Quella cosa chiamata città /
PENSIERI SPARSI SUL FUTURO URBANO
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Quella cosa chiamata città. PENSIERI SPARSI SUL FUTURO URBANO
Da anni in tanti lavoriamo su città circolari, attive, resilienti, lottiamo contro il consumo di suolo, sul rapporto tra città e salute, sulla mobilità dolce, sull’abitare sociale, abbiamo inoltre riflettuto sugli effetti del Covid 19 nell’organizzazione delle città e nelle pratiche dell’abitare.
Nelle università si lavora da anni su questi temi, con sempre meno soldi e sempre più burocrazia, necessaria per testare la qualità del lavoro di ricercatori esasperati e disillusi. Abbiamo i cassetti pieni di progetti, ricerche e studi che prefigurano un paese e un mondo diverso. Si propongono strategie e visioni si elaborano progetti di dettaglio, tutto nel totale disinteresse della politica e della governance, come si dice oggi.
Poi arriva l’archistar di turno et voilà i problemi dell’abitare nell’era del Corona Virus sono risolti. A quel tempo, ogni giorno sui grandi quotidiani neoliberisti si intrecciavano articoli e interviste dove il gioco era a chi la sparava più grossa.
Ci vuole il “Ministero alla Dispersione” (è arrivato il nuovo Kropoktin?) perché nelle città accentrate non si può più vivere. Siamo pieni di bellissimi di borghi vuoti dobbiamo ritornare a viverci, certo, bell’idea, ma perché si sono svuotati? L’intuizione viene colta dall’allora Ministro alla Cultura che destina denari PNRR per un borgo a regione; dunque, un borgo ricco circondato da borghi abbandonati, ma il problema non era nelle strategie per le aree interne?
Dobbiamo rilanciare l’uso della bicicletta: che intuizione! E le piste ciclabili chi le fa e, quando le fa, come le fa? Visto che siamo sul tema mobilità, perché non mettiamo anche qualche tram in città e trasporto metropolitano tra le città per renderle un sistema metropolitano come nella Randstad?
Qualche giorno dopo un’altra archistar se ne esce con l’intuizione: diamo importanza all’aria e al verde. Ottima idea, ma non l’avevano già proposta i fondatori dell’Urbanistica a metà dell’Ottocento, Olmsted a Boston e a Amsterdam nel 1927 non si avvia la costruzione del grande bosco urbano?
Poi arriva quello che vuole piantare alberi dappertutto, a prescindere da dove siamo, perché noi umani dobbiamo imparare dal mondo vegetale che non è competitivo, sarà vero? Però bisogna anche migliorare le abitazioni creando gli opportuni spazi per lo smartworking, ma lavorare a casa richiede la prossimità e quindi a 15 minuti devo avere commerci e servizi.
Ottima idea, peccato che le abitazioni costino 10.000 € a mq., questo non le rende selettive? E nei quartieri sociali che facciamo, dove spesso le case sono devastate dalle muffe, e non ci sono, oltre ai mezzi pubblici (e quindi devo portare mia madre a fare le spesa in automobile nell’ipermercato), i soldi per “rigenerarle”?
La pandemia e la crisi climatica hanno accentuato la proliferazione di costruttori di “eco-tecno visioni”, ovviamente sempre più green, che, se realizzate, porterebbero qualcuno di noi, i più benestanti se non ricchi, a vivere in spazi svuotati dalla percezione dei problemi del mondo e dalle differenze che in esso vi si incontrano.
Nei nuovi quartieri di Milano, Parigi, Londra, New York, o nelle nuove città di Dubai, Neom Line, Akon, New Cairo gli abitanti abiterebbero in spazi e appartamenti con boschi nei balconi, mentre altri, a Busan, in bolle iper-condizionate, mangiando verdure e frutti idroponici e muovendosi in spazi di relazione tutti identici, iperconessi, in un tutto così smart da toglierti il piacere di decidere qualcosa della tua quotidianità, perché già prestabilito dall’intelligenza artificiale.
Un tempo l’attacco a terra degli edifici definiva il livello di complessità e interazione urbana e sociale dell’architettura (nelle case delle nonne le porte erano sempre aperte). Oggi gli edifici della città neoliberista trasformano in bisogno l’autosegregazione e la separazione, ricorrendo alle rigide recinzioni, alle pareti a specchio riflettenti, che nascondono una guardiola, o la presenza di un poliziotto privato che ti intima di andartene se ti affacci allo specchio della parete, o se lungo la strada (pubblica) fai una foto che riprende anche un edificio dove abita l’influencer del momento.
Beato lo spazio della mescolanza, di cui parla Guy Debord, perché è uno spazio non rappresentabile.
Mentre rifletto sul futuro urbano che ci aspetta leggo il giornale. L’intervistatore del quotidiano La Repubblica inizia dicendo che nel mondo ci sono 3 miliardi e mezzo di “rifugiati” quindi dobbiamo ripensare le nostre abitazioni. Buon inizio penso, da giornalismo d’inchiesta.
L’archistar Massimiliano Fuksas che, essendo un nomade che vive tra Roma, la campagna senese e Parigi, se ne intende di “rifugiati”, risponde che dobbiamo prevedere spazi per l’isolamento, così come ora si prevedono i garage e le soffitte; e un intero piano comune per lo smart working, un po’ come negli USA, dove ci sono gli spazi per il fitness (chissà a quali Stati Uniti pensa? Non certo quelli dove vivono i White o i Black Trash).
Leggo, esterrefatto per tanta banalità e presunzione, e mi aspetto che il noto giornalista Francesco Merlo gli risponda: “…ma architetto lo sa che più di un miliardo di persone nel mondo vive in slum e favelas e sono destinati a raddoppiare? Lo sa, che nel densissimo quartiere di pescatori di Saint Louis du Sénégal, in una famiglia si fanno i turni per dormire: chi dorme al mattino, chi al pomeriggio, chi alla notte, perché non c’è spazio per tutti: dove mettiamo lo spazio per lo smart working?”
Questa domanda però non arriva, ma arrivano altre ‘perle’ di Boeri, di Cucinella che vegetalizza la facciata di San Petronio per contrastare le isole di calore, mentre Mancuso vuole riempire Piazza Maggiore con grandi vasi e dentro grandi alberi. E infine Renzo Piano, che afferma con tono sapiente che “l’opposto della città non è la campagna ma è il deserto”, evidentemente non conosce il deserto e le civiltà urbane che ha espresso, resilienti da secoli.
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Romeo Farinella
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