Presto di mattina. Voci d’avvento
«Sì, voci non più udite si risvegliano, squittii, versi d’uccelli a stormi, strida … alterni dentro il bosco che si cela».
Sì questo è l’Avvento: «Voci rare feriscono il silenzio/ eterno, ancora accese/ qui dove indugio, anima sulla riva del fiume inquieto ferma ad ascoltare… Il passante ravviva/ le croci di papaveri votivi/ alle svolte della strada» (M. Luzi, Tutte le poesie, 196; 127).
Ravvivare le croci dei papaveri votivi significa ridestare la memoria della promessa di una singolare natività, risvegliare il sogno dal suo sonno notturno, cercando nella realtà l’apparire di una cosa nuova: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43 19); una strada per coloro che abitano nelle tenebre e nell’ombra della luce, attendendo il suo venire, il sole di giustizia, la voce del Dio vivente.
Segui il fiume, la sua voce:
Il fiume sceso giù dal giogo
non ha tutte le voci
che oggi mi feriscono festose
e cupe in vetta a questo ponte aguzzo.
Il fiume allora ha una voce sola
o vitale o mortale. Chi l’ascolta
ha un cuore solo o greve o tempestoso.
«Tu che tieni stretto il filo
di refe nel labirinto
dove sei che si scinde in tante voci
la voce che mi guida» esclamo io
non si sa bene a chi,
compagno fedele o ombra
(ivi, 359).
Sì questo è l’Avvento, la voce che mi guida verso l’ignoto, ma sarà amico od ombra, mortale o vitale? È come voce di fiume, filo di labirinto tra tante dispersive e divisive voci: «è una voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”» (Mc 1,3). Avvento, voce anche di quelle salutari acque, in cui Giovanni battezzò l’Unigenito e uscendo dalle acque una voce dall’alto lo attestò come il Figlio amato (Mc 1, 11).
Sì, così ancora è l’Avvento,
una voce come l’inconfondibile “trepestio di piedi” dopo i piovaschi, eco della voce del diletto che viene, dice la Sulamita, l’Amata nel Cantico dei cantici. Sì, una voce come un trepestio traduce poeticamente Agostino Venanzio Reali; un rumore di passi può risuonare così come una voce cara, sospirata che emoziona. Dice infatti il Manzoni nei Promessi sposi che Lucia «imparò a distinguere dal rumore dei passi comuni il rumore di un passo aspettato con un misterioso timore».
Amata – Un trepestio: ritorna
l’innamorato mio, per balze
capriolando e clivi, trafelato
antilope o cerbiatto.
Amato – levati,
mia Bella amata e vieni
(Ct 2, 8)
Qôl è il termine ebraico per dire voce, suono, rumore, tuono. Il salmo 29 (28), probabilmente il più antico dell’intero salterio, canta la voce del Signore sulle acque tempestose, ma nonostante la tempesta la sua voce rimbomba al di sopra di essa e resta così un punto fermo di sicurezza e stabilità per il suo popolo. Per sette volte ricorre questa parola nel salmo, un numero che esprime totalità e pienezza: “la voce del Signore tuona sulle acque”, Egli sovrasta l’uragano e in lui c’è solo la pace. Per questo il salmista dice alla fine: «Il Signore benedica il suo popolo nella pace».
È voce che risveglia l’attenzione d’amore di chi pur dormendo vigila con il cuore: «io dormivo, e il mio cuore vegliava. La voce del mio amato, che bussa, voce che brama anche solo sentire l’eco dolce di quella dell’amata:
Levati
dunque, o graziosa, e vientene,
amor mio, colomba,
dalle crepe di roccia,
dalle forre dei gioghi il tuo viso
controluce risfolgori e dentro
mi si rifranga dolce
l’eco della tua voce.
(Ct 2,14)
Sì, così ancora e sempre è l’Avvento
la voce amica del Pastore grande delle pecore che il Dio della pace ha ricondotto dai morti (Eb 13,29), e Giovanni riporta nel suo vangelo le parole stesse di Gesù: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10, 27); e Luca menziona il grido del suo ultimo avvento, quello del passaggio da questa vita al Padre: «Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo, donò lo Spirito» (Lc 23, 46).
