Presto di mattina. Un architetto muratore
Un architetto muratore
Il mattone e la calcina
Nei cortili dei muratori
E l’albero della mattina
Quando cominciano i lavori
E tu guardi com’è di fuori
Dove va sui tetti viola
La debole nube bambina
E odi la voce sola
Di un uccello dai vuoti prati
Dove sono ritornati
Fiori tante volte morti.
(Franco Fortini, Tutte le poesie, Ebook, Mondadori, Milano 2015, 207).
Ferrara: novità fatta di verità antiche (Interbooks, Padova 1991) è il libro scritto da Carlo Bassi nel quale, nei panni del moderatore, egli racconta di un dibattito immaginario a Palazzo Crema, durato ben quattro giornate, tra i maestri muratori del passato che operarono nella nostra città tracciandone la forma.
Tra essi egli ricorda dapprima Pietrobono Brasavola come muratore-capomastro, ingegnere ducale, che lavorò a Ferrara nel 1400. Autore della seconda addizione di Borso, Brasavola fu l’inventore delle baldresche: “strutture molto ardite che permettevano di avere al piano terreno le aree più libere” e una loggia rialzata sopra come a Casa Romei e in via Vecchie.
Carlo Bassi ricorda poi Biagio Rossetti, che con il Palazzo Roverella, costruito ad appena otto anni dalla sua morte, scriveva con i cotti, le pietre e il marmo, “una pagina straordinaria di sapienza architettonica, di competenza grafica, di cultura plastica”, intendendo così ribaltare l’opinione dei più accaniti critici del tempo che lo definivano “un grezzo muratore”.
L’immagine di un architetto-muratore può apparire un’indebita commistione, quasi un ossimoro, tanto che verrebbe da dire: a ciascuno il suo. E tuttavia gli antichi maestri muratori la pensavano diversamente. Progettare era, al tempo stesso, edificare, un fare insieme alle maestranze, un praticare quanto disegnato sulla carta.
Fu grazie a questa prossimità, a quest’amalgama, avvolgendosi della cultura, delle storie e dei problemi della città, che ne sortì come un’alchimia, qualcosa di nuovo e nuove più ampie prospettive che si addizionarono all’antico.
Così il rinnovamento della città andava fabbricandosi proprio dall’immergersi fin nelle fondamenta, nelle sue verità e carte più antiche, come ricorda il titolo dell’opera di Carlo Bassi.
Genius loci
Per l’architetto Carlo Bassi fu questa continua frequentazione del Genius loci della città, calcando le orme degli antichi e del loro sentire plurale – interdisciplinare diremmo oggi – e pure sinottico, a plasmare la sua forma mentis et cordis.
Il dialogo di Carlo con l’“intelletto amoroso” dei maestri del passato che diede forma a Ferrara generò in lui l’orientamento convinto a pensare diversamente l’architettura, come fosse un itinerario: partendo dall’architettura per arrivare alla poesia, come disse in un’intervista a Telestense: “vorrei che l’architettura fosse percepita come poesia”.
Il Genius loci di una città, il suo DNA, si esprime infatti con il linguaggio poetico; è “quella quidditas segreta, quel pathos e quel sentire nascosti che dimorano nei luoghi, nei vissuti stratificati degli ambienti – così mi scriveva in una lettera (22.20. 2013) – è ciò che fa di una architettura e di un luogo un avvenimento unico, irrepetibile” (ivi).
È quell’attitudine, il Genius loci, a ‘con-venire’, a ‘col-laborare’, intenti a custodire, innovare ed edificare insieme leggendo le varie stratificazioni, “la verità del luogo” che permane integro, che rende una città “radiosa e magnetica” nonostante i mutamenti del tempo e della storia.
La scrittura stessa di Carlo nelle sue lettere testimonia uno stile grafico che ispira immagini poetiche. Una volta gli risposi così: “Assomigliano le tue lettere ad una architettura marina, permettimi questa immagine di stagione. Aprendo la tua lettera sul tavolo mi sembra infatti di vedere un tratto di mare: onde eleganti che si rincorrono tranquille, la tua scrittura azzurrina, andante e un poco mossa” (14.07.2014).
