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Satnam Singh e la Spoon River dei braccianti

 

Antonello Mangano ha scritto un libro (La Spoon River dei braccianti, ed. Meltemi) in cui spiega dettagliatamente ciò che avviene da decenni nei campi italiani, dove si muore per le condizioni di lavoro e per l’omissione di soccorso dei datori di lavoro che non vogliono far conoscere quelle condizioni di lavoro.

La vicenda di Satnam Singh non è che l’ultima di una serie molto nutrita. Ioan Puscasu, per esempio, rumeno, viveva a trenta chilometri da Torino ed è morto in una serra incandescente, dove lavorava in nero senza limiti di orario e per pochi soldi. Quando i padroni hanno visto il cadavere, lo hanno spogliato, lavato e rivestito per evitare sanzioni. Ma è una cosa che è già avvenuta ad altre decine di braccianti, uomini e donne, stranieri ma anche qualche italiano e italiana, accomunati da una morte atroce per sfruttamento da lavoro agricolo: chi bruciato vivo nei ghetti, chi ricacciato nell’emarginazione dal rifiuto della richiesta di documenti, chi vittima del razzismo istituzionale e chi ammazzato dove prevale ancora una mentalità mafiosa. Stessa sorte è quella di Anton Petrica, anche lui rumeno, lavorava nelle campagne di Giugliano, provincia di Napoli: i datori di lavoro lo hanno abbandonato vicino a casa boccheggiante dopo un “malore”. Quando la proprietaria dell’abitazione se ne è accorta e ha chiamato i soccorsi era troppo tardi: è morto in ospedale nel 2019. Ma ci sono anche casi di italiani come quello di Paola Clemente, morta nel 2015 e che almeno portò all’approvazione delle legge contro lo sfruttamento e il caporalato.

Da allora sono passati 10 anni ma poco o nulla si è fatto. Le storie che ha raccolto Antonello Mangano rivelano in filigrana la società italiana: il razzismo diffuso, la logica di sfruttamento di imprenditori che si sentono di poter fare quello che vogliono e i molti interessi che bloccano quel cambiamento che sarebbe doveroso per una società che si riempie la bocca nel dire di essere civile.

Il governo promette la solita “stretta” contro il caporalato, anche se in questo caso Singh è morto perché c’era un imprenditore che teneva i lavoratori in condizioni illegali e non ha chiamato i soccorsi per non venire scoperto, in quanto non voleva che diventasse evidente il “sistema” che da tempo funziona nelle campagne: ti assumo in nero, sei ricattabile e farai tutto quello che ti dico, anche perché con la legge Bossi-Fini se perdi il lavoro perdi anche il permesso di soggiorno. Oppure lavori in regola finchè non ottieni la disoccupazione agricola e poi continuerai a lavorare in nero percependo la disoccupazione dall’Inps.

Il governo ha detto di voler rilanciare la «Rete del lavoro agricolo di qualità» pensata per certificare le imprese “etiche”. Una regola che esiste dal 2015 con 7mila imprese iscritte su 75mila (meno del 10%) e che non serve a nulla, anche perché sarebbe come se ci fosse l’albo degli “automobilisti di qualità”. Se c’è la legge va rispettata: punto e a capo. Invece in agricoltura si ragiona come se l’illegalità fosse la norma.

La prima cosa da fare (e non solo in agricoltura) è introdurre il salario minimo, per evitare che si possa pagare 3-4 euro all’ora. E poi più controlli. Un modo efficace che riduce la necessità di ispettori è quello basato sull’indice di congruità, che incrocia la quantità di prodotto di un’azienda con i contributi pagati ai lavoratori. Nell’azienda di Lovato che fatturava oltre un milione di euro c’era solo un dipendente (il figlio). A Latina ci sono 40 imprenditori accusati di usare il sistema di farli lavorare per i giorni per maturare la disoccupazione agricola, licenziarli e poi farli continuare a lavorare in nero pagati dall’Inps. Così si fa anche per la Cassa Integrazione. Si parla di Intelligenza Artificiale ma chissà come mai in alcuni casi non si sa usare neppure l’informatica.

Il problema vero è che manca la volontà politica. Nessuno ha interesse a risolvere la situazione che contribuisce a tenere basso il costo del lavoro. In generale per evitare lo sfruttamento è fondamentale che i lavoratori, stranieri o italiani, non siano ricattabili. E invece lo sono. Per i migranti in Italia è difficile ottenere regolari permessi di soggiorno e questo crea enormi bacini di manodopera marginalizzata, sfruttabile. Se lavori in nero come fai a denunciare il datore di lavoro che ti fa lavorare in condizioni illegali? Rilasciare documenti per tutti i migranti presenti sul territorio è il primo passo per invertire la rotta. Inoltre la legge Bossi-Fini prevede che chi perde un contratto di lavoro, perde anche il permesso di soggiorno. Anche questo rende dipendenti dai “padroni”.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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