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Ferrara film corto festival

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Ritorno a scuola, più incubi che sogni

 

Lo psicologo americano Jonathan Haidt ha scritto un libro di grande successo, “La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli” (ed. Rizzoli), in cui conferma le fosche preoccupazioni che già altri autori avevano anticipato (Manfred Spitzer, Demenza digitale, ed. Corbaccio 2012, Connessi e isolati, 2018), sugli allarmanti effetti dell’iperconnessione: riduzione drastica del tempo dedicato al gioco, calo a picco della capacità di concentrarsi, peggioramento del sonno, sviluppo di una dipendenza simile a quella da slot machine, alcol o droghe. Una disconnessione dalla realtà che li rende molto più soli, meno capaci di osservare, di fare (e farsi) domande, di parlare di fronte a un compagno/a o un adulto (le interrogazioni sono un disastro), ma anche di scrivere perché implica sapersi soffermare a pensare (cosa che col cellulare non si fa più).

Oltre alla catastrofe all’insegna del “w il digitale”, c’è poi un contesto sociale che oggi ci viene rimproverato dai giovani. Lockdown e mascherine hanno limitato per un tempo straordinariamente lungo la libertà di muoversi, incontrarsi, riconoscersi e oggi vediamo gli effetti drammatici di quella scelta. Non solo una perdita di apprendimento significativa, ma danni rilevanti in termini di riduzione di anni di vita. Una recente ricerca dell’Università di Washington, pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), una delle riviste scientifiche più note a livello internazionale, ha “fotografato” il cervello dei ragazzi/e (9-17 anni) e fatto emergere come le misure restrittive abbiano provocato un’accelerazione dell’invecchiamento cerebrale di circa 4,2 anni nelle ragazze e di 1,2 anni nei maschi. Risultati visibili nello spessore della corteccia cerebrale, lo strato di tessuto esterno che si assottiglia con l’avanzare dell’età o in caso di forti stress. “In nessun caso della storia recente una quota così ampia di popolazione è stata tenuta in uno stato di libertà limitata come nel 2020” dice Liliana Dell’Osso, presidente della Società Italiana di Psichiatria. Un trauma di massa che si poteva evitare secondo Sara Gandini, bio-statistica e direttrice Ieo di Milano, che aveva presentato a suo tempo al nostro Governo studi che mostravano come non ci fossero evidenze scientifiche sugli effetti positivi della chiusura delle scuole, come aveva ammesso lo stesso Brusaferro, coordinatore allora del Cts, al ministro Speranza. Solo gli adolescenti svedesi si sono salvati da questa prolungata limitazione delle libertà. Non se ne parla perché, avendo ottenuto poi la Svezia, la minore mortalità in eccesso in tutta Europa dal 2021 al 2024, si dovrebbe ammettere che quelle scelte furono sbagliate, in particolare, per i nostri adolescenti.

C’è poi il contesto di guerre continue, per gli europei anche vicino a casa, e un orizzonte in cui non si intravvedono quei possibili progressi sociali e quei valori umani che animavano le generazioni precedenti e che sono stati anche alla base dello sviluppo eccezionale nei primi 30 anni del dopoguerra, all’insegna di più uguaglianza e più welfare. Più che un mondo multiculturale, più fraterno, più ugualitario, con maggiore welfare le parole che si sentono nel nostro ricco Occidente, sono quelle di perdita di competitività, perdita di produttività, lotta per non perdere il dominio sul mondo, mentre prosegue l’impoverimento sia economico che di valori e il declino delle nostre comunità. Senza considerare i rischi di un conflitto nucleare sempre più vicino per evidenti interessi legati al Dio quattrino.