Non è certo una questione puramente estetica, quella di arrivare alla poesia attraverso l’architettura per renderla semplicemente bella: è un’istanza etica quella che nasconde: perché scoprire il tracciato poetico nascosto porta alla luce i mondi e i vissuti abitati di una città, di una chiesa, di una via o di un monumento, porta all’incontro con i suoi umanesimi, con la sua socialità e religiosità, le segrete aspirazioni.
Pensare all’architettura come a una fedeltà a cose future anzi, eterne
In un’altra lettera mi scriveva: “Quello di cui sono certo è che alla fine due sono stati nella mia vita professionale i temi centrali ai quali ho dedicato tutta la mia passione: lo spazio sacro per gli uomini di oggi e la lettura della città fuori dagli schemi per catturarne la poesia. Perché è la poesia il fine ultimo di queste mie passioni…
È a Milano la chiesa che è il mio riferimento, Gli Angeli custodi, commissionata allo studio Bassi-Boschetti, dopo quella esperienza esaltante ci sono state quelle di Buccinasco, di Malcantone, di Saronno ,di Melzo, di Limbiate, tutte oggetto di una passione indicibile.
Mi piace dire: “Signore, lo zelo per la tua casa mi consuma” (Sal 69, 10). Come mi piace pensare all’architettura come “sostanza di cose sperate”, che è la definizione della fede nella Lettera degli Ebrei” (09.10.2013). Ma lo sperare credendo non è la sostanza stessa di ogni poesia, di ogni umana attesa, fosse anche la più disperata?
Nella stessa lettera egli cita poi la parola di un autore sudamericano: “la disperanza”, come figura sintetica del suo stato d’animo in quel momento: “I due significati di speranza e disperazione si alternano nell’arco della giornata e tengono il mio animo in tensione. Ma fino a quando?”(ivi).
Non sorprende allora che nell’introduzione di Roberto Pazzi a Perché Ferrara è bella. Guida alla comprensione della città (Corbo, Ferrara 1994, XII) si legga: «Carlo Bassi si è imbarcato sull’eternità della sua città, costruendo questa mappa della navigazione delle sue forme, apparentemente affidata alle leggi scientifiche dell’architettura, in verità arresa alla poesia».
Una visione senza alcun dubbio poetica
Nella Nota al testo di Perché Ferrara è bella lo stesso Carlo Bassi precisa: «questa visione di assieme ci consente di renderci conto di come alla fine tutto si tenga e di come le ‘geometrie’ che siamo andati scoprendo, e che sono a nostro avviso uno dei motivi segreti che fanno Ferrara bella, siano sostanza intrinseca alla complessa realtà dei suoi stessi spazi.
Sono tutti segni specifici, visibili, di una realtà urbana che non è solo un esempio eminente ed universalmente citato di urbanistica rinascimentale, ma essa stessa poesia, se affidiamo a questa parola magica anche il dominio sull’architettura della città concepita come compiuta struttura di pensiero.
Allo stesso modo della grande pittura dei Maestri dell’Officina, della universalità dell’Ottava d’Oro di Ludovico Ariosto, della sofferta carica esistenziale del poetare di Torquato Tasso e della proustiana narrazione della città entro le sue mura del romanzo di Giorgio Bassani…
Le varie parti dell’organismo urbano, infatti, sono analizzate secondo un metodo che è proprio delle indagini urbanistiche vere e proprie, anche se con attenzioni molto sofisticate, ma che si è voluto deliberatamente caricare di amorosi sensi attraverso l’approfondimento di frammenti di un discorso urbano capace di intense suggestioni esistenziali.
Frammenti che abbiamo chiamato “luoghi”, identificandoli come concentrazioni di qualità poetica e come momenti di attenzione e di attrazione psicologica ed esistenziale che hanno coinvolto la nostra personale esperienza» (ivi, XVI).
Chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simili
Il centenario della nascita di Carlo Bassi, l’anno stesso della sua consorte Paola Ferraresi, è stato venerdì 15 settembre. E sabato 16 nella chiesa del monastero delle Clarisse al Corpus Domini ho celebrato l’eucaristia con i parenti e gli amici. È una chiesa a misura di Paola, diceva Carlo, perché la poesia di quel luogo era tutt’uno con la preghiera; lì lo spirito di Francesco, Chiara e Caterina de Vigri erano riuniti in un unico abbraccio con tutta la città, la sua storia, la sua arte, la sua poetica.
Mi trovavo a commentare il vangelo del giorno: «Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile. È simile a un uomo, un architetto che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia».
Una parabola che in Luca serve a mostrare il vero discepolo: facitore e non solo editore della parola e, parallelamente, in Matteo conclude il discorso di Gesù sul monte, quello delle beatitudini, che costituiscono la rivelazione del suo progetto di umanità nuova, il ribaltamento delle sorti e destini umani.
Sono le ultime ma decisive istruzioni ai discepoli per realizzare la costruzione dell’uomo interiore, di colui che si rinnova di giorno in giorno perché, non solo ascolta, ma vive praticando la novità del vangelo. Colui che pratica/ospita la parola, come chi ospita l’umanità dell’altro, è simile a colui che edifica la sua vita scavando molto profondo e ponendo la sua umanità come una casa sulla roccia: su quella roccia che è l’umanità del Cristo.
Pensavo a Carlo ed ho visto nel racconto evangelico una sintonia con il suo pensiero non solo per il fatto di un uomo che vuole costruire una casa. Così come non basta lo studio dell’architettura, l’apprenderne la scienza, ma occorre giungere alla poesia a quel processo che nel praticarla le dà vita e la realizza nel suo senso più profondo, come un sentire e abitare pienamente l’umano.
Allo stesso modo il discepolo, se ascolta la Parola ma non la vive, resta senza fondamento, costruisce un edificio pericolante, esposto agli eventi minacciosi, perché è mancante di quella relazione unitiva che porta fin nell’intimo del vangelo ne rivela la sostanza di cose sperate e che si raggiunge solo se questo diventa la tua stessa casa.
Anche nel discorso delle beatitudini si potrebbe così rilevare un’architettura poetica. Le beatitudini sono il farsi della parola, l’incarnarsi, il divenire e venire di Gesù parola di Dio nella nostra umanità, “Verbo incarnato delle umane genti”: Gesù come la poesia umana di Dio.
Con uno sguardo amoroso
L’architettura poetica, che è quel fare con la vita, l’edificarsi in vita concreta, scaturisce da uno sguardo generato da un “intelletto amoroso”, l’espressione è di Carlo, sguardo di comprensione e di pietà, quel disegnare, progettare che non rimane sulla carta ma che diventa vita per gli altri, avvolta nella cultura dalla storia della città e delle persone.
Carlo Bassi desiderava così che nella descrizione urbanistica vi entrassero i “romanzi” delle vite delle persone, le loro vicende; che essa interagisse con l’ambiente vitale, raccogliendo il passato per scrutare il futuro vivendo il presente.
Il vangelo è il progetto di Dio sulla carta, ma realizzato nella vita di Gesù. Scritto nel suo corpo, il vangelo è anche il progetto urbanistico della città futura, affidato agli uomini e alle donne amati da Dio: quello della nuova Gerusalemme, continuato attraverso il dono dello Spirito lungo la storia e in ogni luogo fino ai confini della terra.
In particolare le beatitudini nascono dall’intelligenza e sentire poetici di Gesù, perché scaturiscono dal suo intellectus amoris, dall’intelligenza del suo cuore trafitto e aperto per aver preso su di sè e condiviso fino in fondo i destini e le vite degli uomini e delle donne delle beatitudini per ribaltarne le sorti, per intraprendere con loro la costruzione della casa di Dio tra gli uomini: una cattedrale vivente.
