Storia di AfroAtenAs, il collettivo cubano LGBTQ+ che ha trasformato un quartiere discarica in un modello di sviluppo urbano e umano
di Fabio Pozzato
(Questo servizio è uscito su Valigia blu del 26.03.2023)
Attraversato il ponte sul Rio San Juan, ci si lascia alle spalle il centro storico di Matanzas tirato a lucido e si entra a Pueblo Nuevo, il quartiere più povero della città e uno dei più malfamati. Nel reticolo di strade dissestate e edifici malmessi, ci si imbatte d’improvviso in un caseggiato ricoperto di murales colorati, i marciapiedi puliti, un ambulatorio, le case degli artigiani e quelle aperte con gli altari della santería. Fino a dieci anni fa, Calle San Ignacio era una discarica a cielo aperto. Oggi è conosciuto come El Callejón de las tradiciones, un’attrazione turistica entrata nei cataloghi delle fiere internazionali.
Cosa sia successo lo racconta a Valigia Blu Yoelkis Torres, 38 anni, una laurea in economia e un master in antropologia, alla guida di AfroAtenAs, il collettivo LGBTQ+ più famoso di Cuba. Sono stati loro, quando non erano che «pajaritos», come dice lui, a rivoltare il quartiere, renderlo vivibile prima e a trasformarlo poi in «un modello integrato di sviluppo urbano e umano», sottolinea con orgoglio.
«Nel 2009 volevamo far rivivere la tradizione della santería afro-cubana. All’inizio la municipalità non ci ha dato retta, allora ci siamo rivolti alla Casa Africa della Oficina del Historiador», l’ente che si occupa di recuperare il centro storico dell’Avana. «Ci hanno accolti con molta tenerezza», ricorda. E così si sono inseriti in un circuito nazionale per promuovere le radici culturali dell’isola. «Ritornati a Matanzas, i capi locali del partito e delle istituzioni non potevano ignorarci». A quel punto il gruppo ha preso in mano il quartiere: «Abbiamo ripulito l’enorme immondezzaio che ostruiva le strade e realizzato un evento, con musica, artigianato e spettacoli, coinvolgendo gli abitanti. Così è nato El Callejón».
AfroAtenAs è un esempio di attivismo che ha rivendicato il proprio diritto a esistere facendosi carico delle spaventose condizioni della comunità dove vive. Che la gente del posto gliene sia grata lo si vede camminando per strada con Yoelkis. Hanno fatto aprire un consultorio, organizzano decine di laboratori e progetti sulla salute, servizi per le donne vittime di violenza e corsi professionali; hanno restaurato una scuola per bambini con handicap e avviato workshop per giovani del riformatorio.
«Abbiamo fatto nostro uno slogan del Consiglio delle chiese cristiane, “se non saremo parte della soluzione, resteremo parte del problema”». Tutt’altro che un’impresa facile, in un posto come Cuba dove lo Stato è ossessionato nel controllare ogni cosa. «Le autorità hanno fatto di tutto per metterci i bastoni tra le ruote, ma senza capire fino in fondo cosa stessimo facendo». Un esempio? Dove ha sede ora AfroAtenAs era un edificio storico abbandonato: «Lo abbiamo occupato, poi siamo andati dalle autorità locali: non sappiamo cosa farcene, ci hanno detto, se voi potete, gestitelo».
Oggi ha uffici, sale per attività, una terrazza-caffè, ovunque le bandiere arcobaleno, fuori il murale de la Virgen de la Regla che sembra una pop-star.
Per fare tutto questo, l’aiuto dall’estero è stato prezioso. In questi anni AfroAtenAs ha partecipato ai bandi lanciati delle ambasciate di Canada, Olanda e Repubblica Ceca, la Federazione di medici svizzeri, la Fondazione svedese per i diritti umani, l’Agenzia svizzera di cooperazione. È così che ha finanziato ogni singolo progetto. Questa trama di alleanze dentro e fuori l’isola e il lavoro sul campo hanno dato al collettivo la fama e la forza che tutti ora gli riconoscono
Il regime castrista, che da 65 anni governa l’isola, ha un debito enorme con la comunità LGBTQ+. Per decenni sono stati uno dei bersagli preferiti della repressione. È passato molto tempo dalle UMAP, i campi di lavoro forzato dove negli anni ’60 venivano inviati gli «asociali», che fossero dissidenti, hippie, preti o omosessuali, ma in tanti ricordano la pagina orrenda di quella che ancora oggi è chiamata la Revolución. Cinquant’anni dopo, Fidel Castro si è scusato ma nessuno è stato risarcito per quel trauma, e intanto il machismo restava inattaccabile. Ad oggi non ci sono dati e nemmeno stime ufficiali sui crimini di odio contro le persone LGBTQ+.
