percentuale di giovani che finisce nel quartile più alto dei salari e aumenta del 16% quella degli anziani. In sostanza i giovani hanno (rispetto a una volta) salari più bassi e fanno meno carriera. Per questo la probabilità che i giovani assumano posizioni manageriali è diminuita in 30 anni di 2/3, mentre è cresciuta dell’87% tra gli anziani. Dati che stroncano tutta la diffusa retorica sul fatto che le innovazioni e il digitale favorirebbero i giovani. Trent’ anni fa un laureato che entrava in azienda era favorito solo per il fatto di avere la laurea. Oggi deve fare i conti con molti altri laureati e con quei diplomati che avendo già lavorato a lungo hanno esperienza, a conferma che per le imprese il lavoro (e non solo lo studio) è formativo.
Uno Stato che è in declino demografico e che spende per formare giovani che poi vanno a lavorare all’estero è la premessa per una crisi futura (pensionati inclusi). Per questo si dovrebbe fare il massimo per crescere nei settori dove i salari sono alti -manifattura, ricerca- mentre noi puntiamo su turismo ed edilizia.
A proposito di gente che scappa o scapperà dall’Italia. Anche il prossimo settembre sarà record di supplenti: 250mila (di cui 111mila di sostegno). Se si escludono i docenti di sostegno, il personale a contratto determinato sarà di 172mila nel 2024-25 (era di 114mila unità nel 2017-18, fonte: Corte dei Conti), nonostante il nuovo concorso per 45.124 posti (ma quelli vacanti sono in realtà 64.156 dopo la mobilità).
Guandalini e Zappatore su Il Mulino, (https://madrugada.blogs.com/il-mio-blog/2024/07/la-formazione-degli-insegnanti-di-nuovo.html), propongono di risolvere il caos generato negli ultimi 20 anni sui concorsi dei docenti della scuola pubblica, con l’istituzione di una laurea magistrale (5 anni) seguita da un anno di tirocinio retribuito, in modo da risolvere definitivamente l’annoso problema dei precari e dare qualità nella selezione dei docenti. La proposta prevede che dopo un primo triennio di materie (lettere, matematica,…) ci siano due anni di laurea magistrale dedicata alla metodologia di come si insegna, seguiti da un anno di tirocinio retribuito e da un tutor, in modo da avere al termine l’idoneità e il lavoro a tempo indeterminato. La proposta è condivisibile per i nuovi, ma non affronta il problema di come sistemare l’enorme numero di precari (ben 234.576 supplenti attuali) che sono cresciuti in 8 anni (fonte Uil scuola) dal 12% del personale (2015) al 24% di oggi.
Un dato abnorme ed assurdo per uno Stato che dovrebbe erogare un servizio pubblico. Ciò è dovuto ad un sistema di reclutamento che definire inadeguato e frammentato è un eufemismo e che ha accresciuto i precari, dalla renziana Buona Scuola ad oggi. Fino a ieri però si trattava spesso di “precari tutelati”, in quanto molti ottenevano l’incarico annuale di 12 mesi o di 10 (integrabile con 2 mesi di indennità di disoccupazione), e quasi sempre si vedevano rinnovato il lavoro nell’anno seguente (ottenendo più punti, si saliva nelle graduatorie che vengono rinnovate ogni tre anni). Così ha funzionato negli ultimi 20 anni, per cui nella scuola abbiamo precari anche con 10-12 anni di lavoro, mai stabilizzati. Questo dimostra che il pubblico si comporta come il peggior padrone privato: nessuno tollererebbe 10-12 anni di rinnovi con contratti a tempo determinato.
Da settembre 2024 però non sarà più così. Il nuovo Ministro cambia musica. Si stima che 150mila precari che hanno insegnato per vari anni possano finire senza lavoro, in quanto le regole dei concorsi sono state cambiate: chi non ha l’abilitazione non può più andare in “prima fascia”, avvantaggiando i neo laureati che non hanno mai insegnato ma che si abiliteranno attraverso i 30 crediti (CFU, 120 ore di lezione), ottenuti pagando università statali o private o enti di formazione che li hanno avviati negli ultimi 12 mesi.
Chi invece ha lavorato negli ultimi 10 anni non si è mai potuto abilitare perché tali corsi abilitanti negli ultimi 10 anni non venivano organizzati. Ora, dovendo contemporaneamente lavorare, fa più fatica sia a farli che a pagarli e così rischia di rimanere senza lavoro, perché dall’anno prossimo avranno la preferenza coloro che hanno ottenuto l’abilitazione.
Il nuovo Governo ha infatti deciso che l’unico criterio per entrare in “prima fascia” sarà l’abilitazione, mentre gli anni di lavoro fatti conteranno pochissimo. Ciò dimostra che nella cultura dominante della scuola e di chi al Ministero fa le norme per selezionare gli insegnanti (ieri di sinistra, oggi di destra) il lavoro svolto di tanti anni non conta. Ma quelli che hanno lavorato sanno che è vero quello che ha detto benissimo Guia Soncini: “Nessuno sa lavorare se non dopo anni che lavora, l’università nel migliore dei casi t’insegna a studiare, a lavorare t’insegna solo lavorare”.
Si stanno intanto concludendo gli esami del maxi concorso che recluta 45mila posti. Questa volta la copertura sarà integrale perché il nuovo Ministro ha deciso di renderli più facili. Mentre infatti nei concorsi precedenti su 100 posti disponibili ne venivano coperti circa 20, in quanto la selezione era durissima, ora è il contrario: su 100 posti disponibili coloro che superano l’esame di concorso sono il doppio, dei quali metà andranno a posto subito e l’altra metà avrà 3 punti in più in graduatoria, in attesa di sapere quale sarà il loro futuro di vincitori di concorso, ma senza il posto. Una cosa all’italiana, più unica che rara.
Al di là del fatto che questo ministro sembra meno autolesionista del precedente -che senso ha avuto, in anni passati, su 100 posti necessari reclutarne solo 20?-, in nessun caso tra i criteri di attribuzione punti in graduatoria vi è mai stato un punteggio significativo in base agli anni di lavoro svolti. Conta un esame scritto a base di quiz a crocette e, se lo passi, un orale che vede i seguenti punteggi: 40 per l’esposizione dell’argomento assegnato su cui ti devi preparare con 24 ore di anticipo, 35 per la metodologia con cui presenti la lezione, 20 per la domanda specifica e 10 per la conoscenza dell’inglese. Per il tempo di lavoro già prestato puoi avere massimo 6 punti (2 punti l’ anno per un massimo di 3 anni), i quali pesano per il 5% sul totale dei punti (95% teoria, 5% pratica).
Sarebbe stato equo dare la possibilità anche a questi insegnanti di ottenere l’abilitazione e, soprattutto, aggiungere un punteggio significativo per ogni anno di lavoro (accanto agli altri indicatori). Si può ragionevolmente supporre che più si insegna più si impara ad insegnare. Inoltre chi insiste ad insegnare in Italia può considerarsi motivato, visti i modesti salari…
Chi non si abilita sarà discriminato, con tanti saluti da parte di uno Stato che mostra il volto del peggior padrone privato. Intanto a settembre le scuole, soprattutto al nord, si ritroveranno come sempre con 250mila supplenti. Il Ministro Valditara continua a parlare del «grande piano di assunzioni» del governo Meloni e prevede a novembre un altro concorso (chiesto dal Pnrr). Ma non basterà certo per risolvere il problema strutturale delle assunzioni nella scuola italiana.
Andrea Gandini
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