Il pensiero va così a quella iniziata dall’architetto spagnolo Antoni Gaudì, una cattedrale ancora in corso d’opera, con i cantieri aperti. Parimenti anche il vangelo è architettura in divenire mai finita e affidata a noi come la Sagrada Familia. Gaudí si ispirò alle grandi cattedrali gotiche e simbolicamente voleva ripercorrere la vita di Gesù di nuovo tra noi sulla terra, tanto che le tre facciate dovevano rappresentare la Natività, la Passione e la Gloria.
I sette muratori
Sabato scorso, al termine della celebrazione, in sacrestia, il figlio di Carlo, Paolo mi ha fatto dono di una poesia di Franco Fortini come ricordo del centenario dei suoi genitori, dicendomi che era un testo molto caro a Carlo, frequentato e meditato spesso.
La poesia inizia con un imperativo: E tu pregali, i sette muratori.
Pietro Cardelli redattore della rivista on line di poesia e poetica formavera e fondatore del collettivo Liberamente, ha studiato l’uso dell’imperativo negli scritti di Fortini, questo modo verbale è riconosciuto come uno dei suoi elementi stilistici più ricorrenti e distintivi.
Viene usato in quelle frasi in cui si vuole modificare una situazione esistente, attraverso un ordine, un consiglio, un’esortazione o un’invocazione, una preghiera. Ed è il nostro testo una supplica all’azione, a lasciar spiragli in ciò che è murato, prima nel testo poi nella realtà, fessure proprio dentro la morte, un passante alla vita.
Il sentire poetico diventa forza dell’agire, sua vibrante espressione, impulso al movimento a favore di chi sta con le spalle al muro come chi muore. Ai sette muratori si chiede di lasciare spiragli di vita, perché almeno passi la sostanza di ciò che si è sperato insieme a chi fa vivere, e non venga meno, ma continui a lasciar passare luce, pane, acqua, il profumo dei fiori, le spighe, l’uva, la frescura dei boschi; non venga meno alla fede, anche nel transito ultimo, quella memoria sovversiva del Risorto che scalda il cuore proprio nel morire.
Un imperativo orante ai sette muratori, ma rivolto anche a noi chiamati alla responsabilità creatrice del ricordo e della sua trasmissione; vocati a lasciare spiragli nei muri chiusi della memoria dei dimenticati e farla nuovamente viva; non resti come un’architettura senza poesia, senza amoroso sguardo, né come un’intelligenza senza cuore o un ricordo senza speranza di futuro.
E tu pregali, i sette muratori,
Pregali, pregali, i sette maestri
Muratori che devono murare,
Perché lascino a te
Sette spiragli al muro,
Perché arrivino a te
La luce e il pane.
E da uno ti venga
Una sorgente d’acqua,
Ricordo di tuo padre;
E da un altro ti venga
Il profumo di fiori
Delle sorelle che avevi;
E da un altro ti vengano
Spighe lunghe di grano
Con tutto il loro frutto;
E da un altro ti venga
La vite della vigna
Con i grappoli pieni.
E da un altro ti venga
Qualche luce di sole
Che ti riscaldi il cuore
Che non si spenga tutto.
E il vento, il fresco del vento,
Il vento fresco dei boschi
Arrivi fino a te,
Che ti rinfreschi il capo,
Non marcisca il tuo capo.
Oh tu pregali, pregali, pregali
I sette muratori!
(Fortini, ivi, 113)
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Andrea Zerbini
Commenti (1)
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Andrea, il tuo ricordo di Carlino Bassi, che in tanti abbiamo amato e stimato e che Ferrara sembra aver dimenticato, le tue parole sulla architettura che deve andare a fondo fino a “farsi poesia” per costruire insieme la città di pietra e la città degli uomini, le poesie alte e struggenti (almeno per me) di Franco Fortini, insomma, tutto quanto scrivi e come lo scrivi, sono una grande lezione. Spero di non dimenticarla.