È netto il segretario generale della Fillea Cgil Alessandro Genovesi, ragionando sulle cause degli incidenti: “Il costante stillicidio di operai morti nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi sono l’esatta fotografia di un modello di sviluppo e di impresa che ha assunto il profitto come variabile indipendente e la svalutazione dei fattori di produzione come leva di competizione per tenere bassi i prezzi e massimizzare i guadagni”. Forse, aggiungiamo noi, è per questo che nonostante l’aumento degli infortuni e delle morti, nonostante l’aumento altrettanto impressionante delle malattie professionali, il governo Meloni sembra sordo a qualsiasi richiesta di confronto – se non di facciata – su come migliorare la legislazione in materia di salute e sicurezza.
LA PATENTE A PUNTI
In origine, l’articolo che la prevedeva era nel decreto legislativo 81 del 2008, Il Testo unico per la salute e la sicurezza sul lavoro, aveva un titolo esplicativo e significativo: “Sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi tramite crediti”. Non si limitava infatti a introdurre un punteggio e delle soglie sotto le quali l’impresa non poteva lavorare, ma prevedeva un sistema di qualificazione, appunto, che serviva a migliorare le condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro. In tutti i luoghi di lavoro, non solo in quelli dell’edilizia. Peccato che non sia mai stato attuato.
Già nel 2011 non solo le tre confederazioni, ma anche alcune organizzazioni datoriali a partire dall’Ance, hanno sottoscritto un Avviso Comune che riponeva il tema e la richiesta della patente a punti, di strumenti e procedure per ridurre incidenti e malattie professionali. Richiesta inascoltata. Si è dovuti arrivare a poche settimane fa, quando cinque operai edili, ma non tutti con il relativo contratto, sono morti in un cantiere di Esselunga a Firenze. Ai fiori e alle parole ufficiali – forse un po’ stantie – di cordoglio è seguito l’impegno a introdurre la patente a punti.
In copertina: foto di Simona Caleo (Collettiva)
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