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RAFAH: la no man’s land del fronte sud

Al di qua e al di là del Fronte Sud, come viene chiamato a Tel Aviv, o del Confine con l’Egitto , come viene chiamata a Gaza, la spirale di morte e distruzione che si sprigiona dal microcosmo di Rafah è da ultimo girone dell’inferno.

Il muro di Berlino consisteva in una frontiera tra due stati che divideva in due parti la città.

E’ stato costruito a partire dal 1961 come risultato della Seconda Guerra Mondiale, prima come barriera di filo spinato che si ergeva tra strade e palazzi, poi come doppio muro di cemento che ha interrotto strade e diviso palazzi.

Il muro di Rafah consiste in una doppia frontiera tra tre stati che divide in tre parti la città.

E’ il muro di Berlino al quadrato.

E’ stato costruito a partire dal 1982, come risultato della vittoria israeliana della Guerra dei Sei Giorni e divide i Territori dell’Autonomia Nazionale Palestinese della Striscia di Gaza dall’Egitto con un corridoio appartenente a Israele.

Le foto storiche più significative del muro di Berlino impresse nella memoria collettiva sono quelle che raffigurano l’inizio, cioè la costruzione, le fughe di soldati disertori, le famiglie divise, le attività di sorveglianza  armata  dei vopos, corpi speciali di guardie di frontiera, le vittime dei tentativi di fuga e sono quelle che raffigurano la fine, cioè la sua distruzione avvenuta nel 1989.

Le foto storiche più significative del doppio muro di Rafah sono quelle scattate di nascosto dalle pattuglie e lontano dalle torrette blindate, tra gli spiragli e nei punti più elevati e ritraggono i componenti di famiglie smembrate che tentano di comunicare ad alta voce tra le tre parti della loro stessa città, sotto il tiro di vopos pronti a sparare senza scrupoli, senza preavviso e senza doverne motivarne la necessità a nessuno.

Gaza Strip, Rafah Wall 2001 photo Franco Ferioli

Ancor più significative sono divenute le immagini attuali, che presentano l’unica apertura nel doppio muro di Rafah – chiamato Valico o Frontiera o Check Point Rafah – come via di uscita dall’ultimo girone dell’inferno della Striscia di Gaza per 1,5 milioni di civili in fuga dalla morte e dalla distruzione delle proprie abitazioni, costretti ad ammassarsi nelle aree antistanti. Se e quando avverrà, l’espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza da parte dell’I.D.F. Esercito di Difesa Israeliano, non potrà che avvenire attraverso questo imbuto della morte presentandolo come un corridoio umanitario.

Se Gaza può ragionevolmente essere considerata la città “madre di tutte le ingiustizie” patite dai profughi di guerra palestinesi, Rafah, Piccola Berlino del Mondo Arabo, tagliata in tre da un muro dietro il quale sventolano prima le bandiere israeliane poi, dopo poche decine di metri, quelle egiziane, ne è figlia legittima e primogenita.

Prima che ogni sua infrastruttura civile venisse completamente rasa al suolo, in ordine di apparizione a Rafah si incontrava prima un muro di cemento, cancelli e reticolati percorsi da scariche elettriche, poi uno slargo asfaltato sorvegliato a vista da soldati israeliani in assetto di guerra, poi un altro insieme di barriere insuperabili… e ancora Rafah, dall’altra parte, quella egiziana.

Gaza Strip, Rafah Wall 2001 Al Qarya as Suwaydiya photo Franco Ferioli

Rafah era un’unica città, il muro l’ha divisa in tre, i militari israeliani hanno prima segnato il confine con filo spinato, poi hanno aggiunto blocchi di cemento fino creare un vero e proprio corridoio tenuto costantemente sotto sorveglianza e sotto tiro d’arma da fuoco, la Philadelphi Route, o Corridoio Philadelphia, che inizia a ovest nella zona di el-Barahma e termina dentro alle acque del Mare Mediterraneo.

Israele è un Paese in guerra fin dalla sua nascita ed è interamente recintato: in meno di vent’anni ha investito a questo scopo circa 6 miliardi di shekel, un miliardo e mezzo di euro.  Il confine settentrionale, quello della Linea Blu, chiuso e controllato dal contingente militare internazionale UNIFIL di stanza in Libano, ha 80 chilometri di barriere; altri 97 si trovano nelle Alture del Golan lungo il confine con la Siria; 34 sono nel Negev per chiudere parte dei 300 km di confine con la Giordania.
La separazione fisica più conosciuta è in Cisgiordania ed è ciclopica: oltre 700 chilometri di muri che separano in due parti anche Gerusalemme Est da Gerusalemme Ovest.

