Sei mesi. Un racconto
Paolo aveva alle spalle una grande esperienza nel canottaggio: più di 10 anni di attività a livello agonistico, poi da allenatore e come dirigente sportivo nella federazione. Ora, settantenne ancora atletico, anche per distrarsi dopo la perdita di sua moglie, allenava una squadra di canottaggio femminile. Una bella squadra di “ragazze” di età comprese tra i 41 e i 72 anni. Quella mattina c’era l’ultimo allenamento della finale del campionato di categoria. Le atlete entrarono in palestra alla spicciolata, vociando, allegre come sempre: Carla, Jenny, seguite da Enza, Ilary e Franca.
Ma quel giorno era davvero difficile iniziare gli allenamenti: mancava Federica, il Capitano, per tutti semplicemente Fede. Le ragazze se ne accorsero subito: “E Fede dov’è?” gli chiese Carla.
“Non so, non l’ho ancora vista, mi sembra che abbia scritto un WhatsApp, ma non l’ho aperto” rispose Paolo evasivo.
Gli occhi di Carla e di tutta la squadra lo scrutarono: “beh e allora leggilo… che ci vuole ad aprire un WhatsApp?” obiettò Carla. Lei era sempre gentile e attenta a non urtare la sensibilità di nessuno, ma quello scatto tradì la sua impazienza: tutte volevano sapere perché Federica non fosse presente a un allenamento così importante per la finale. Paolo le accontentò, anche se già sapeva cosa c’era nel messaggio di Federica, perché lo aveva sbirciato mentre arrivava in autobus.
“Dunque… manda i suoi saluti, dice che non può venire perché ha un controllo e più tardi ci chiama per conoscere la formazione di gara di sabato” rispose Paolo, fingendo di leggere il messaggio di Federica. Le ragazze annuirono sollevate, anche se non del tutto, da quel messaggio. Iniziarono il riscaldamento muscolare, poi andarono a pesarsi, compilando il questionario sui farmaci assunti durante l’ultima settimana.
Solo Carla lanciò uno sguardo all’allenatore, interrogativo. Paolo ormai conosceva le sue “ragazze”, quello sguardo significava: “a’ Paolè, a me non la dài a bere: perché non l’hai letto davvero ‘sto WhatsApp, visto che era così innocuo? Cosa nascondi?”.
Paolo fece una battuta sulla tuta sgargiante di Jenny, poi si sedette con un largo sorriso, riponendo ostentatamente il cellulare in tasca, come a dire: “È tutto. Non nascondo nulla, il messaggio di Fede è esattamente questo”.
Le ragazze passarono agli attrezzi per gli esercizi personalizzati e poi al computer: la fase più delicata dell’allenamento, il momento in cui si scopriva se, in base al peso (quello misurato sulla bilancia, perché Paolo non si fidava dei pesi ”approssimativi” riferiti a voce dalle atlete), e alle note sui farmaci e performance muscolare, le atlete avevano migliorato le loro prestazioni rispetto alla settimana precedente, oppure avevano commesso qualche “peccatuccio”, per esempio un eccesso di carboidrati.
Se sul monitor si accendeva la bandierina verde accanto al nome significava che l’insieme di dati, peso e forza muscolare erano buoni, e quindi un successo. Se la bandierina era gialla, significava che i valori erano da tenere sotto controllo. Ma se compariva una o addirittura due bandierine rosse (il che automaticamente faceva anche suonare un lungo beep! Atroce insulto alla privacy) significava semplicemente che una di loro non aveva seguìto adeguatamente la dieta.
Quella settimana la squadra si era comportata bene: c’era una sfilza di bandierine verdi e solo una solitaria bandierina gialla. Paolo commentò in modo positivo e gratificante: “Brave davvero! Continuate così e in gara ‘sta volta faremo vedere i sorci verdi a tutte!”. Le ragazze erano contente, l’allenatore aggiunse: ”Darò solo un’occhiata a questa gialla, di cui comunque non mi preoccuperei: allora, vediamo i dati delle ultime settimane…” e riprese in mano il cellulare.
