De Luca si riferisce alle immagini dell’assalto al Congresso americano, a quelle dell’omicidio di George Floyd dove un uomo bianco tiene il ginocchio sul collo di un uomo nero fino a ucciderlo per soffocamento, alle immagini dei migranti alla frontiera separati dai bambini e, per ultime, a quelle, appunto, della polizia che entra nei campus o degli scontri tra manifestanti.
A pochi mesi da dalle elezioni, inoltre, i leader politici americani non fanno altro che alzare il livello di scontro. “Joe Biden – ricorda l’analista – ha fatto un discorso che mi ha colpito per i toni usati. Dopo settimane in cui soprattutto i repubblicani lo tiravano un po’ per la giacca, l’entourage democratico ha ritenuto opportuno che lui si esprimesse in maniera chiara su quello che stava succedendo”.
Nei mesi scorsi esponenti del dipartimento di Stato e anche della Casa Bianca si sono espressi nettamente contro quella che era la posizione americana nei confronti di Israele e il sostegno al governo di Benjamin Netanyahu. Per De Luca si tratta dei sintomi di fratture “in un anno elettorale che rende ancora più tossici argomenti che hanno a che fare con l’identità degli Stati Uniti. Ma sul piatto c’è anche il sostegno a un paese come Israele che è un partner speciale nella storia degli Stati Uniti, con il rapporto che ha costruito dal ‘48 a oggi. Sono argomenti fortemente identitari, capaci quindi di sollevare le reazioni più forti, più emotive. D’altra parte siamo in presenza di una campagna elettorale che è già molto emotiva e che quindi comporta a esporre le linee di rottura che oggi sono molto evidenti nel tessuto sociale e di elettorale americano”.
Un problema generazionale
La studiosa del’Ispi fa notare poi che “non è un caso che queste linee di faglia corrano lungo delle direttrici che sono generazionali, tema che tocca questa campagna elettorale: siamo in presenza di due candidati che allontano un elettorato giovane che non si riconosce in due ultra ottuagenari. Questa frattura corre lungo la linea generazionale anche sullo stato di Israele. Quello che sta succedendo potrebbe contribuire a spostare gli equilibri in maniera imprevedibile. C’è un refrain abusato secondo il quale la politica americana non decide le elezioni e alla fine la gente vota secondo quelli che sono chiaramente i suoi interessi più personali”.
De Luca illustra quella che pare essere la strategia di Joe Biden spiegando che il presidente uscente “sta puntando tutto sul fatto che prima o poi la guerra finirà, le lezioni degli studenti termineranno in estate e per quando inizierà il prossimo semestre autunnale, che peraltro coinciderà con le settimane più critiche della campagna elettorale, la fase peggiore della guerra Gaza sarà finita e quindi gli animi si saranno stemperati. Se così non dovesse essere i democratici si troveranno un grosso problema tra le mani”.
Non solo Stati Uniti
Le manifestazioni degli studenti universitari in difesa del popolo palestinese si stanno però moltiplicando anche in altri Paesi: in Messico come in Francia e in Italia. “La Francia per forza di cose ha una sensibilità particolare per quello che sta succedendo a Gaza – afferma l’analista dell’Ispi -, perché è un Paese dove c’è la più nutrita comunità ebraica d’Europa e una fortissima immigrazione dai Paesi del Nord Africa, dalle ex colonie, che ha un rapporto difficile con il mondo arabo e che però chiaramente da quando è scoppiata la guerra è attraversata da scariche elettriche che contribuiscono a disturbare le notti di Emmanuel Macron”.
Per l’analista le richieste degli studenti sono legittime e molto circostanziate: “Si chiede di valutare l’opportunità dei progetti in condivisione con le università israeliane, di sospendere eventualmente progetti che possano approdare a tecnologie dual use, quelle cioè che vengono utilizzate in campo sia tecnologico che militare. D’altra parte abbiamo una folta letteratura su come l’industria militare tecnologica israeliana sia anche profondamente legata ai dipartimenti universitari e quindi al mondo dell’Accademia. Sicuramente ci sono stati degli slogan antisemiti, ci sono state delle posizioni oltranziste, ma soltanto chi non ha mai partecipato a una manifestazione non sa che questi estremismi ci sono”.
De Luca ricorda poi che alla Brown University il rettore e i presidi di facoltà hanno optato per un altro approccio e infatti “il sit-in si è sciolto in maniera pacifica. Le istituzioni universitarie hanno accolto le richieste degli studenti dicendo che il corpo docenti valuterà tutta una serie di progetti di collaborazione in atto con le università israeliane. Questa è una piccola vittoria perché è stata riconosciuta la legittimità delle richieste degli studenti, cosa che mi pare finora non sia accaduta nelle altre università”.
Invece, continua, “alla Columbia University di New York, all’università dell’Alabama a Tucson e in tanti altri luoghi ci sono stati degli approcci molto muscolari. E francamente pensare che l’unico modo per sgomberare sit-in di universitari che fino all’altro ieri non sembravano dei pericolosi antisemiti sia quello di mandare la polizia in assetto antisommossa, non mi convince”.
Quanto alle proteste nelle università italiane, De Luca conclude sottolineando che le autorità hanno fatto subito capire come girava il vento e quindi dopo quanto accaduto durante le proteste di Pisa, Napoli e Roma “non si è mossa più una foglia”.
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