Da nord a sud l’intera Striscia di Gaza è chiusa da un muro militare di 60 km e qui, sulla linea di confine meridionale, in questi quattordici chilometri di confine egiziano, quando si riesce ad isolare un singolo aspetto del muro, ci si accorge che è in relazione con un altro ancor più letale per chiunque tenti di addentrarsi in una distesa di macerie o osi attraversare una spaventosa no man’s land.

Gaza Strip, Rafah Wall 2001Tel as Sultan photo Franco Ferioli

Per tragica ironia della sorte il nome Rafah, può significare ‘luogo piacevole’.

Secoli or sono lo era davvero: la Rph degli antichi egizi, “Rafihu” degli Assiri, “Ῥαφία, Rhaphia” dei Greci, “Raphia” dei Romani, רפיח “Rafiaḥ” degli ebrei, “Rafh” del califfato arabo, era il passaggio obbligato di carovane che hanno mantenuto millenari traffici commerciali tra Asia e Africa attraverso comode piste sabbiose che da Gaza si snodavano lungo la fascia costiera e attraversavano piccole oasi lussureggianti, ricche di sorgenti di acqua dolce zampillanti a ridosso del mare.

La Bibbia narra che Maria, Giuseppe e Gesù bambino, primi profughi della cristianità, riuscirono a fuggire dalla strage degli innocenti ordinata da re Erode il Grande percorrendo questa Via Maris e raggiungendo Rafah.

La fuga in Egitto, uno dei temi biblici del Nuovo Testamento più ricorrenti nelle opere pittoriche della storia dell’arte religiosa come salvifico episodio della natività, sta attualmente assurgendo ad emblema della mortalità inflitta contro nuovi innocenti da parte di nuovi tiranni.

Il Vangelo secondo Matteo, i testi apocrifi del Nuovo Testamento e la tradizione della Chiesa Copta riportano storie miracolose avvenute a Rafah: sogni premonitori, alberi che si inchinano, fiere del deserto che si ammansiscono, idoli che crollano. Per centinaia di migliaia di profughi palestinesi nessuna speranza di miracoli, nessuna via di scampo, nessun imbocco verso l’uscita di sicurezza, nessun gradino per le scale di emergenza. Di fronte ai loro occhi e al loro destino si presenta solo una discesa a precipizio nel baratro di un inferno in terra, sbarrato da una porta chiusa in un triplo muro davanti ai resti di una città cancellata dalla faccia della terra.

Quando vi giunse nel 1863, l’esploratore francese Victor Guérin notò la presenza dei resti di un antico un monumento composto da due grandi colonne di granito che veniva chiamata Bab el Medinet,La Porta della Città”.

Litografia di Ernst von Hesse-Warteg 1881

La leggenda narra che anche sulle sponde dello Stretto di Gibilterra vennero erette due colonne, sormontate da una statua rivolta a est che recava nella mano destra una chiave, mentre nella sinistra teneva una tavoletta che recava l’iscrizione non plus ultra, “non più oltre”. Se con questa frase Ercole intendeva definire il limite del mondo civilizzato, sottolineando il pericolo per i mortali di spingersi oltre, nella Rafah di oggi le sue due colonne sono scomparse: ad apparire è il limite estremo raggiunto dalle atrocità di un genocidio.

Gaza Strip, Rafah Wall 2001 photo Franco Ferioli

La sua storia moderna è un’escalation di criminalità iniziata immediatamente dopo la guerra del 1948 quando vennero istituiti i primi campi profughi per i rifugiati di guerra della Nakba: le tendopoli, come Brasil Camp o Canada Camp appena oltre il confine nel Sinai, così chiamate dai nomi degli stati di provenienza delle forze internazionali dei caschi blu dell’ONU, o come Hamas Camp, vennero immediatamente chiuse e circondate da muri.

Rafah Hamas Refugees Camp 1996 photo Franco Ferioli

Nella crisi di Suez del 1956 che coinvolse Israele, Gran Bretagna, Francia ed Egitto, 111 persone, tra cui 103 rifugiati, nel campo profughi di Rafah furono uccise dall’esercito israeliano durante un massacro di cui le Nazioni Unite non sono mai state in grado di chiarirne le circostanze.

Nel settembre 1996, durante i cosiddetti ‘incidenti del tunnel’, le mitragliatrici degli elicotteri d’attacco AH-64 Apaches dell’aviazione israeliana hanno aperto il fuoco sulla popolazione civile che protestava scagliando pietre. Ogni proiettile era lungo nove centimetri. Il più vecchio dei ventisei ragazzi uccisi aveva ventidue anni.