Così, senza destare sospetti nelle ragazze, soprattutto in Carla, sempre così dubbiosa, riaprì WhatsApp e lesse il messaggio di Federica. Carla continuò a fare gli esercizi, mentre ridacchiava con Ilary bisbigliando: “secondo me la bilancia non funziona, ieri sera me so’ magnata due porzioni di lasagne…” e ripensando ai trucchi messi a punto per imbrogliare il computer (che Paolo, vecchia volpe-allenatore per anni di ragazzine spesso in equilibrio tra anoressia, bulimia e sovrappeso, conosceva benissimo, ma che volentieri fingeva di ignorare).
Paolo iniziò a leggere con attenzione il messaggio di Federica, cercando di mantenere stampato sulla faccia il sorriso beffardo di chi sta cercando di scoprire i peccati di gola delle sue vittime.
Invece i suoi occhi scorrevano con ansia le poche righe scritte da Federica: “Paolo, oggi non vengo all’allenamento, e penso che per un po’ mi sarà difficile. Come ti avevo accennato, il medico ha trovato un linfonodo ingrandito, confermato dalle TAC ed eco di oggi. Ti prego non dire nulla alle ragazze, assolutamente! Tra 4 giorni abbiamo la gara finale, non voglio turbarle. Magari si risolve tutto in breve tempo e tornerò ad allenarmi. So che devo spiegare alle ragazze perché non sarò a questi allenamenti e alla gara, ma ci penso io. Per dettagli leggi l’e-mail”.
Il nodo in gola e l’ansia gli bloccavano il respiro, anche se il viso continuava a mostrarsi ironico e sorridente.
Con gesti febbrili aprì la posta elettronica sullo smartphone, lesse rapidamente l’e-mail di Federica. Molto simile al WhatsApp, in allegato c’era il referto del radiologo, su cui trovò quella frase terribile, che per tutte le ragazze della sua squadra di canottaggio era peggiore che per chiunque altro in tutto il centro polisportivo: sospetta recidiva di cancro.
Chiuse rapidamente il file, controllando di aver spento il collegamento. Carla era esperta di informatica, avrebbe potuto scorrere gli ultimi messaggi aperti, perciò disabilitò le password automatiche. Carla continuò a scherzare con Ilary, poi prese il suo cellulare nella borsa per controllare se Federica le avesse risposto. Niente: nessuna visualizzazione. L’ultimo accesso era della sera precedente. Conoscendo Federica, la cosa era preoccupante, ma decise di restare tranquilla. Lanciò ancora uno sguardo a Paolo, sorridente e tranquillo.
Sì, c’era qualcosa che non andava, ma magari si stava solo preoccupando per niente. In fondo, lo sapeva bene: Fede, il loro capitano, era una tosta.
Paolo iniziò a sorseggiare il suo caffè, guardando le ragazze in allenamento, ancora 20 minuti con i vogatori e poi avrebbero terminato. Restare lì fingendo di non sapere, sorridendo, era una tortura indicibile. Avrebbe voluto precipitarsi al telefono, chiamare Federica, rassicurarla, consolarla. Fede era una combattente, una vera “capitana coraggiosa”, come lui la definiva quando con i suoi remi attaccava l’acqua come una tigre, spronando sempre le sue compagne, instancabile.
Era la prima delle pazienti del reparto di oncologia mammaria che Paolo aveva conosciuto, la prima di una serie di circa 20 pazienti. Insieme a Ugo, il primario e suo amico d’infanzia, avevano deciso di intraprendere quell’avventura: portare un gruppo di quelle ”ragazze” al campionato mondiale di canottaggio per pazienti post-chirurgia oncologica.
Una gara e uno sport in cui non è importante vincere, ma riuscire a partecipare, anno dopo anno.
E Federica ce l’aveva fatta, tirando e trascinando le altre sue amiche e compagne di avventura, tutte come lei portatrici di cicatrici, chi più piccole, chi più grandi: esiti fisici e psicologici di chirurgie, chemio, radioterapie. Tutte sopravvissute alla prima battaglia, tutte terrorizzate dal terribile spettro di veder comparire una recidiva.
Fortunatamente la ricerca scientifica aveva dato nuove speranze: nuovi farmaci e possibilità di diagnosi precoce, ma soprattutto, un nuovo protocollo terapeutico che, sottoponendo le pazienti post-chirurgia a una riabilitazione basata soprattutto sullo sport, aveva dimostrato che ciò poteva migliorare significativamente la qualità e l’aspettativa di vita.
