Storie in pellicola /
“Effetto spettatore” nel corto Busline35A di Elena Felici
Tempo di lettura: 5 minuti
Dopo “Roberto” contro il bodyshaming, un altro corto denuncia un fenomeno sociale in preoccupante dilagare, l’“effetto spettatore”.
Detto anche bystander effect o bystander apathy, “apatia dello spettatore”, “effetto testimone” o “sindrome del cattivo samaritano”, si tratta di un fenomeno della psicologia sociale che si riferisce ai casi in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà, in una situazione d’emergenza, quando sono presenti anche altre persone che assistono alla stessa scena.
In altre parole, indifferenza, dettata spesso dalla paura delle reazioni degli altri. La probabilità dell’aiuto è inversamente correlata al numero degli spettatori: maggiore è il numero degli spettatori, minore è la probabilità che qualcuno di loro aiuterà.
Furono John Darley e Bibb Latané, nel 1968, a studiare il fenomeno, studiando l’omicidio di Kitty Genovese nel 1964 (foto sotto), una donna che fu accoltellata a morte nei pressi della sua casa nel quartiere di Kew Gardens a New York.
I ricercatori effettuarono una serie di esperimenti, fra questo uno in particolare. Il partecipante è da solo o in un gruppo di altri partecipanti o alleati. Viene inscenata una situazione di emergenza e i ricercatori misurano quanto tempo occorre perché i partecipanti intervengano, se intervengono. Questi esperimenti hanno trovato che la presenza di altri inibisce l’aiuto, spesso di un largo margine. Le persone presumono, infatti, che vada tutto bene solo perché altre persone presenti non dimostrano di percepire alcunché di strano (quindi non vi è vera emergenza e il tempo di reazione varia anche in base alla norma sociale di ciò che è considerato etichetta ben educata in pubblico); vi è poi una diminuzione del senso di responsabilità avvertito da ciascun individuo quando sono presenti altri potenziali soccorritori. Anche l’ambiguità è un fattore che influenza se una persona assiste o no un’altra che ha bisogno. Nelle situazioni in cui lo spettatore non è sicuro se una persona richieda assistenza, il tempo di reazione è lento. Nelle situazioni a bassa ambiguità (una persona che grida aiuto) il tempo di reazione è più rapido che nelle situazioni ad alta ambiguità.
Nella cronaca recente, abbiamo visto tanti casi di Bystander Effect. Per tutti basti ricordare la tragedia dell’agosto 2017 di Niccolò Ciatti, un ragazzo toscano pestato a morte in una discoteca di Lloret de Mar, in Spagna. Coinvolto in una rissa, nel cuore della notte, per motivi ignoti. Dai racconti nessuno va in suo aiuto. Qualcosa paralizza tutti.
Il professore di psicologia Antonio Andrés Pueyo, interpellato all’epoca, ha fatto riferimento alla dissoluzione della responsabilità: ognuno delega all’altro l’intervento, creando di fatto immobilismo. Vi è anche apatia sociale, grave mancanza di empatia, frutto di paura, ma anche dei modelli educativi che stiamo perpetrando.
A parlare di questo crescente e inquietante fenomeno, un corto animato di 6 minuti della giovane regista italiana Elena Felici, realizzato in collaborazione con l’Animation Workshop del danese VIA University College di Viborg, dal titolo Busline35A.
Guarda il corto animato:
Testo in inglese, cliccando CC si trovano i sottotitoli in italiano
Al centro della storia una ragazzina timida che frequenta le scuole medie e ama la musica che torna a casa, su un bus serale/notturno, seduta in fondo, come spesso avviene. Chissà perché, ma molti giovani studenti amano sedersi in coda…
A una delle fermate un uomo dal fare losco sale e si siede vicino alla giovane donna, iniziando a infastidirla, a molestarla verbalmente e non solo. Ansia. Ansia che cresce.
Sullo stesso bus, a pochi sedili di distanza, sono presenti altre tre persone, i veri protagonisti silenziosi del film (non dell’azione).
Una signora anziana dal fazzoletto rosso legato sotto il collo e la giacca pesante, con le polpette un po’ troppo salate preparate per il figlio che nota come i sedili del bus non siamo i soliti, un vecchio signore che ha appena acquistato la bici elettrica per andare anche in montagna, con una riga di sangue sulla fronte che lo fa assomigliare a Clint Eastwood e, infine, una donna di mezza età che ha perso il lavoro qualche settimana prima, licenziata per un “comportamento poco professionale”. Sospira. Pensa a Giovanna d’Arco. Le donne della storia che hanno avuto coraggio non hanno fatto una bella fine. Essere eroi, pensa, non ripaga affatto.
Ognuno pensa a sé, ai suoi problemi, alle sue piccole grane quotidiane, ognuno sente bene i commenti dell’uomo verso la ragazzina, ma tutti restano impassibili, come se non ci fossero né loro né quella scolaretta indifesa. Ciascuno è immerso nei suoi pensieri che risuonano ad alta voce, quasi a giustificare la loro inerzia e, dunque, alla fine, complicità.
Fino allo scampato pericolo, che avviene per puro caso. Solo perché il molestatore demorde. Non certo grazie all’intervento tempestivo di chicchessia.
Forte il contrasto fra quanto avviene in fondo al bus e le piccole e banali storie quotidiane dei complici silenti, spaventa molto questa vera paralisi collettiva.
La paura di trovarsi in situazione analoga.
E poi sorge la fatidica domanda, quella che ci facciamo tutti: se fosse toccato a noi, cosa avremmo fatto?
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Simonetta Sandri
Commenti (5)
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Magnifico e terribile
Terribile davvero, a me spaventa molto
Colpisce duramente e va dritto a toccare il problema, ci mette davanti a uno specchio
non ci lega più il senso d’appartenenza alla comunità umana…chiusi nell’anonima quotidianità… così si affermò il fascismo ed il nazismo tra l’indifferenza di chi avrebbe potuto fermarli! Hanna Arendt lo ha spiegato molto bene!
Fa riflettere! Davvero!