Presto di mattina /
Verso la Pasqua
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Presto di mattina. Verso la Pasqua
Verso la Pasqua, verso la luce
Mattino, lucentezza oltremondana.
In noi uno risponde
presente! non si sa a quale chiama
dal cielo, dalla terra, dall’abisso
che li tiene,
pure riluttanti, insieme.
Frasi,
lo siamo di una preghiera arcana.
So da sempre che vieni
pure non ti prevedo
mai, m’arrivi, tu, nota,
di sorpresa – e che improvviso
festosamente si rinnova!
Già si aprono per loro
scenari noti
perduti e ritrovati,
il desiderio si rinnova,
la vita
apre tutte le sue porte ancora.
(Mario Luzi, Poesie ultime e ritrovate, Garzanti, ed. dig., Milano 2014, 182; 184; 303).
La porta stretta
La Quaresima è l’altra porta del Giubileo, la porta stretta, e tuttavia dentro e fuori ci fa dilatare alla speranza, perché porta scritto: “più in là!”.
Essere pellegrini di speranza non consiste forse in questo: «nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio» (Is 58,7-8; 10).
Una via lucis nel sottosuolo di ogni via crucis. Così ho pensato leggendo La Passione. Via Crucis al Colosseo (Garzanti, Milano 1999), il libretto poetico scritto da Mario Luzi (1914-2005) in occasione della Pasqua 1999.
Provocò un “contraccolpo” nel poeta, “un vero e proprio sgomento” la proposta di scrivere un testo sulla passione: «una prova ardua su un tema sublime».
Luzi da subito fu tentato di declinare l’invito fino a quando «l’immaginazione già in moto mi prefigurò un testo poematico di cui Gesù fosse l’unico agonista. In un ininterrotto monologo Gesù nella tribolazione della Via Crucis avrebbe confidato al Padre la sua angoscia e i suoi pensieri dibattuti tra il divino e l’umano, la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza» (ivi, 5).
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te
ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi, gli animali.
(ivi, 59)
Conoscerò la morte. La conoscerò umanamente,
da questa angusta porta mi affaccerò su lei
che tu, vita onnipresente,
non conosci se non per negazione.
Tre giorni durerà per me
l’esilio che per altri non ha fine
poi la vita mi richiamerà a sé
e avrà la vittoria. È previsto fin dal principio.
Quella pausa, Padre, m’impaura: è un luogo dove tu non sei
e io da solo senza di te pavento.
Che cosa mi aspetta, chi governa
il nulla, il non presente … il non essente?
o è un inganno della veduta umana
ciò che io impaurito ti confesso?
Devo io portare la vita dove la vita è assente
e portarla con la mia morte …
e questo è il prezzo, questo supplizio.
E così, Padre, io vanamente ti tormento.
Più che la morte è la via per arrivarvi,
la via crucis, che mi dà angoscia
perché è dolorosa e aspra nelle carni
e spezza il cuore di Maria, mia madre,
perché infame e odiosa
è la ressa di questi uomini e donne
aizzati contro me.
Mi prende e mi tormenta il dubbio
che il mio insegnamento sia fallito.
(ivi, 35)
Coro, Preghiera
Dal sepolcro la vita è deflagrata.
La morte ha perduto il duro agone.
Comincia un’era nuova:
l’uomo riconciliato nella nuova
alleanza sancita dal tuo sangue
ha dinanzi a sé la via.
Difficile tenersi in quel cammino.
La porta del tuo regno è stretta.
Ora sì, o Redentore, che abbiamo bisogno del tuo aiuto,
ora sì che invochiamo il tuo soccorso,
tu, guida e presidio, non ce lo negare.
L’offesa del mondo è stata immane.
Infinitamente più grande è stato il tuo amore.
Noi con amore ti chiediamo amore. Amen.
(ivi, 75)
Le Porte regali
Più felici di noi i cristiani dell’Ortodossia. Noi abbiamo una Porta santa una tantum e, simbolicamente, ogni anno la porta stretta della Quaresima. Loro invece ad ogni celebrazione della santa liturgia hanno di fronte le porte regali dell’iconostasi.
L’iconostasi, o posto delle immagini, è una parete che separa nelle chiese di rito orientale il luogo della celebrazione dall’aula dell’assemblea. Ha la funzione di delimitare lo spazio del mistero della fede. Nella parete si aprono tre porte: quella di mezzo ha due battenti, donde il nome, al plurale, di «porte sante», o «porte regali».
Essa è ricoperta da icone fiammeggianti di santi e di angeli con al centro un’icona detta deisis che significa supplica, intercessione raffigurante Cristo, Maria la madre e Giovanni il Battista il precursore. L’iconostasi rappresenta la chiesa in preghiera, è la «follia della carità che convoca a sé e intercede nella comunione dei santi attorno al Cristo risorto».
