Scuola, non è la tecnologia che manca:
aggiungiamo cultura, lavori manuali e creativi
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Scuola, non è la tecnologia che manca
Tra le poche nuove misure della nostra, ormai sfasciata, scuola pubblica, si ritorna a fare “orientamento” nelle ultime classi delle superiori.
Gli orientatori aiuteranno gli studenti a capire com’è oggi il mondo del lavoro e verso quali professioni o università possono orientarsi. Compito ingrato perché – ahimè – gli stessi orientatori si troveranno disorientati.
Si tratta di una pratica che è stata presente per la verità anche in anni passati, ma che non ha inciso sulla qualità della scuola. Noi del CdS (Centro Ricerche documentazione e Studi) lo abbiamo fatto professionalmente negli anni ’80 e ’90 (anche con una guida promossa dalla Provincia alla “Scelta dopo la terza media”), in quanto è soprattutto dopo la 3^ media che c’è un primo grande bivio: scegliere un Liceo e proseguire all’Università o scegliere Istituti Tecnici-Professionali e, subito dopo, il lavoro. Svolgendo questo lavoro anche all’Università con le imprese e per i laureandi, abbiamo però capito (con il Percorso di Inserimento Lavorativo) molte cose che allora non sapevamo, e che ancora oggi la maggioranza delle persone non sa.
La prima cosa che abbiamo scoperto è che la maggior parte delle imprese è più interessata ad una buona formazione di base che ad una specialistica. Se deve scegliere, per esempio, tra un giovane laureato triennale e uno (meno giovane) magistrale, preferisce il primo perché la formazione dell’ “ultimo miglio” la fa l’impresa stessa. Una seconda scoperta è che le conoscenze umanistiche non sono così disprezzate come si crede, perché oggi lavorando in équipe e dovendo risolvere continui problemi e innovare, spesso le imprese preferiscono un laureato con una buona istruzione di base, vocato alla collaborazione, piuttosto che un super specialista abituato a lavorare da solo.
Una terza scoperta è che solo un terzo dei laureati (ingegneri inclusi, medici esclusi) vuole fare la professione per cui si è laureato. Quasi 2/3 infatti preferiscono (almeno nei primi anni) “navigare” nel mercato del lavoro e fare esperienze anche apparentemente distanti dalla propria laurea. Questi dati clamorosi sono confermati anche dalle indagini Istat sulle scelte dei laureati: ci sono esempi illustri, come Marchionne (ad Fiat e poi ad Chrysler FCA) che era laureato in filosofia, o molti dirigenti di aziende informatiche che non sono laureati (Steve Jobs) o lo sono, ma in materie umanistiche.
Un’altra constatazione: le aziende usano spesso i talenti di un laureato per innovare, offrendo una mansione (nuova anche per l’azienda) a cui non avevano mai pensato. Cercano per esempio un ingegnere e assumono una laureata in scienze delle comunicazioni perché conosceva bene l’inglese, sapeva coordinare benissimo il gruppo e ha dato all’imprenditore l’idea di una mansione a cui non aveva mai pensato. Ma questo può avvenire solo se c’è un rapporto diretto tra chi assume e chi si offre, non intermediato dai Servizi per l’Impiego, che è una delle ragioni del grande mismatch esistente.
Dall’insieme di queste scoperte emerge l’importanza di una formazione meno specialistica di quanto si dica sui media mainstream, di quanto dicano gli stessi rappresentanti delle associazioni (a differenza degli imprenditori), di quanto sia importante ancora oggi una formazione “organica” basata anche sulle materie umanistiche, di quanto sia importante la formazione di un pensiero critico, di capacità concettuali ma anche sociali (queste ultime a scuola non si apprendono).
Infine, emerge quanto siano rilevanti, proprio in una società sempre più digitale e in lavori che implicano un “ingaggio cognitivo”, le materie manuali e artistiche che aiutano gli studenti a non diventare semplici operai del digitale, ma collaboratori con capacità di risolvere problemi e innovare nel lavoro: ciò in una società dove gli algoritmi (che si basano su calcoli binari 0 e 1) possono soffocare la creatività e condurre alla omologazione e dipendenza tipica della catena di montaggio, seppure in forme nuove.
Non è quindi un caso che in Finlandia abbiano introdotto al liceo classico la falegnameria come materia di base. La falegnameria è un’attività manuale che, come tale, sviluppa il fare, la sperimentazione (e non solo lo stare seduti su un banco ad ascoltare e pensare). In una società digitale e altamente tecnologizzata, esiste il rischio di rimanere sul divano a guardare sullo smartphone come sono belle le immagini di una giornata di sole, mentre fuori c’è proprio un bel sole. Emerge anche il rischio di giovani sempre meno “attivi” (sul lavoro, nella società, nel volontariato, nelle relazioni, nella partecipazione) e la crescita di una massa amorfa e supina alle logiche del potere. Ne ha parlato di recente Papa Bergoglio, citando un grande teologo poco conosciuto come Romano Guardini (Lettere dal lago di Como, La tecnica e l’uomo, scritte tra il 1923 e 1926), che ci avvertiva già 100 anni fa dei disastri della rapida modernizzazione.
Hanno fatto quindi bene al Liceo classico Albertelli di Roma genitori e insegnanti a rifiutare i 300mila euro del Pnrr per modernizzare la scuola 4.0. Il progetto promosso dal dirigente prevedeva di formare esperti del web (video making, produttori di musica digitale, Manager Digital Curator, Social Media Manager, Social Media Editor e altre figure simili). A parte l’abuso dell’inglese che fa tanto Italietta “provincia dell’impero”, docenti e consiglio vogliono invece un potenziamento dei laboratori di chimica, informatica, e la digitalizzazione dell’antica biblioteca. La scuola è già ampiamente dotata di tecnologie (41 smart tv, 7 proiettori, 49 pc notebook, 41 pc desktop,…) ma il dirigente voleva ancor più “modernizzare”. Docenti e genitori contestano la formazione di “operai acritici del digitale”, disarticolando il gruppo-classe e disinvestendo sulla preparazione necessaria per comprendere la complessità del mondo. Finalmente viene alla luce l’idea che non è vero che una più spinta digitalizzazione favorisce di per sè la conoscenza. Diversamente non si capirebbe perché, da 20 anni, la capacità di apprendimento dei nostri studenti diminuisce.
Una scuola di questo tipo rischia di formare giovani (cittadini e lavoratori) che hanno sempre meno strumenti e capacità critiche di trovare soluzioni nel lavoro e/o di innovare. L’Istruzione (Instruction Way) si basa sul principio che a scuola ad una domanda corrisponde solo una risposta giusta, mentre nella via di apprendimento della Sperimentazione (Discovery Way, tipica del lavoro e della vita) ad una domanda corrispondono molte soluzioni possibili. Una scuola che si basa quindi anche sulla via della Sperimentazione attraverso le materie manuali e artistiche, forma anche cittadini e lavoratori più consapevoli.
E, in tal senso, tornano attuali le parole di don Milani quando diceva che “la scuola non serve a produrre una nuova classe dirigente ma una massa cosciente”: se don Milani me lo permette, aggiungerei anche una nuova classe dirigente più cosciente.
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Andrea Gandini
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