Paolo ne aveva parlato a Federica che subito aveva accettato, con quella voglia di vivere e di combattere che la rese, sin dall’inizio, capitano e portabandiera della squadra. L’allenamento di quel pomeriggio finì così tra risate, promesse e spergiuri di rispettare la dieta: le ragazze si salutarono dandosi appuntamento a giovedì, ultimo allenamento prima della gara di sabato.
Appena sola, Carla ritelefonò a Fede, lasciando anche messaggi in segreteria. Paolo invece trovò un breve messaggio vocale di Federica con le stesse informazioni che già conosceva, nulla di più. Provò anche a chiamare la sorella di Federica: “non è raggiungibile”. Anche lei.
Infine si decise e chiamò Ugo, l’unico che avrebbe potuto dargli qualche notizia. La segretaria del primario si aspettava la telefonata, con poche parole confermò quanto già sapeva: Federica era stata lì in visita pochi minuti prima. Paolo non ebbe la forza e il coraggio di chiedere dettagli.
“Come faccio a sentirla o a parlarle?” si chiedeva. Oltre all’ansia e al dolore per una cara amica con recidiva di carcinoma mammario, ora aveva anche l’ingrato compito di non comunicare alle ragazze della squadra qualcosa che da amiche e compagne di barca e di avventura avrebbero voluto e dovuto sapere.
Soprattutto per poter dare forza e sostegno a Fede in quel momento. Ma la sua “capitana coraggiosa” era stata chiarissima: “Non dire nulla!”, avrebbe pensato lei a comunicare tutto alle amiche e compagne. E nel messaggio vocale aveva aggiunto: “…e per la finale, tranquillo, ho trovato come fare”.
“È proprio vero” pensò “le donne hanno molta più forza e coraggio di noi uomini. In tutto: nel modo di affrontare la vita, i figli, le discriminazioni sul lavoro, lo sport, e anche nella malattia!”. Però giovedì era lui, Paolo, che avrebbe dovuto incontrare la squadra, rispondere a domande, e soprattutto simulare. “Oddio no! come farò?” si chiese.
Sarebbe bastata una domanda o anche solo uno sguardo da una delle sue ragazze, e lui sarebbe crollato. Inutile sperare di riuscire a resistere: Carla poi di fatto sembrava che sapesse già tutto. Paolo era angosciato di non farcela a rispettare l’accordo con Federica, lei che per anni era riuscita ad infondere voglia di reagire e di vivere in tutte le sue compagne di squadra.
Ora lui rischiava di vanificare quel lungo e tenace sforzo nel motivarle di Federica che, grazie al suo approccio ottimistico, aveva coinvolto negli allenamenti perfino Ilary, un’ex-paziente di 48 anni, che ora era tra le più assidue canottiere e vice-capitano.
Ugo aveva confidato a Paolo che, al momento di iniziare gli allenamenti, i protocolli e le evidenze prevedevano per il caso clinico di Ilary un’aspettativa di circa 6 mesi. E invece Ilary ormai da quasi 24 mesi si allenava assiduamente con loro. Scherzava, rideva, si impegnava: aveva anche fatto un trasloco e cambiato fidanzato. Tutto merito di Fede: sia il primario che Paolo ne erano pienamente consapevoli.
Ricordava bene le parole di Ugo: “Paolo, per Ilary io posso fare poco ormai. Federica invece, con il suo approccio alla vita e alla malattia, può darle la chance di vivere mesi, anni o tutta la vita in modo sereno o addirittura felice. Adesso il vero ‘primario’ è Federica”.
“Come faccio a dirlo alle ragazze?” continuava a chiedersi Paolo la sera di mercoledì. Andò a letto agitato, ma senza prendere sonno. Continuava a girarsi nel letto come un pollo allo spiedo, cercando una frase, un incipit, ma già immaginava la paura, il terrore negli occhi delle sue ragazze: tutte veterane, ma anche tutte così delicate. Si alzò la mattina distrutto: allo specchio incrociò lo sguardo di un uomo invecchiato di 10 anni.
“La notte porta consiglio” aveva sperato, ma si era invece svegliato ancor più angosciato e con la sensazione di qualcosa che non riusciva a capire. Doveva assolutamente parlare con Federica. Paolo lesse e rilesse più volte i messaggi ricevuti e ne lasciò più di uno in segreteria, chiedendo istruzioni: alle 17:00 avrebbe dovuto dire qualcosa alle ragazze, che ormai sospettavano, come dimostrato dalle numerose telefonate (a cui si era ben guardato di rispondere) provenienti da Ilary, Carla e le altre.