Scrive Paul Evdokimov: «La Déisis dà senso a tutta l’iconostasi. Sfavillio dei testimoni, l’iconostasi offre le loro mani supplicanti, la Chiesa prega per la Chiesa, la Theotokos /Madre di Dio porta il mondo nella sua preghiera e lo copre della sua protezione materna. Ciò che sembrava muro di separazione si rivela più profondamente anello di congiunzione: il Cristo totale costituito dai suoi santi.
Questo muro accoglie e amplifica la preghiera incessante del cuore: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di noi, peccatori, e coprici con la tua grazia». Esso subisce anche la violenza dei santi che si impadroniscono del Regno, e sotto questa spinta, al séguito di Cristo, la porta regale si spalanca sulla visione del cielo» (L’uomo icona di Cristo, ed. Ancora, Milano 1982, 90-91).
Dall’oscurità alla luce: l’arte dell’icona
Ikonostas, fu tradotto da Élémire Zolla nel 1977 per Adelphi. Egli cambiò l’originale Iconostasi con il titolo Le Porte regali. L’arte dell’icona. È questa l’opera postuma di Pavel Aleksandrovic Florenskij (1882-1937) martire russo, presbitero della chiesa ortodossa russa, professore universitario, matematico e fisico, poeta, teologo e mistico che conosceva i segreti dell’arte dell’icona. Ogni icona rappresenta la porta simbolica che fa accedere, secondo la teologia ortodossa, “alla luce senza tramonto” e fa dell’uomo il rispecchiarsi in lui dell’icona di Cristo.
«Da tutti questi doni brillanti e da una scienza prodigiosa emergeva una personalità indomita e sensibile ai problemi sociali. Rifiutò sempre di rinunciare alla sua fede e al suo sacerdozio, anzi insistette a portare la sua croce pettorale da sacerdote e a indossare la talare nelle funzioni ufficiali. Anche agli incontri accademici e scientifici si presentava sempre in abito talare.
Alla fine, era inevitabile che fosse colpito dalle purghe staliniste, naturalmente per “attività controrivoluzionaria”. Arrestato nel 1933, fu nuovamente deportato prima a Solovki, un’isola del Mare del Nord, e poi in Siberia. L’8 dicembre 1937, in un luogo rimasto sconosciuto presso Leningrado, all’età di 55 anni, venne fucilato» (L. Altissimo, Profilo bio-bibliografico di Pavel Aleksandrovic Florenskij in Studia Patavina 1/2005, 27).
Per Florenskij la realtà come cosmo ed esperienza umana è per sua struttura simbolica, possiede un dentro ed un fuori uniti pur restando distinti tra loro. Il simbolo tiene insieme, unisce due differenti aspetti del reale, il visibile e l’invisibile, l’interiorità e la sua espressività, un aspetto che passa e l’altro che perdura. Il simbolo rimanda oltre sé stesso e indica che c’è dell’altro “più in là”. Nella sua finitezza la realtà è simbolo dell’infinito immenso e impregnata in esso, e tuttavia esondante fuori e oltre.
Scrive Florenskij: il simbolo «è un’entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che però si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza… Il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme o, meglio, confluita insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest’ultimo» (L. Žák, Il simbolo come via teologica. Spunti di riflessione sul simbolismo di Pavel Florenskij, in Humanitas 4/2003, 602).
Talora lo intravedo
un me altro da me,
un me ben altro:
non ha nulla di mio
eppure ha il volto
d’un universo io
di cui son parte.
È là, mi aspetta
in piedi
appena dentro
una vietata soglia:
vorrebbe,
oh se vorrebbe, non può venirmi incontro
ma quando sono prossimo
tende verso di me le braccia, mormora [il mio nome]
(Mario Luzi, Poesie ultime e ritrovate, 233).
Florenskij vede in questo mondo il simbolo di un altro mondo, nel nostro sole un altro sole, nell’icona, nel volto visibile del Cristo, quello dell’invisibile Dio celato in essa: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9).
Nell’altrui volto quel sole caldo riafferra
ognuno e cerca
con lo sguardo perduto in cielo in terra
la pungente dolcezza del nostro principio.
(ivi, 472)
Leggendo Tolstoj e Čechov impariamo come le icone siano la trama del vissuto credente di un popolo, la porta della fede: «l’icona penetrava nelle isbe, nelle osterie, nelle sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie, accompagnava nei viaggi il mercante, standogli presso il cuore sotto il giubbotto, sotto forma di piccolo trittico, era portata in processione, era baciata con affetto, incensata in chiesa e in casa: era la prima ” persona” che si salutava entrando in una qualsiasi stanza.
