Genova per me
Non ho vissuto gli anni ’50, essendo nato alla fine di quel decennio, ho vissuto quello dopo, ma ne ricordo solo la seconda parte. Era, per molte famiglie, un tempo di modernità ingenua, anche esasperata. La televisione, il frigorifero, la lavatrice, l’automobile cambiavano pratiche familiari che erano evolute lentamente, a piccoli passi.
Anche le case cambiavano. Nei loro interni molti vecchi mobili di legno, probabilmente fine Ottocento, venivano sostituiti dalla “formica”, i palché all’italiana e anche i pavimenti in cotto antico spesso lasciavano spazio al linoleum, alle piastrelle, alla moquette.
L’alluminio anodizzato stravolge ancora oggi l’immagine di molte strade. Carosello, quiz, serie romanzate e teatro televisivo riempivano le serate, mentre i film si andavano a vedere al cinema. Le coppie prodotto/attore scandivano con regolarità le pubblicità: Bramieri e il Moplen, Calindri e il Cinar, contro il logorio della vita moderna, il jazzista Franco Cerri era tutte le sere in ammollo. Molti a quel tempo si sono messi alla ricerca di Carmencita nei pueblo messicani, mentre il Montana diventa un luogo familiare: tra mandrie e cow boy.
E se il nostro mondo provinciale viene scosso da Blow Up o Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, Valerio Zurlini fa cantare Mina in luoghi improbabili con scenografie brutaliste o da minimal art, grazie alla generosità di Barilla. Molte piccole città per dimostrare di essere moderne costruiscono i loro grattacieli: Ferrara, Rimini, Cesenatico e altre, pur conservando i loro centri storici. Ma la vita per molti continua ad essere agra, ci rammenta Bianciardi.
Sicuramente per mio nonno che tutte le mattine alle 5 si alzava per andare da Genova Pegli a Genova Cornegliano, all’Italsider, con la sua schiscetta riempita di pasta fredda che mia nonna gli cucinava tutte le sere prima di andare a letto. La storia dei miei nonni materni racconta l’Italia novecentesca dei subalterni e dei migranti. Quella del nonno era immigrata dal Padovano nel Basso ferrarese, per prosciugare le valli tra Mezzogoro e Tresigallo, e poi, finita la stagione d’oro delle bonifiche meccaniche, via verso il triangolo industriale alla ricerca di fortuna.
Il palazzo dove abitavano è ancora l’ultimo di una strada ripida dalla quale scendendo verso il mare si entra in città mentre, continuando a salire, ci si inoltra nei boschi dietro la città. È un palazzo di abitazioni costruito negli anni del boom economico nelle colline a ovest di Genova, nella località di Pegli, che in quegli anni si sono trasformate da luogo naturale e rurale a periferia. Lo potremmo definire una speculazione, forse necessaria per dare casa ai tanti che arrivavano a Genova in cerca di lavoro da molte parti d’Italia.
Oltrepassando il viadotto dell’autostrada, il sentiero diviene sempre più naturale, stretto e ripido e ad un certo punto si arriva ad una fonte, dove gli abitanti del quartiere si riforniscono (si rifornivano?) di acqua.
Ho trascorso le estati della mia infanzia nell’appartamento dei miei nonni che lì erano emigrati dal Mezzogoro in cerca di lavoro. Ho trascorso molte giornate sul poggiolo del primo piano del palazzo che, essendo l’ultimo della strada, guardava il resto del quartiere dall’alto al basso.
Lì, ho scoperto la verticalità dello spazio, abituato come ero alla orizzontalità delle campagne della bassa ferrarese, ho scoperto, attraverso l’osservazione, la fatica del quotidiano: le signore che ogni mattina risalivano la strada, con le borse della spesa, mentre i mariti montavano la sera tornando dalle fabbriche del ponente o dal porto.
Tutta l’Italia più misera era rappresentata in quella strada. Lì probabilmente è nato il mio interesse per gli intrecci spaziali urbani che mi ha portato a diventare un architetto interessato alle forme e alle culture delle città.
Il Viale della Pineta (questo è il nome della strada) è una strada residenziale che, scendendo confluisce in via Vianson, che pur essendo residenziale ha (aveva?) un fronte articolato di negozi, con il forno della focaccia, la latteria, la drogheria, il negozio dei tessuti e dei bottoni, la bottega alimentare, il barbiere, il calzolaio e la parrucchiera.
Scendendo ancora le alternative diventano varie, girando in una direzione si arriva a Villa Doria, con il suo museo navale e il suo parco pubblico, proseguendo si arriva a Villa Pallavicini attraversando quartieri di eleganti palazzi borghesi.
Seguendo un’altra discesa si arriva sul lungomare all’altezza dell’Hotel Mediterranee. Un frammento di lungomare nato con grandi ambizioni, da Nizza o Sanremo, ma in seguito ridimensionate dalle zone industriali e portuali che a est, da Sestri Ponente arrivano alla Lanterna, e a ovest dall’espansione, allora in nuce, del porto di Voltri, mentre la pista dell’Aeroporto, costruita sul mare, ne delimita ancora l’orizzonte.
Era bello vedere dal tetto del palazzo dove abitavano gli zii gli aerei che decollavano o atterravano sul mare.
Genova sembrava non esistere, la vedevo attraverso i racconti in famiglia, sempre concentrati sulla topografia della perdizione, luoghi da cui un ragazzino di campagna doveva stare lontano, anche se un giovane zio, a volte di nascosto, mi caricava in auto e mi portava a vedere i luoghi del peccato che si chiamavano Sottoripa, via Pré, via del Campo, mentre la Raffaello e la Michelangelo era alternativamente alla fonda del porto vecchio, in attesa di partire per l’altro mondo.
Poi, finita l’estate, ripreso il treno che cambiava a Voghera e ritornato al mio paese, tutto ritornava spazialmente più semplice.
In copertina: Genova, Il lungomare di Pegli
Foto di Romeo Farinella
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Romeo Farinella
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