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Ferrara film corto festival

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Presto di mattina. Trasverberare, innestare per ferita

Ferita dall’amore

«Sente di essere stata ferita,
ma non sa da chi, né in che modo. Però riconosce che è
una ferita preziosa e non vorrebbe guarirne.
Teresa d’Avila, Castello interiore, Seste mansioni, 2, in Opere, Roma 1985, 864

Mese di ricorrenze carmelitane quello di agosto. Dopo il ricordo di Edith Stein, venerdì 9, come un introito, lunedì 26, a compimento, la solennità della dedicazione della chiesa a S. Teresa trasverberata del monastero sito nel piccolo piazzale in angolo fra via Brasavola e via Borgo Vado.

L’estasi della santa che sta per essere colpita al cuore con un dardo infuocato da un angelo sorridente è rappresentata in una famosa scultura in marmo e bronzo del Bernini nella cappella Cornaro, presso la chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma.

Le letture della liturgia del giorno hanno fatto da trama alla riflessione.

Teresa di Gesù sta sotto i nostri occhi nella trasverberazione del cuore. Dove si trova? Sta in un luogo aperto, un mare senza sponde; sta in un cuore che resta aperto perché ferito dall’amore. E la preghiera di colletta ci dà già un indizio di cosa significhi “trasverberazione”: “Portare nel cuore i segni, la ferita, di un altro amore pure lui trafitto”. Si dice infatti: tu «hai impresso i segni misteriosi del tuo amore e l’hai animata a forti imprese».

La trasverberazione è per Teresa l’esperienza di cosa sia vedersi ferita sotto gli occhi dell’Agnello! Ferita oltre sé stessa, nell’Altro. Scrive ne La Vida 29, 11: «Questa pena e gloria insieme mi facevano perdere il senno, al punto che non potevo capire come potesse accadere o che cos’è vedere un’anima ferita! Capisco solo che la si può dire ferita da qualcosa di tanto eccelso; e vede chiaramente che non è lei ad avere smosso qualcosa da cui raggiungesse questo amore, ma sembra che dal grandissimo amore che il Signore ha per lei sia caduta all’improvviso in lei quella scintilla che le fa ardere tutta».

Riluce la scintilla: è la ferita d’amore dell’Amato che muove, provoca il desiderio e le parole dell’amata a chiedere di essere innestata a lui per ferita: «mettimi come sigillo sul tuo cuore». «Fiamma d’amor viva» scriverà Giovanni della Croce, che ferisce con amoroso cauterio nel profondo, e che nel Cantico spirituale dirà dell’amata:

«viveva in solitudine, / (nel deserto) e nella solitudine ha già fatto il nido;/ e nella solitudine la guida/ solo il suo Amato/, anche nella solitudine dell’amore ferito», (c. 35). Cosa potremmo dire ancora di questa esperienza mistica? L’Agnello, il Cristo vive in me! Queste le parole di Teresa: «Vita, che altro posso dare/ al mio Dio che vive in me,/ se non perder proprio te,/ per riuscire a guadagnarti? Ché il mio Amato amo talmente, da morir perché non muoio».

Idillio e corteggiamento senza fine

Ma come possiamo immaginarci questa unione mistica? Teresa cosa dice? Quasi di sfuggita mi sono accorto leggendo le ultime righe del cap 29, 13 di una parola “requiebro”, che compare una sola volta nel testo per esprimere la tenerezza, o meglio le tenerezze d’amore. Un’espressione tradotta nell’VIII edizione del 1985 Opere di S. Teresa come «soavissimo idillio» e nella nuova versione de La Vida con «corteggiamento».

Leggo: «Un corteggiamento così dolce fra Dio e l’anima che supplico la sua bontà di farlo gustare a chi penserà che stia mentendo». Idillio, è una vita avvolta e intrisa nell’amore: «lasciandomi avvolta, riarsa (la nuova traduzione) in una fornace d’amore».

Corteggiamento è per attrarre a sé, un condurre con sé, un parlare al cuore simile a quello di Dio con il suo popolo profetizzato da Osea: «ecco, la attirerò a me,/ la condurrò nel deserto/ e parlerò al suo cuore./ Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, / Ti dimostrerò il mio amore/ e la mia tenerezza./Sarai mia per sempre». (Os 2,16+)

Per quel poco che ho potuto verificare, il termine è usato anche da Giovanni della Croce una volta al plurale e proprio in un contesto di intimità amorosa, mistica: «I doni amichevoli che lo Sposo fa all’anima chiamata colomba bianca quella dell’arca (ma anche del cantico) in questo stato sono inestimabili, e le lodi e gli elogi (requiebros) – corteggiamenti si potrebbe tradurre – dell’amore divino che con il grande passaggio di frequenza tra i due è ineffabile» (Cantico spirituale, nelle Annotazioni che precedono il canto 34).

La seconda lettura ci ricorda che la trasverberazione è collegata alla (scaturisce anzi dalla) virtù teologale della carità, che è la via migliore di tutte e conduce al «desiderio di vedere Dio» così come egli è. Si passa dal vedere come in uno specchio, al vedere faccia a faccia, sino a raggiungere l’inesprimibile, riferito da Paolo, che attende il momento in cui conoscerà esso stesso conosciuto dall’amore, trasformato in lui.

Custodire e dimorare vanno insieme

Conoscere l’amore non è possibile senza il custodire e il dimorare nella Parola. Ce lo ricorda Gesù, nel vangelo, nel discorso d’addio. “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.”