In questo contesto la scuola potrebbe essere l’agenzia culturale fondamentale che supporta i nostri giovani. Invece naviga indifferente come un Titanic verso un gigantesco iceberg. Il precedente ministro Bianchi aveva lanciato le parole d’ordine di Costituzione, sostenibilità ambientale, cittadinanza digitale, inclusività, scuola affettiva. “Temi più in sintonia con lo spirito del tempo -scrive Carlo Verdelli su Il Corriere della Sera del 10.9.2024- ma rimasti sulla carta”. Il nuovo ministro Valditara ha tolto (giustamente) i cellulari a scuola fino alle medie inferiori (come altri Governi, Gran Bretagna in testa), chiede di tornare a scrivere sul diario, a fare i compiti a casa, idee giuste ma troppo piccole che non sono in grado di cambiare l’impianto di una scuola sempre più afflitta da procedure formali e che vede gli studenti “incatenati” al banco per oltre 30 ore alla settimana col cellulare sotto il banco in attesa di sms o di consultarlo appena possibile. Per non dire di quelle moltissime classi alle superiori che hanno metà studenti (8-10-12 su 20-25) indisponibili a seguire le lezioni ex cathedra, da cui un abbassamento pauroso dell’apprendimento per tutta la classe, essendo impegnato il docente a tenere un minimo di “ordine pubblico” più che a insegnare.

Docenti che, senza risorse aggiuntive, scappano (chi può) dalle scuole più periferiche e turbolente in quanto impotenti di fronte ad un fenomeno di “scarsa disponibilità a seguire le lezioni” che dovrebbe essere al centro del confronto pubblico, anziché relegato ai margini.

Io insegno Economia e Scultura in un liceo di scienze umane (ad indirizzo Steiner) di Trento. I nostri allievi sono di fatto “selezionati” in quanto chi viene apprezza la pedagogia steineriana che si alimenta di una enorme quantità di apprendimenti da Sperimentazione con laboratori vari (forestazione, dove si sta per una settimana nel bosco a lavorare coi forestali-, pittura, scultura, modellaggio, battitura del rame, cesteria, tessitura, falegnameria e i numerosi viaggi d’arte in Italia), che integrano le materie da Istruzione (lettere, scienze umane, storia, geografia, astronomia, inglese, tedesco, matematica, fisica, economia), svolte partendo dal vissuto degli adolescenti. Nonostante ciò e pur avendo classi piccole (in media 10-18 studenti) anche noi abbiamo spesso 2-3 ragazzi (spesso maschi) per classe che faticano a “stare sul banco” tante ore, nonostante ci siano lezioni molto partecipate (capovolte, a coppia, etc.). Ecco perché quest’anno faremo una sperimentazione in cui sarà offerto agli studenti meno “tagliati” a “scaldare la sedia” un percorso che li vedrà impegnati per 2-4 ore alla settimana in attività manuali e artistiche (al posto delle ore in aula). I primi risultati sono incoraggianti: gli studenti che svolgono tali lavori manuali sono molto motivati e chi rimane in classe è meno “disturbato” e le lezioni sono più fruttuose. Per fare questo occorrono risorse aggiuntive (sia economiche che di persone competenti). E mi chiedo: “come fanno quelle scuole dove in classe ci sono 25 studenti di cui la metà non vuole studiare?” Questo è il grande problema della scuola italiana. Non si vuole vedere ciò che sta accadendo perché sarebbero necessarie più risorse (soldi e docenti), come ha fatto la Finlandia che ha introdotto la falegnameria al liceo, perché lavorando anche con le mani gli studenti accrescono le loro capacità non solo manuali, ma di connessione neuro-cerebrale e di autostima nel creare. Avete idea di quanto costa avere un’aula aggiuntiva dedicata alla falegnameria tra banchi, attrezzatura per 20 studenti e relativo esperto? Ecco perché non se ne parla, nessuno vuole vedere il Titanic che va verso l’iceberg, né si vogliono tirare fuori i soldi che servono. Per le armi si trovano, ma non per le scuole. La maggioranza poi dei genitori anziché chiedere una scuola diversa, chiede solo che il proprio figlio/a non sia bocciato. E infatti non si boccia quasi più nessuno. Così chi è di famiglia ricca userà le proprie relazioni per “piazzare” al lavoro il proprio figlio/a, gli altri si arrangeranno. Un salto indietro alle condizioni della prima metà del Novecento, quando solo pochi studiavano. La scuola di massa infatti, se non è qualificata non consente di premiare i “meritevoli”, al di là della famiglia di origine, com’è stato per noi anziani nella seconda metà del secolo scorso.

 

Photo cover: Officine Meccaniche Becherini, falegnameria interna. Wikimedia Commons.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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