Le voci dell’Avvento sono nascoste tutte nell’inno liturgico del salmo 95 (94), l’invitatorio che la tradizione ha posto in apertura alla preghiera cristiana del salterio: “Venite ed ascoltate”. Non c’è avvento senza ascolto della parola, senza un andargli incontro, come ricorda il salmo 95 (94). È “un andare cantando con suoni e danze insieme andiamo”. Anche in questo salmo l’invito è ripetuto per sette volte, per tutti: “Venite”, così che “possiate oggi ascoltar la sua voce. I vostri cuori non siano di pietra”.
Frère Charles (1858-1916): fratello universale
L’Hoggar o Ahaggar è un massiccio montuoso in Nord Africa, svetta con i suoi 2800 metri nel cuore del deserto del Sahara, nel sud dell’Algeria. Il nome deriva dalla popolazione tuareg Kel Ahaggar che vi abita, e Tamanrasset, situata a 1400 metri ai piedi dell’Hoggar, è il centro più importante della società dei Tuareg algerini.
Proprio a Tamanrasset visse e compì felicemente la sua avventura spirituale e umana padre Charles de Foucauld. Con il martirio egli sigillò la sua vocazione sacerdotale di “fratello universale”. Dopo una vita in cerca di Dio e tre anni vissuti in Palestina a Nazaret, egli si sentì chiamato a vivere come un eremita tra le tribù nomadi dell’Africa occidentale, imitando la vita nascosta di Gesù che per trent’anni abitò tra la sua gente a Nazaret.
Così Charles de Jesus, povero tra i poveri, si era fatto piccolo fratello tra i piccoli di quella terra per rivelare il volto di un Dio che è amicizia e presenza di amore, nascosto nel pane eucaristico, sacramento di una ospitalità e fraternità universali.
Fu, infatti, prima in Palestina e poi nel deserto del Nord Africa, sia presso gli ebrei che presso i mussulmani, che egli scoprì, cosa per lui veramente nuova, il comandamento nascosto dell’accoglienza, il vangelo dell’ospitalità. Charles era un ufficiale inviato in Algeria, ma lasciò dopo tre anni l’esercito per intraprendere un rischioso viaggio di esplorazione scientifica in un territorio interdetto agli europei. Così se fino a quel momento il musulmano era “il nemico”, da allora cominciò a sentirlo come un “amico”.
Diventare del paese
Abitare, adorare, fraternizzare sono i tre verbi che hanno caratterizzato il suo carisma profetico, perfettamente attuale anche nella chiesa di oggi. Tanto che queste stesse parole che continuano a caratterizzare la vita delle comunità dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle di Charles de Foucauld sorte dopo la sua morte.
Charles de Jesus, un uomo che non ha mai smesso di nascere: al vangelo, ai poveri e all’eucaristia. E proprio quest’ultima teneva presso di sé come l’amico e confidente intimo, Gesù presente nascosto nel pane, lui l’ospite segreto per i suoi ospiti inattesi e nomadi di passaggio.
Egli non ha mai smesso di irradiare fraternità eucaristica attorno a sé e nel cuore del deserto, ed è apparso così ai miei occhi come icona, guida e voce dell’Avvento, di quel permanente avvento che è la fraternità universale. Accanto al suo corpo, ritrovato alcuni giorni dopo nel fosso in cui giaceva, c’era ancora il piccolo ostensorio con l’eucaristia rovesciati entrambi su quell’altare fatto di sabbia e di deserto: il sacramento del Cristo immolato faceva così una cosa sola con il piccolo fratello dei suoi fratelli più piccoli.
Nell’Algeria occidentale, a Béni Abbès, fondò un romitorio dove accolse i poveri e studiò la lingua Tuareg. Successivamente, nel 1911, costruì un eremo a 2.180 metri sull’altopiano dell’Assekrem (in lingua tamasheq “fine del mondo”) sito a 80 km da Tamanrasset. Proprio il primo dicembre è stato l’anniversario del suo martirio; canonizzato da papa Francesco, egli è ricordato nel martirologio della chiesa cattolica proprio all’inizio dell’Avvento.