Florenskij va più oltre: per lui l’icona, anche la singola icona, è qualche cosa di divino; l’oro che nell’icona non fa colore ma solo lume, è l’atmosfera di luce in cui fa vivere l’immagine» (Letture, 348/ 1978, 481-482).
«Dal tenebroso al luminoso, dall’oscurità alla luce»
Un itinerario verso la Pasqua: l’icona conduce dalla bellezza alla compassione, porta lo sguardo da fuori a dentro ciò che si guarda e da cui si viene visti diviene un luogo di compassione, di abbassamento ed innalzamento, di dolore e splendore insieme, di passione e risurrezione.
La bellezza dell’icona non è una bellezza incantatrice, non distrae dall’umano, si contrae facendo spazio in sé chiamando dentro; è bellezza che non consola gli occhi, ma il cuore accoglie il mondo e l’uomo pacificandoli attraverso lo spessore e i colori cangianti, stratificati della sua e nostra umanità e li imprime sul “legno”.
L’amore
Tutte le sofferenze traspaiono da un volto
solo e in quello è dolce la forza che ci spenge
e pur nell’aria educa il fiore della luna,
il vento profondo dove avviene la primavera.
Cade la giovinezza, la vita intera
s’aduna e giace sul cuore
come il mare sull’ultimo dolore
del navigante che l’ha amato
(Mario Luzi, Poesie ultime e ritrovate, 526).
Scrive Florenskij: «Il pittore d’icone procede dal tenebroso al luminoso, dall’oscurità alla luce». È questo un procedimento diverso dall’arte pittorica rinascimentale e dalla filosofia e cultura soggiacente che parte dalla luce e va verso l’ombra: «nella pittura occidentale l’oggetto è fine a se stesso e la luce fine a se stessa e il loro rapporto è accidentale: l’oggetto è soltanto illuminato dalla luce… nella pittura si rappresenta l’ombra; è evidente, specie nell’acquarello, dove i luoghi luminosi restano privi di colore, mentre si concentrano i colori sulle ombre.
Questo è fra l’altro inevitabile, perché l’artista procede dalla luce all’ombra, ovvero dall’illuminato al tenebroso. Ma tu dimentichi che c’è anche una filosofia inversa e perciò ci dev’essere un’arte corrispondente. Certo, se la pittura d’icone non ci fosse il faudrait l’inventer. Ma essa esiste e vecchia come l’umanità. Il pittore d’icone procede dal tenebroso al luminoso, dall’oscurità alla luce» (Pavel Florenskij, Le porte regali, 93; 164-165).
Dipingere con la luce
La caratteristica fondamentale, per Florenskij, nella pittura delle icone è la luce che attira a sé dall’oscurità e porta oltre, in Dio, “luce da luce”, manifestazione della luce. I pittori di icone sono detti “coloro che descrivono la vita”.
«L’icona si dipinge sulla luce e di qui, come mi sto sforzando di chiarire, emerge tutta l’ontologia della pittura d’icone. La luce, come vuole la migliore tradizione dell’icona, si dipinge con l’oro, cioè si manifesta appunto come luce, pura luce, non come colore.
Più precisamente, ogni rappresentazione emerge in un mare di dorata beatitudine, lavata dai flutti della luce divina. Nel suo grembo “viviamo e ci muoviamo ed esistiamo”, questo è lo spazio della realtà autentica. E perciò si capisce che sia normativa per l’icona la luce dorata: qualunque colore tirerebbe verso terra l’icona e attenuerebbe la visione che essa manifesta.
E se la grazia creatrice è il fondamento e principio di ogni creatura, si capisce che anche sull’icona, quando è stato astrattamente delineato o più precisamente definito lo schema, il processo di incarnazione incominci con la crisografia della luce. Con l’oro della grazia creatrice incomincia l’icona e con l’oro della grazia santificante, cioè con la sottolineatura aurea [razdelka], si conclude» (ivi, 155).
La luce.
La luce meglio le conviene.
Ha la sua rapidità
lo spirito
e lei ne è simbolo
e figura nella mente dei profeti.
Così avanza
nel cielo, così nella parola
di coloro che la lodano
da secoli.
(Mario Luzi, Poesie ultime e ritrovate, 260)
Una porta che nessuno può chiudere
«All’angelo della Chiesa di Filadelfia scrivi: Così parla il Santo, il Verace: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto tu abbia poca forza, pure hai osservato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome» (Ap. 3, 7-8).
L’icona è una porta aperta come il volto. Così, ho pensato, sono i vangeli delle domeniche di questa Quaresima, possono considerarsi porta e volto, le cui pagine sono come icone al vivo del volto di Colui che parla al cuore.
Volto, non è un inganno del ricordo,
non una scena di ritorno
questa dove appari
circonfuso di una gloria
di sole al suo meriggio
o d’altro
inspiegabile lucore.
