Come ogni sera entrò a passo lento nel lussuoso caffè – ristorante appoggiandosi al bastone e si diresse al tavolo in fondo a destra che occupava sempre, da dove poteva osservare gran parte della splendida sala. Erano le nove e mezza, l’ora in cui il centro di Porto si animava. Coppie, gruppi di turisti e di giovani entravano nel locale per cenare, salutati cerimoniosamente da camerieri in giacca bianca.
Il vecchio gettò sul divano coperto di velluto rosso il bastone e si sedette pesantemente senza togliersi il cappotto di cammello un po’ spiegazzato. Il cameriere sapeva cosa avrebbe ordinato e portò sul tavolo un caldo verde e una bottiglia d’acqua, non prima di aver mostrato che non era fredda.
Il vecchio lo liquidò con un gesto nervoso e secco e cominciò lentamente a sorbire la zuppa di cavolo, gettando ogni tanto occhiate oblique in giro. Controllare. Questo aveva fatto per molte volte nella sua vita: controllare per poi arrestare e far torturare.
Era stato un dirigente potente e temuto del regime di Salazar prima a Lisbona, poi a Porto, con alti incarichi nella Pide, la polizia politica, poi nella Dgs, la Direção Geral de Segurança, fino all’ultimo, sino alla fuga di Marcelo Caetano, dopo la rivoluzione dei garofani del 25 aprile 1974.
Guardava, infastidito dal brusio e dal chiacchiericcio che proveniva da un gruppo di turisti seduti ad un tavolo vicino. Allontanò sgarbatamente il giovane cameriere che gli chiedeva se avesse bisogno d’altro.
Non aveva fretta di tornare nella sua casa di Porto, dove abitava dopo quindici anni di prigionia a Caxias, nelle stesse celle dove aveva fatto rinchiudere tanti oppositori politici.
Viveva solo, tra i simulacri di un passato potere. Era riuscito a conservare un po’ di denaro e con questo campava. Sua moglie e i suoi due figli lo avevano abbandonato poco prima della rivoluzione, stanchi di lui e impauriti, emigrando negli Stati Uniti, nel Rhode Island, dove avevano trovato accoglienza nella comunità portoghese. Con loro non aveva più contatti.
Terminò la cena continuando a gettare occhiate in tralice a destra e sinistra. Quando venivo qui molti anni fa, ricordò, ero riverito, tutti si facevano in quattro per me. Avevano paura, mi temevano. Guarda adesso, pensò ancora, sembra quasi che mi sopportino. Non mi cacciano via perché ho aiutato i proprietari a salvare questa baracca.
Senza di me la Pide avrebbe fatto chiudere il locale e i padroni sarebbero finiti in galera, a Caxias o a Peniche. Non ho fatto nulla perché ho avuto il mio tornaconto. Pagavano bene la mia protezione. Poi i militari traditori, i comunisti con la divisa hanno mandato all’aria l’Estado Novo, le nostre colonie e tutto il resto. Una rovina.
Uscì a fatica e si diresse verso il quartiere vicino, dove abitava in un vecchio palazzo. Entrò nell’androne e dietro di lui il massiccio portone si chiuse lentamente. Non prima di impedirgli di udire che nella casa di fronte, un vecchio edificio popolare, dall’ultimo piano uscivano le note di Grândola vila morena, la canzone operaia di José Afonso che da Radio Renascença diede il via alla rivoluzione.
La conosceva bene, quella canzone proibita dal regime di Salazar, ma sentirla ancora una volta gli procurò un accesso di rabbia impotente. I sovversivi sono sempre tra noi, si disse, ed io non posso più farli tacere. Non posso fare più nulla.
Poi il buio lo inghiottì.
(Da “Tre sguardi in uno” ed. Pendragon, Bologna, 2015)
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Franco Stefani
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