«Voglio abituare tutti gli abitanti cristiani, musulmani, giudei ed idolatri a considerarmi come loro fratello, il fratello universale. (Essi) cominciano a chiamare la casa “la Fraternità” (khaua) e questo mi colma di dolcezza».
Dalle sue lettere del 1904-1905 si possono notare espressioni ricorrenti di come egli abbia intrapreso quest’opera di fraternizzazione in uno stile di vita gesuano: “fare conoscenza”, “creare legami”, “farsi vicino”, “farsi conoscere”. Egli scrive: «il mio tempo, che non è preso dal camminare o dal riposo, è occupato a preparare le vie cercando di stringere amicizia con i Tuareg e facendo i dizionari, le traduzioni indispensabili».
Egli ha desiderato entrare fino in fondo nella vita di questo popolo: «Abitare solo in questo paese è una cosa buona: posso vivere senza grandi cose e a poco a poco diventare del paese». Così, alla fine, imparerà a ricambiare anche il male ricevuto con il bene: «Sono in mezzo a queste genti che hanno ucciso il mio amico Morès, lo vendicherò rendendo bene per male». Troveranno scritto nel suo diario: «Vivi come se tu dovessi morire martire oggi». Molti custodiscono ancora e dicono la sua preghiera dell’abbandono: “Padre mi abbandono a Te”.
Voci dall’Hoggar
Il padre de Foucauld dedicò gli ultimi dodici anni della sua vita (1904-1916) allo studio della lingua e della cultura Tuareg. Suoi sono i quattro volumi del Dictionnaire Tuareg-François, una raccolta della loro letteratura poetica e la traduzione in Tuareg del vangelo: «È per me una grande consolazione che il loro primo libro siano i Vangeli».
Così, con sorpresa, ho trovato nella biblioteca del Cedoc SFR un libro del 1963 appartenente alla biblioteca di Luciano Chiappini, fondatore, negli anni del concilio, del Centro studi Charles de Foucauld il cui archivio e parte dei libri sono confluiti poi presso il Cedoc SFR. Il testo a cura di Angèle Maraval-Berthoin, Voci dall’Hoggar, ed. Nigrizia, Bologna ha avuto nuova edizione nel 2012.
Vi sono riportate sentenze e detti, le voci appunto, di Charles de Foucauld, di Musa Ag Amastàn, il grande capo di una confederazione di tribù Tuareg, e della poetessa e musicista Dassine Oult Yemma, detta la sultana d’Ahal, un luogo di riunioni diurne o notturne in cui gli uomini declamavano o cantavano versi e le donne suonavano un rudimentale violino monocorde detto “imzad”.
Dassine fu detta anche regina del deserto, perché messaggera e mediatrice di pace tra i diversi gruppi di Tuareg in lotta tra loro, e fu in uno di questi scontri che perse la vita Charles de Foucauld, che Dassine chiamava “il pensiero bianco dell’Hoggar”.
Imzàd: la voce stessa della luce per amare ogni cosa
Dal libro: E io. Dassine, dico:
Preferisci a tutte le voci, preferisci con me la
voce dell’imzàd, il violino che sa cantare tutto.
E non meravigliarti che abbia una corda sola.
Hai forse più di un cuore, tu,
per amare ogni cosa?
…
Ammiro mia madre che – prima fra tutte le
madri – dopo aver generato dei figli dalla sua carne,
volle generare anche un figlio del suo pensiero,
e fu l’imzàd.
L’imzàd, che resta ad un tempo la voce
Del suo Cuore e la voce della sua mente, per ammaliare
tutti quelli che l’ascoltano.
Mussa-ag-Amastàn diceva:
L’inganno finisce sempre per essere conosciuto;
perché se può accadere che gli uomini tacciano,
il cielo, l’acqua, il fuoco, la sabbia stessa
sanno assumere una voce per dire la verità.
…
Bisogna saper tacere come tace il silenzio,
per ascoltare la voce dello spazio.
