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Senza timore restiamo aperti. Senza timore si sta nell’apertura della fede come in quella della poesia.

Così ho pensato rileggendo alcuni testi poetici di Friedrich Hölderlin, per il quale la poesia è manifestazione, svelamento del divino, della dimensione sacrale, nascosta del vivere.

Testi, quelli di Hölderlin, nei quali l’aprirsi, il rivelarsi, non hanno un valore solo spaziale, ma assumono una valenza esistenziale di svelamento. Sino al punto che il divino, il sacro si fanno immanenti, reali, manifestandosi infine nella storia.

Scrive Giorgio Vigolo nell’introduzione alle poesie cui mi riferisco: «Una fondamentale idea di Hölderlin è il Dio manifesto, palesato (…) L’apertura della valle è nel paesaggio quasi la struttura visibile della rivelazione, del palesamento, ma anche della cordialità accogliente.

Il divino diviene, nella poesia di Holderlin, offen und gemein,/ aperto e comune. Stalt offner Gemeine sing’ich Gesang/ Di un’aperta comunità io canto», (Friedrich Hölderlin, Poesie, Garzanti, Milano 1971, lxxxviii).

L’invito rivolto al poeta − come al credente − è allora quello a non temere l’altro che viene, ma di restare ospitali e, alla benedizione, dischiusi.

Vocazione e coraggio del poeta

Non ti son dunque congiunti tutti i viventi?
Non ti alimenta la Parca, come tua stessa ancella?
Perciò! va’ pure inerme
Attraverso la vita, e nulla temere!
Ciò accade, tutto ti sia benedetto,
Ti sia rivolto in gioia! che dunque potrebbe
Recarti offesa, o cuore, che mai.
Succederti, dove tu devi andare?
(Coraggio del poeta. Seconda versione, ivi 79-81)

Nemmeno è bene essere troppo saggi. La gratitudine
Conosce Lui. Ma da sola non Lo trattiene.
E per questo il poeta ama la compagnìa
Degli altri, perché lo aiutino a capirLo.
Ma, senza timore, quando deve, rimane solo
L’uomo davanti a Dio, difeso dal suo candore
E non abbisogna di armi né di astuzie,
Finché Dio lo aiuta, mancandogli.
(Vocazione del poeta, ivi, 95-97).

La vocazione del poeta e il suo coraggio sono pure quelli del credente. Per questo Romano Guardini considera Hölderlin profeta religioso, nel senso di Pindaro, Eschilo e Dante.

Egli scrive: «Ma ciò che pervade il vate in modo da renderlo “aperto” e capace di vedere, lo spirito, è la stessa potenza che opera, “l’Alternarsi e il Divenire”, la potenza della storia stessa. … Dietro la figura del “vate” appare quella del profeta nell’Antico Testamento.

È il profeta a creare la consapevolezza sacra della storia. Dio gli rivela che cosa significa l’avvenimento immediato per la guida del popolo e per il venturo Regno di Dio. Il profeta ascolta e annuncia la rivelazione al presente, trovando per lo più orecchi chiusi e cuori ribelli.

Così dallo Spirito Santo che rende il profeta “aperto”, ossia capace di ascoltare e di parlare, nasce la storia sacra. Esso è il vero “signore del tempo”, che nell’intreccio delle parole, dei fatti e degli avvenimenti produce il “divenire nuovo”, la metanoia e la trasformazione … Tutto questo sta anche dietro alle parole di Hölderlin, solo che in questo caso la realtà libera e ultraterrena del Dio vivente è divenuta un elemento del mondo.

Anche il non-poeta, l’uomo comune ma religioso, può avvertire quella realtà ‘altra’. In mezzo ai suoi amici, durante la cena commemorativa, entro la comunità del popolo nell’eccitazione festosa, essa diventa percettibile anche per lui»
(Hölderlin, Immagine del mondo e religiosità, Morcelliana, Brescia 1995, 204-206).

A questo punto qualcuno si domanderà: ma perché allora nell’Antico Testamento ritorna spessissimo l’espressione “il timore di Dio”? Il sacro se si caratterizza per un verso come attraente, fascinans, al tempo stesso si manifesta come respingente, tremendum?

Eppure anche nel suo sottrarsi al credente e al poeta − “mancandogli” direbbe Hölderlin – paradossalmente anche così egli viene in aiuto; ciò accade persino nel distanziamento che intimorisce, perché tale da impedire l’assimilazione che annulla la libertà altrui, spazio aperto invece ad una più grande libertà.

Il timore di Dio

Basterebbe guardare con un poco di attenzione l’apparato critico delle note della TOB, Traduzione (O)ecumenica della Bibbia, per averne una prima comprensione.

Sabato scorso leggevo il testo del profeta Isaia 11, 1-3: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore».

I sei attributi dello Spirito qui elencati corrispondono a quelli della Sapienza personificata come troviamo in Proverbi 8, 12.

Ci viene così ricordato innanzitutto che l’espressione “timore di Dio” è venuta formandosi negli ambienti sapienziali della Bibbia a completamento di altri attributi della sapienza. Cosicché essa va giustapposta, affiancata a quella di “conoscenza di Dio”, elaborata a sua volta negli ambienti profetici.

Temere Dio significa in prima battuta conoscerlo attraverso la sua Parola e il suo agire nella storia. Una conoscenza non intellettuale, ma sperimentata nella vita, tramite il sapere della esperienza.