Osservare è custodire stando innanzi”; è custodire l’altro, intenti all’ascolto, perché la parola ne dice la presenza, l’esserci. È permanente rivelazione, dono di sé. Istintivamente vien in mente invece il proteggere, il gesto difensivo, la chiusura; ma custodire l’altro è restargli “aperto, dinanzi”, in una relazione dialogica stando aperti, come Teresa, come Maria stessa nell’apertura/ferita del cuore, ma generativa del dimorare l’uno nella ferita dell’altro.

Leggiamo nell’Apocalisse, ma poi nel Cantico: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me (Ap 3, 20)». È il mio diletto che bussa: «Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia; perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce» (2,6).

Questa esperienza mistica, questa grazia della trasverberazione sembra essere avvenuta quando Teresa era prioria nel monastero dell’Incarnazione (1571-1574) negli anni della riforma del Carmelo. Un’intuizione nata una sera nella sua cella in compagnia di Giovanna Suarez, amica d’infanzia, e altre quattro compagne, anche grazie agli incontri con Pietro d’Alcántara, colui che dissipò i dubbi di coloro – dotti ecclesiastici – che l’accusavano di possessione per le sue esperienze mistiche.

Un tempo di urgente riforma anche per noi è pure il nostro. Un tempo trasverberato, dunque, ossia aperto all’accadere dell’ora giovannea, trapassato nell’incontro con l’Agnello ferito. In Giovanni evangelista il simbolo dell’Agnello pasquale accompagna Gesù dall’inizio alla fine della vita, fino al momento in cui nessun osso gli è spezzato e in cui gli viene trafitto il costato.

Nella sua contemplazione poi, Giovanni, il veggente di Patmos, nell’Apocalisse arriva alla identificazione tra l’Agnello e il Pastore, che guida “alle fonti delle acque della vita”. Viene in mente il Pastorello del canto di Giovanni della Croce che ha nella «sua pastora fisso il suo pensiero, ha il petto dall’amore lacerato».

Chiesa trasverberata: il travaglio delle riforme

Ha scritto il monaco Ghislan Lafont in La Chiesa: il travaglio delle riforme, San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, 2012: «L’immagine della Chiesa non può essere diversa dall’immagine di Cristo. Ora, l’immagine predominante di Gesù oggi mi sembra essere piuttosto quella del Servo, dell’Agnello di Dio, dell’uomo delle Beatitudini, con la forte intuizione che questo aspetto di umiltà non sia legato soltanto alle necessità della redenzione dei peccati, ma che appartenga più profondamente all’essenza stessa di Cristo: sin nella gloria, Gesù rimane l’Agnello immolato, perché l’immolazione è un altro nome dell’Amore, e colui che ama offre la sua vita, eternamente…

Ora, se questa è l’immagine di Gesù che lo Spirito Santo insegna oggi alla Chiesa, abbiamo in essa un invito alla riforma nel senso più profondo del termine. Riformarsi significa per la Chiesa ricomporre gli elementi che la costituiscono, secondo la forma dell’Agnello immolato – senza velare la Gloria, ma sapendo che questa non è ancora pienamente apparsa e che, quando apparirà, si manifesterà come il dono dell’Amore in pienezza.

Si è parlato in occasione del Concilio, ma soprattutto del postconcilio, in America Latina, dell’“opzione preferenziale per i poveri”. È la prima cosa che bisogna dire quando si percepisce l’appello a modellarci sul volto di Cristo umile, povero, e che porta la sua croce. Il criterio del cristianesimo secondo Gesù stesso, è che “il Vangelo è annunciato ai poveri”.

Ma ciò è possibile in profondità solo se la Chiesa è essa stessa povera della povertà di Gesù Cristo: Gesù non è andato verso i poveri, egli apparteneva ai poveri. La riforma della Chiesa secondo la somiglianza di Gesù Cristo povero, piuttosto che secondo l’assimilazione frettolosa alla gloria di Gesù resuscitato, dovrebbe rendere naturale e facile l’accesso dei poveri, per ricevere da essi e per donare loro» (ivi, 271-273).

Come Teresa nella sua trasverberazione tutti stanno sotto gli occhi dell’Agnello, provando a seguirlo ovunque egli vada.

Fiamma d’amor viva

Concludo con un testo poetico di Giovanni della Croce. Fu composto secondo le sue stesse parole nel 1584 durante la preghiera, uno svelamento della sua esperienza interiore in poesia.

Esperienza trinitaria è quella dei mistici: “lampade di fuoco” nell’unica “fiamma d’amor viva”; così nelle parole “cauterio soave” e “deliziosa piaga” si nasconde l’azione dello Spirito Santo che ferisce la mortalità con dardo d’immortalità; “O tenera mano” che perdona è quella del Padre, il Figlio è nascosto nel “tocco delicato” che cambia morte in vita. Lampade di fuoco sono, che l’“oscuro e cieco” senso del vivere dell’amato mutano in “calore e luce insieme”.

O fiamma d’amor viva,
che amorosamente ferisci
della mia anima il più profondo centro!
poiché non sei più dolorosa,
se vuoi, ormai finisci;
squarcia il velo di questo dolce incontro.

O cauterio soave!
O deliziosa piaga!
O tenera mano! O tocco delicato,
che sa di vita eterna
e ogni debito paga!
Uccidendo, morte in vita hai mutato.

O lampade di fuoco,
nei cui splendori
le profonde caverne del senso,
che era oscuro e cieco,
con straordinarie perfezioni
calore e luce insieme danno all’Amato!

Come dolce e amoroso
ti risvegli nel mio seno,
dove segretamente solo tu dimori!
Nel tuo spirar gustoso,
di bene e gloria pieno,
come delicatamente m’innamori!

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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