Quella cosa chiamata città /
ISTANBUL. UNA LINEA TRA CIELO E MARE
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Quella cosa chiamata città. ISTANBUL. UNA LINEA TRA CIELO E MARE
La linea dell’acqua e quella sinuosa delle colline, con i minareti che agganciano la città al cielo, definiscono la forma di Istanbul. Un carattere che Le Corbusier coglie mirabilmente disegnando il paesaggio urbano del Corno d’oro, visto dal Bosforo. La città viene sintetizzata in una linea lievemente movimentata che mostra una morfologia dolcemente collinare, ma che schizza verso l’alto quando incontra un minareto, come in un istogramma.
Le mura che delimitavano l’acqua, sono scomparse, ma gli schizzi dell’architetto svizzero fanno emergere la città come fosse un piano rialzato, quasi fosse su di un piedistallo. Si sa, il disegno e soprattutto lo schizzo, sono il frutto di una selezione: non tutto viene rappresentato. Lo sguardo è sempre intenzionale, si evidenziano punti particolari, situazioni, intrecci, conflitti sui quali si intende porre l’attenzione.
Per tale motivo si tratta di un esercizio (lo schizzo che legge, interpreta e misura un luogo) fondamentale per un architetto. Attraverso la matita, Le Corbusier ci dà delle informazioni sulla consistenza fisica della città, come quando descrive l’effetto “muro” delle case appiccicate sulla riva del mare o i vecchi palazzi bizantini, le cui finestre iniziano tra i 15 e i 18 metri d’altezza.
I luoghi immediatamente percepibili dal bacino d’acqua che unisce le tre parti della città sono certamente le moschee dello sfondo, la mole metallica del ponte di Galata, con la torre genovese che svetta a Galata, ma più di tutti il complesso del Topkapi, che chiude sul mare il triangolo del Corno d’Oro.
Il complesso vede uniti il palazzo del sultano, i giardini circostanti e la moschea di Solimano, costruita nella seconda metà del Cinquecento da Sinān, il più famoso architetto ottomano. Siamo nel Sultanahmet, una delle 57 mahalle (quartieri) che compongono la parte più antica della città, coincidente con il distretto di Fatih.
Un dedalo di strade compone il Sultanahmet e Kapalıçarşı, dove pulsa il bazar: un pezzo di città straordinario per la complessità dei suoi spazi, per il suo essere un recinto dentro la città, e per gli spazi di transizione che lo preannunciano.
In fondo un modello, come lo sono anche i sūq, per la nascita dei moderni luoghi del commercio delle nostre metropoli nell’Ottocento e nel primo Novecento. Penso ai passages parigini e alle loro fantasmagorie, descritti da Louis Aragon.
In realtà le trasformazioni nel distretto di Fatih sono state veramente radicali. Le famose case di legno di Istanbul sono quasi tutte bruciate, e i terremoti e le devastanti modernizzazioni hanno fatto il resto. Rimangono come al solito dei frammenti: una casa di legno, un palazzo neoclassico, le chiese bizantine, le fontane e i cimiteri che, con il loro verde e le caffetterie, sono i veri giardini della città.
È la medesima impressione che si ha percorrendo Atene o altre città greche come Patrasso o Salonicco, dove alcune preesistenze ti segnalano una storia ricca e complessa che non c’è più. Rimane intatto il fascino per queste città vissute in ogni loro spazio. Rimangono anche le descrizioni di viaggiatori come Pierre Loti o Edmondo de Amicis.
Impressionante è la dissolvenza delle luci che accompagnano il tramonto sul Corno d’Oro. Quattro cose ancora oggi mi colpiscono. Innanzitutto, l’illuminazione delle moschee, inquietanti appaiono anche le sagome buie delle basse colline, punteggiate qua e là dalle luci delle case e dei piccoli borghi.
Ricca di suggestioni è la successione dei colori del cielo durante il percorso dal tramonto alla notte. L’azzurro del cielo si trasforma gradualmente in un arancio prima chiaro, poi scuro e infine nel rosso che transita nel nero della notte, preceduto da un blu molto scuro.
Infine, è il riverbero sull’acqua delle luci della città, che rende teatrale questo luogo. Paesaggio meraviglioso, certo, ma attenzione si tratta in realtà di un campo di contraddizioni e conflitti composto di elementi dissonanti, di monumenti straordinari, anche per la loro posizione rispetto all’acqua e di trasformazioni radicali e brutali.
Andai la prima volta a Istanbul nel 1982 e in Turchia vigeva il coprifuoco stabilito dalla giunta militare che aveva preso il potere due anni prima. Di quel viaggio rimane un susseguirsi di immagini sedimentate nella mia memoria, che si scontrano con quello che oggi esiste e si vede, ma in fondo è questo conflitto percettivo che alimenta l’immaginario di un luogo.
Se Genova si vede dal mare, Istanbul ancora di più. Ne erano certamente consapevoli i parigini che sul finire dell’800 potevano ammirarla, in uno dei panoramas dei grands boulevards, osservando «la città [che] si amplia a paesaggio» (Walter Benjamin).
Un tempo a Galata si parlava francese e anche italiano, le vie erano ricche di edifici neoclassici alcuni con splendide viste sul lato occidentale del Corno d’oro, orientata sul tramonto. Una città europea, dove importanti famiglie aristocratiche e borghesi si rappresentavano attraverso l’architettura, come i Camondo (sefarditi spagnoli, poi «stambulioti» e infine parigini dopo un passaggio tra Austria, Trieste e Venezia), a cui si deve la famosa scalinata che lega strade di quote diverse, accostata a palazzi di impronta neorinascimentale.
Infine, un dedalo di stradine ripide, che ancora si inerpicano dalla quota del mare verso le parti più alte del quartiere ricordando i carrugi di Genova. Non tutto qui era però lindo e ordinato, anzi come in tutte le città di mare, le zone adiacenti alle aree portuali erano sovente dei luoghi di degrado.
Zürafa sokak era la via delle prostitute, dove si raccontava che centoventi prostitute servissero una media di cinquemila/settemila uomini al giorno in diciotto case. Siamo nella parte bassa di Galata, non molto lontano dal bordo del mare: una strada chiusa più che una casa chiusa. Gli accessi alla strada allora erano presidiati dalla polizia che faceva entrare solo uomini, la ricordo quasi come una via commerciale, con edifici in stile europeo e con “botteghe” che esponevano la merce.
Si trattava di donne giovani e vecchie, discinte e vistose, ogni tanto qualcuno entrava nel negozio o in un portone neoclassico, trattava il prezzo e, attraversando un pertugio, saliva con la donna scelta. Gran parte della folla però guardava, chi con curiosità, chi con disgusto, mentre chi non poteva permettersi questo momento di sfogo saltava da una bottega all’altra, come in preda ad una febbrile eccitazione.
Mi è ancora chiaro il ricordo di una giovane donna, una ragazza, che la memoria me la fa ricordare bellissima, accerchiata da abbruttiti che cercavano di toccarla, mentre una megera li allontanava. Ricordo il suo sguardo rivolto a noi giovani, evidentemente diversi dalla folla che si muoveva convulsamente lungo la strada. La sua espressione, per niente altera e sprezzante, sembrava cercare aiuto.
Cover: Istanbul. Pescatori sul Bosforo, 1982
Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono di Romeo Farinella
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Romeo Farinella
Commenti (1)
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Un pezzo davvero splendido. Unico effetto collaterale: aumento dell’inquietudine chatwiniana: “Che ci faccio qui?”. Istanbul? Cosa aspetto a far lo zaino?