Nel marzo 2003, durante i terribili mesi della seconda Intifada palestinese, con l’esercito israeliano impegnato nella demolizione di centinaia di abitazioni e lo sfollamento di migliaia di persone iniziate nel 1971 sotto il comando del generale Ariel Sharon per imporre il controllo sulla “zona cuscinetto” lungo il confine a ridosso del muro, la ventitreenne cittadina statunitense Rachel Corrie, osservatrice e attivista dell’organizzazione non violenta International Solidarity Movement, è morta schiacciata da un bulldozer militare nel corso un’azione di opposizione pacifica alla demolizione dell’abitazione in cui risiedeva la famiglia del medico Samir Masri.

Poche settimane dopo, l’11 aprile 2003, durante un attacco dell’esercito israeliano a Rafah, lo sparo un cecchino ha colpito alla testa Tom Hurndall, attivista britannico dell’I.S.M. mentre stava cercando di mettere in salvo un bambino in fuga tra i proiettili. Dopo nove mesi di coma, morirà all’età di 21 anni. Sempre a Rafah, il 2 maggio del 2003, James Miller, un cameraman e documentarista inglese, viene colpito a morte da un proiettile.

Quando nel settembre 2005, Israele ritirò le colonie dalla Striscia di Gaza, Rafah rimase divisa in tre parti e nel 2009 iniziarono i lavori per costruire una nuova barriera sotterranea alla profondità di 25 – 30 metri, con un muro d’acciaio a prova di bomba, per impedire lo scavo e i traffici dei tunnel.

Dopo che la notizia dell’approvazione del progetto venne pubblicata dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, si venne a conoscenza che il progetto sarebbe costato circa 2,2 miliardi di shekel circa 500 milioni di euro- e che per scavarlo lungo i 14 km di frontiera tra l’Egitto e la Striscia di Gaza da Tel al Sultan a Sarsuriya. sarebbe stata adottata una tecnica innovativa con una ragnatela di condutture che dal Mare Mediterraneo avrebbe portato l’acqua necessaria per allagare la fascia di territorio prima di procedere agli scavi.

La Rafah palestinese giace su una superficie di 64 km quadrati dove prima del 7 ottobre 2024 vivevano circa 300mila persone. Con l’esplosione del conflitto tra Israele e Hamas e la fuga dei civili dal nord di Gaza, ha visto la propria popolazione crescere fino a 1,5 milioni.

Prima del 7 ottobre chi provava a transitare attraverso questa frontiera, se era palestinese, doveva richiedere un visto speciale e attendere mesi per conoscere la risposta delle autorità militari israeliane; nei rarissimi giorni di apertura e negli ancor più rari casi di risultati positivi, ogni controllo doganale individuale durava dalle otto alle dieci ore.

Oggi per riuscire ad uscire vivi da Gaza attraverso il muro di Rafah l’unica via da percorrere è tentare di aggirare il tunnel delle speculazioni gestite dalle autorità militari israeliane e dalle organizzazioni mafiose egiziane che stanno lucrando nel mercato nero del rilascio dei visti, dei permessi di espatrio e delle procedure di riconoscimento delle identità dei fuggitivi, dei richiedenti asilo, degli ammalati e degli aventi diritto al ricongiungimento famigliare all’estero.

I fotogrammi che correlano l’articolo sono originali, tratti da “OUT of RAFAH” , reportage a supporto della campagna internazionale di raccolta fondi “Help Ikhlas’ Family Survive in Gaza” https://gofund.me/67036c48

Cover: Gaza Strip Rafah Wall 2001 photo: Franco Ferioli

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi su Periscopio di Franco Ferioli, clicca sul nome dell’autore, oppure visita la sua rubrica Controcorrente

 

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Ai lettori di Ferraraitalia va subito detto che mi chiamo, mi chiamano e rispondo in vari modi selezionabili o interscambiabili a piacimento o per necessità: Franco Ferioli Mirandola. In virtù ad una vecchia pratica anagrafica in uso negli anni Sessanta, ho altri due nomi in più e in forza ad una usanza della mia terra ho in più anche un nomignolo e un soprannome. Ma tranquilli: anche in questi casi sono sempre io con qualche io in più: Enk Frenki Franco Paolo Duilio Ferioli Mirandola. Ecco fatto, mi sono presentato. Ciao a tutti, questo sono io, quindi quanti io ci sono in me? tanti quanti i mondi dell’autore che trova spazio in questo spazio? Se nelle ultime tre righe dovessi descrivere come mi sento a essere quello che sono quando vivo, viaggio, scrivo o leggo…direi così, sempre senza smettere di esagerare: “Io sono questo eterno assente da sé stesso che procede sempre accanto al suo proprio cammino…e che reclama il diritto all’orgogliosa esaltazione di sé stesso”.

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