Dal 1989 è attivo il Cenesex, il centro di educazione sessuale che da 23 anni è guidato da Mariela Castro, la figlia di Raul, fratello di Fidel. «Svolge ancora un ruolo di supporto prezioso, ma è ormai arcaico, è gestito con paternalismo e autoritarismo. Il Cenesex è anche un meccanismo di controllo su una comunità che è diventata sempre più inquieta e ha bisogno di autonomia», racconta Mel Herrera, 27 anni, che studia contabilità all’Università all’Avana ed è una delle attiviste transgender più conosciute a Cuba.
Un vero spartiacque sono i fatti dell’11 maggio 2019. Ogni anno è il Cenesex che commemora la giornata contro l’omofobia, ma quell’anno decide di annullare tutte le iniziative senza dare spiegazioni e per tutta risposta i gruppi locali si organizzano e improvvisano una marcia autonoma all’Avana. Il primo vero Pride cubano finisce sì in pestaggi e arresti da parte della polizia, «ma segna anche un prima e un dopo. Quella marcia ha anticipato le proteste degli artisti dell’anno dopo e le grandi manifestazioni popolari dell’11 luglio 2021», continua Mel Herrera. Se Cuba ha perso la paura, insomma, lo deve anche a tante persone LGBTQ+.
Quel maggio del 2019, Mariela Castro taccia i manifestanti di essere «controrivoluzionari pagati da Miami e da Matanzas». In pochi capiscono il riferimento alla città cubana: ma è ad AfroAtenAs che si riferisce la potente deputata castrista. Mariela deve essersela legata a un dito. L’anno scorso, ad esempio, AfroAtenAs ha organizzato una carovana di città in città, «nonostante il divieto del Cenesex ai suoi membri di partecipare – racconta Yoelkis – Ma loro rappresentano lo Stato, noi siamo società civile».
La parola «società civile» è qualcosa di molto rarefatto a Cuba. Cosa sia (o cosa possa essere) è difficile da dire in un paese dove lo Stato ha il terrore di qualunque iniziativa spontanea. Preservare uno spazio di autonomia è impresa di pochi. E tra questi c’è proprio AfroAtenAs, «forse perché da sempre lavoriamo negoziando continuamente i limiti, contestiamo apertamente i funzionari negligenti e le leggi ingiuste – continua l’attivista – Siamo di lingua lunga, ci controllano, ci mettono mille ostacoli e noi altrettante strategie per superarli».
Anche Mel Herrera è testarda. Nel dicembre scorso, in occasione di Natale, con altri 15 amici ha organizzato una cena comunitaria per le persone LGBTQ+ e povere del suo quartiere in Centro Habana. Ha raccolto fondi e viveri, un’operazione di mutuo aiuto alla luce del sole come si vede raramente qui. È stata anche una corsa ad ostacoli con la Seguridad del Estado, la Stasi cubana. Minacciata, convocata sette volte per essere interrogata, Mel Herrera è stata oggetto di uno stillicidio di atti repressivi. «Ho tenuto duro e la cena è stata emozionante: abbiamo servito 80 pasti, molti li abbiamo consegnati alle persone che dormono per strada». Lo Stato cubano teme l’autonomia dei gruppi LGBTQ+ e ogni volta sembra preso alla sprovvista, ma «se siamo capaci di resistere alle angherie e di auto-organizzarci è il frutto di un allenamento di decenni contro l’esclusione e la morte civile – riflette Mel Herrera – Il movimento LGBTQ+ cubano è giovane e povero di risorse, ma ha radici lunghe, solo che ora internet ci dà molta più visibilità e possibilità di stare in contatto».
Nel settembre dell’anno scorso Cuba è finita sotto i riflettori perché un referendum ha approvato il nuovo Codice di famiglia che permette il matrimonio ugualitario. Una settimana prima del voto, Yennys Hernández Molina e Nere Rivera Velasco hanno celebrato le loro nozze nella Chiesa della comunità metropolitana di Matanzas, una chiesa protestante che accoglie molte persone LGBTQ+ ed è guidata da una pastora, Elaine Saralegui Caraballo. Emozionate e vestite di bianco, le due spose sono state immortalate dalla CNN.
Come il regime sia arrivato a varare un Codice così inclusivo, «si spiega con un insieme di motivi», riflette Nere, trentenne, giornalista indipendente, quando la incontriamo nella sua casa. «In parte per pagare quel debito mai saldato con la comunità LGBTQ+; in parte per presentarsi all’estero con una buona carta da giocare, soprattutto con gli europei e le sinistre latinoamericane, in un momento in cui la questione della repressione e dei diritti umani è risalita alla ribalta. Una sorta di pinkwashing». E aggiunge: «C’è un terzo motivo: la comunità ha lottato per la propria sopravvivenza in questi 60 anni, riuscendo a costruirsi una agibilità e una libertà di movimento che altri attori sembrano non avere. Come? Intessendo reti fra gruppi, mutuo soccorso, alleanze, e anche dialogando con le istituzioni per aprire spazi, anche piccoli». Non significa che la repressione sia cessata: «Molti di noi continuano a essere assediati, ricattati, minacciati. Succede quando tiriamo la corda o ci sottraiamo apertamente ai loro meccanismi di controllo».
La foto di copertina e quelle che corredano il testo sono di Fabio Pozzato
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