È qui, è ora,
marzo, questo
marzo
con i suoi arboscelli in fiore,
le sue erbe, il suo manto
di radiosità e di vento.
Eppure può
l’odierno, l’imminente
nella sua luminosa epifania
essere accolto
col sentire di altri tempi.
Dov’è allora che tu sei, a che momento
scocchi, verità del cuore? L’attimo
non ti circoscrive, il tempo
non ti cattura, il tempo è solo umano
tu forse non lo sei.
(ivi, 261)
Aprire il vangelo allora, come del resto aprire ogni libro, è come incontrare qualcuno, il suo volto essere accolti ed abitare il suo mondo. Così pure girare una pagina di vangelo sarà come aprire una porta, una pagina un’altra pagina, è incamminarsi ancora con Gesù ed i suoi amici e la nostra gente per leggervi anche la nostra storia.
Seguendo la sequenza dei vangeli domenicali di Quaresima di quest’anno ci troveremo così, ogni volta di fronte, ad una differente porta, oltre la porta un nuovo sguardo del volto cangiante del Cristo. Scrive San Bernardo: «Avete poi notato quante volte, in questo carme d’amore, il Verbo abbia cambiato volto, e in quanti modi si sia degnato di trasformarsi per dimostrare quanto sia grande la sua dolcezza davanti alla sua amata» (Sermone XXXI, 7 sul Cantico dei Cantico).
Ia domenica: delle tentazioni, porta dello Spirito: conduce Gesù nella nostra umanità e nel dramma della storia. È la parola di Dio che vince le parole rovesciate, quelle false e ingannatrici, pensieri maligni, loghismoi li hanno chiamati i Padri del deserto, da qualunque parte essi provengano.
IIa domenica: della trasfigurazione, porta dell’ascolto della Parola, della preghiera che trasforma e trasfigura la vita (mentre pregava “il suo volto diventò altro” è l’espressione usata da Luca nel testo greco) a motivo del suo essere faccia a faccia con il Padre e porta della sequela di Gesù che introduce nel suo cammino verso Gerusalemme.
IIIa domenica: l’episodio della rappresaglia di Pilato, del crollo della torre di Siloe e la parabola del fico senza frutti è la porta dell’attesa paziente e dei frutti di conversione. “Con perseveranza” scrive Simone Weil è una parola tanto più bella di “con pazienza”! È la perseveranza dell’agricoltore che non teme il silenzio di Dio e quella del seme che resiste nell’oscurità della terra. Il giusto vive il silenzio di Dio in cui è nascosta la sua perseverante provvidenza di amore. Il silenzio nel cuore sentirà allora germogliare in lui la parola di vita.
IVa domenica: parabola del Padre misericordioso è la porta sempre aperta dell’ospitalità. Il ritorno del Figlio è un itinerario quaresimale dall’oscurità e da una vita dissipata, svuotata di senso, alla luce e alla gioia per la ritrovata paternità e la mai perduta dignità di figlio.
Va domenica: il vangelo narra della donna esposta al disprezzo a cui Gesù ribalta la sorte ormai segnata dalla violenza omicida dei custodi della legge. È la porta del perdono, quella che restituisce in radice la dignità negata e riapre la strada a fondo chiuso capovolgendo il destino di morte in una vita di nuovo messa in cammino.
Domenica delle Palme: si ricorda l’ingresso di Gesù a Gerusalemme per la Porta d’Oro così chiamata nella letteratura cristiana o anche She’ar Harahamim “porta della Misericordia” è la più antica delle porte cittadine della Città Vecchia di Gerusalemme, rivelando così anche a noi che lui stesso è la porta che conduce al Padre misericordioso.
L’icona, sommovimento dell’Ineffabile nel cosmo, dell’Affezione nell’umano, della Pietas nel disamore e così, da questa porta stretta, la luce nell’ombra va dilagando per Universa.
Pensieri del pittore di icone
Come vive,
come splende –
è lei – per un attimo si sente –
la sede trasparente
d’ogni umano
ed ultraumano
commovimento
nella sfera
universa
dell’essente.
Lei il punto.
Oh mia venerazione blanda
che da sempre
in immagini preziose
preziosamente
come è legge spendo…
Perdonami, donna dell’icone,
ti prego, l’amoroso scempio
che di te fa la mia arte
da secoli
e secoli, maestro
dopo maestro
pietosamente empio.
Ti esaltano, ti opprimono
nel garbo
della posa
maestosa – adolescente,
nel granato del volto
dallo sguardo assente e vigilante.
«Giusta quella pietà,
però non circoscrivere il mio tempio»
tace radiosa la tua luce
nella luce e nell’ombra dilagando,
(Mario Luzi, Poesie ultime e ritrovate, 272)
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Sostieni periscopio!
Andrea Zerbini
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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