Nel libro sapienziale dei Proverbi (1,7), si dice addirittura che «il timore del Signore è principio della scienza. Gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione. Ascolta figlio» (un filiale ascolto ripreso pure da Benedetto da Norcia nel prologo alla sua Regola).

L’espressione diventa così stereotipa in tutta la Bibbia, ove indica una relazione filiale e familiare al contempo rispettosa di fronte al Dio dei Padri, artefice di un’alleanza e di una legge di vita con il popolo a cui resta stabilmente fedele. Si corrisponde a tale fedeltà percorrendo la via della Sapienza, nella continua ricerca della sua Parola, con cui egli si fa conoscere.

Sia i saggi di Israele, sia i profeti sanno di camminare alla presenza del Dio vivente, di colui che scruta reni e cuori; e dunque il timore di fronte alla sapienza è l’atteggiamento di chi, stando alla presenza dell’altro, fa un cammino nella relazione al fine di conoscerlo.

La familiarità, l’affidarsi, richiedono un cammino segnato da prossimità e lontananza, da comprensione e oscurità, da sapere e non sapere, trepidazione e fiducia. È un passare sempre di nuovo, attraversando timorosi l’estraneità e la diversità dell’altro, per arrivare gioiosi alla confidenza, alla stabilità serena. Decisiva è l’apertura della fede: «Se non crederete, non avrete stabilità»
(Is 7, 9b).

Non è così anche quando si affronta una poesia? Non si principia forse incerti, timorosi stando nell’apertura, sulla soglia di parole sconosciute, incomprensibili?

Molto di più lo è il credere: lo è l’incredula e timorosa fede quando sente le parole: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Sempre nel linguaggio dei testi sapienziali, è la fede stessa ad essere denominata come “timore di Dio”, si dà dunque equivalenza. L’obiettivo è quello di sottolineare, tramite questa espressione, la forma dinamica della fede, il suo continuo divenire claudicante.

Scrive al riguardo Giuseppe Angelini: «la sapienza non è possibile in altro modo che a condizione di concedere un credito a Dio… Ma come definire la figura del timore di Dio? Certo non si tratta della paura di Lui; ma della confessione costante che di Lui sempre si tratta nel cammino della vita.

E dunque, per sapere che cosa attende da noi ogni singolo momento della vita, è indispensabile alzare fino a Lui gli occhi. Per conoscere la sapienza, occorre invocarlo; soltanto a condizione di interrogarsi sempre da capo a proposito dei suoi disegni è possibile scorgere quale sia la via della vita» (La fede una forma per la vita, Glossa, Milano 2014, 75-76)..

Non è tutto. Con la nozione di timore di Dio si fa evidente anche il carattere di alterità che contraddistingue i poli della relazione interpersonale.

Si tende così a esprimere l’inviolabilità dell’altro, la sua non assimilazione, non manipolabilità in ragione del suo continuare ad essere differente, estraneo e oltre ogni immagine che vorrebbe omologarne l’identità: l’altro non è me, ma può essere con me, e proprio l’unione nella differenza è il valore supremo della relazione.

Il timore è lo spazio rispettoso, reverente; un sentire con il cuore tra coloro che vivono in alleanza. Un sentimento che nasce dalla consapevolezza che la vita comune − come l’amore − non possono mai essere completamente possedute, richiedendo al contrario un’apertura permanente allo spirito, alla persona.

Il timore va compreso allora come un dono spirituale, una barriera all’autoreferenzialità, a porsi al centro dell’attenzione, al credere di possedere la verità, la sapienza appunto; una disposizione interiore, un restare umili, aperti nell’attesa dei tempi, dei momenti e delle decisioni della libertà altrui.

In questo modo l’Altro/gli altri vengono riconosciuti come un’inesauribile fonte di ispirazione e creatività generatrice di novità e di vita.

Lo spirito del timore di Dio è, per i credenti, come la musa per il poeta. Continuerà a dire: «cammina non temere finché potrò vederti ti darò vita».

La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei più) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
(E. Montale, Tutte le poesie garzanti, Garzanti, Milano 1996, 439).

Il timore della morte: un più grande nascere

Quelle volte che mi avvicino a Montale e apro le sue poesie è sempre con timore, ma anche con il desiderio di trovare tenui risonanze in un comune, umano sentire. Così è stato ancora una volta imbattermi nella sua la traduzione poetica del Cant espiritual dello scrittore e poeta spagnolo Joan Maragall.

Non importa. Sia il mondo ciò ch’esso è,
così diverso, esteso e temporale,
questa terra con quanto in essa cresce
è la mia patria; e non potrà, Signore,
essere la mia patria celestiale?
Uomo sono e la mia misura umana
per ciò che posso credere e sperare;
se qui fede e speranza in me si fermano,
nell’aldilà me ne farai tu colpa?
Nell’aldilà io vedo cielo e stelle,
anche lassù vorrei essere un uomo:
se ai miei occhi le cose hai fatto belle,
se per esse m’hai fatto gli occhi e i sensi,
con un altro ‘perché?’ dovrò rinchiuderli?

Tu sei, lo so; ma dove, chi può dirlo?
In me ti rassomiglia ciò che vedo …
Lasciami creder dunque che sei qui.
E quando verrà l’ora del timore
che chiuderà questi miei occhi umani,
aprimene, Signore, altri più grandi
per contemplare la tua immensa face,
e la morte mi sia un più grande nascere.
(ivi, 748).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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