Frère Charles diceva:
Sulla terra, è il silenzio che ha la voce
più bella per parlarci
…
Non ascoltare l’amico che ti viene a dir male
di un altro amico.
Resta sordo: eviterai così che la confidenza,
passando da un orecchio all’altro, prenda la voce
turbinosa del torrente
…
L’imzàd di Tin-Hinane, suonato ora da Dassine oult Yemma, è per l’Hoggàr quello che era per il popolo ebreo l’arpa di Davide: la voce stessa della luce.
Nel leggere un testo della Sultana dell’Hoggar mi sembra di comprendere che la voce diventa scrittura quando viene ospitata nel cuore e nella mano, sia quella che parte mano destra dell’onore e va verso il cuore, sia quella che, come nomade del deserto con gambe di armenti o croci segnavia o punti, – come stelle o come il sole che guidano nelle notti e durante il giorno – va dal cuore verso altri cuori, come nel cerchio della vita, verso un orizzonte di confini che creano sconfinatezza.
Nell’introduzione a Voci dall’Hoggar, (22-23) Angèle Maraval-Berthoin (1875-1961) ricorda che «il Padre Charles de Foucauld aveva saputo comprendere la nobiltà di carattere dei Tuareg. Egli apprezzava la forza e la poesia delle loro brevi sentenze e si sforzava di tradurre nella forma immaginifica del loro linguaggio la sapienza del Vangelo, per farsi capire meglio da loro. Ne conserviamo la testimonianza nelle sue trascrizioni su tre righe, una in caratteri tifinar (scrittura Tuareg, discendente dalle più antiche forme di alfabeto libico-berbero), l’altra in annotazioni fonetiche, la terza in traduzione francese».
E circa queste differenti forme di scrittura la Maraval-Berthoin riporta le parole stesse di Dassine, incontrata diverse volte nei suoi viaggi: «Tu scrivi ciò che vedi e che senti con piccole lettere fitte, fitte come formiche, che vanno dal tuo cuore alla tua destra d’onore».
Gli arabi, invece, hanno lettere che si sdraiano, si mettono in ginocchio e stanno dritte, simili a lance: è una scrittura che si arrotola e si dipana come il miraggio, sapiente come il tempo e fiera come la lotta.
E la loro scrittura parte dalla destra d’onore e va verso sinistra, perché tutto finisce lì, nel cuore.
La nostra scrittura, nell’Ahaggar, è scrittura di nomadi poiché tutta di aste, che sono le gambe dei nostri armenti. Gambe di uomini, gambe di mehari, di zebù, di gazzelle, di tutto ciò che percorre il deserto.
E poi le croci dicono se vai a destra o a sinistra, e i punti – vedi, ce ne sono tanti: sono le stelle per accompagnarci di notte, perché noi sahariani conosciamo solo la strada, quella che ha per guida, di volta in volta, il sole e poi le stelle.
E partiamo dal cuore e gli giriamo intorno in cerchi sempre più ampi, per chiudere gli altri cuori in un cerchio di vita come l’orizzonte intorno al tuo gregge e a te stesso» (ivi, 22-23).
Fino a quando Signore?
Sì, voci non più udite si risveglino, anche in questo lungo durare d’Avvento, anche un’eco solo di voce: “una voce che segni una sosta a queste divoranti attese” in cui opera disumanità, che inizi almeno un poco quel “dolce colloquio” che ha il nome della pace.
Anch’io, anch’io
che oda, o Amato, la voce!
Una voce …
a dirmi è finito
il tempo della potatura!
Mio crudele Amore, io so
quale vignaiolo severo tu sei
e con quale cura tu poti
le tue piccole viti…
Una voce
che dica: O colomba!
Sì, una colomba
che si annida
in anfratti e dirupi…
Una voce che segni
una sosta a queste
divoranti attese,
e fine ponga
alle aspre
incertezze:
e abbia inizio
almeno il dolce
colloquio.
(David Maria Turoldo, O sensi miei. Poesie 1948-1988, Rizzoli, Milano 19976).
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