Alle 16:10 vide che Fede era collegata su WhatsApp, ma solo per il tempo di spedirgli un breve messaggio: “Oggi non dire nulla: vi ho mandato Simona, una mia amica, che racconterà la situazione. È lei il supporto alla squadra per la finale: vedrai, è una veramente tosta”.
Con tristezza Paolo rifletté, tra sé, che una “più tosta” di Federica era impossibile trovarla. Uscì e prese l’autobus per andare all’allenamento al lago, e alle ragazze che chiedevano ansiose notizie del loro Capitano rispose: “Tra un po’ vi darò dettagli, ora allenatevi”, ma con lo sguardo cercava l’aiuto che Fede aveva inviato in supporto alla squadra.
Alle 17:40 comparve una ragazza, non molto alta, abito largo, che si presentò: “Mi chiamo Simona e vorrei parlare con Paolo e le ragazze della squadra”. Paolo la guardò con attenzione. Se l’aspettava diversa, notò che aveva un bel sorriso: chiamò a raccolta la squadra e presentò a tutte l’amica di Federica.
Simona parlò per alcuni minuti, raccontando quel poco che sapeva, ma le domande negli occhi disperati di tutte erano tante: sulla prognosi, la possibile terapia, l’aspettativa. Incredule, confuse, in lacrime. Ilary chiese: “Scusa Simona, Fede ti ha detto tra quanto tempo pensa di tornare?”.
“Federica si aspettava questa domanda perciò mi ha detto di rispondervi solo con due parole: sei mesi” rispose Simona.
Le ragazze si interrogavano con gli occhi, tutte consapevoli di cosa significasse la parola “recidiva”. Negli sguardi di tutte, soprattutto di Ilary, la domanda che nessuno riusciva a formulare: cosa intendeva Federica con quelle due parole?
“Ma io sono qui per darvi una mano per La Finale. Fede è stata molto chiara: ha detto che possiamo vincere! Non bisogna abbattersi, mai!” rispose Simona notando quegli sguardi sgomenti.
Paolo le si avvicinò, poi a voce bassa: “…Simona, scusami, non so se hai afferrato la situazione. Questa è una squadra un po’ “particolare”, forse Fede non ti ha raccontato… La gara per noi, alla fine, non è così importante. E d’altra parte tu non potresti neanche gareggiare: le atlete devono essere tutte post-chirurgia. Scusami, pensavo che Fede ti avesse spiegato…”.
Simona lo guardò, di nuovo quel sorriso. Rispose: “Ho capito bene la situazione” poi rivolta alle altre: “So quale è la vostra gara. Anche io, come voi, ho combattuto la mia battaglia in oncologia conclusa con chirurgia e seguita da cicli di chemio. Per questo vi posso capire, e ora sono qui per darvi forza. Fede mi ha mandato proprio per questo, perché anche io sto iniziando la mia seconda avventura, diversa dalla sua, che però mi impedisce di scendere in canoa con voi”.
Le ragazze e Paolo fissarono Simona, seduta in mezzo a loro: era la più giovane di tutte, per molte di loro poteva essere una figlia o una nipote.
Fu solo allora che Simona si accorse della differenza di età tra lei e le altre, e all’improvviso capì perché Federica avesse insistito tanto: non era lì solo per aiutare la squadra.
Concluse: “Sono uscita circa un anno fa dalla chemio. Oggi però, con i nuovi protocolli di conservazione degli ovociti, sono incinta e sto portando avanti una gravidanza: è questa la mia nuova avventura. Perciò, che ne dite, ce la giochiamo questa Finale?”.
Calò un tale silenzio che si poteva ascoltare il pensiero di una farfalla sull’altra sponda del lago.
Enza, la più anziana, si avvicinò a Simona: dall’alto della sua esperienza di essere stata, prima del tumore, due volte mamma e quattro volte nonna, appoggiò delicatamente la mano sui capelli di Simona.
Fu l’unica che riuscì a parlare, a nome di tutte: “Tra quanti mesi avremo il parto?”.
La risposta di Simona, accompagnata da quel sorriso gentile e forte, fu semplicemente: “Sei mesi”.
Dedicato a tutte le donne, forze motrici della nostra vita.
© Francesco Facchiano
Testo riprodotto per gentile concessione dell’editore edit-plan. È possibile acquistare il libro [Qui]
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