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Ferrara film corto festival

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Sentinella alla porta di Acor

Padre Marcello (Carlo Zucchetti), carmelitano scalzo nasce a Vighignolo, frazione di Settimo Milanese (Mi) il 29 Novembre 1914, muore a Ferrara il 13 luglio 1984. Sono passati 40 anni, ma in coloro che custodiscono la sua memoria, per dirla con il salmista «appena un turno di veglia nella notte».

Nel libro della Cronaca del convento di S. Girolamo dei Padri Carmelitani Scalzi di Ferrara si legge: «P. Marcello è morto all’Arcispedale S. Anna il 13 luglio 1984 dopo sessantacinque giorni di malattia. I funerali si sono svolti il giorno della Madonna del Carmine con larga partecipazione di fedeli e sacerdoti e di due arcivescovi, mons. Luigi Maverna, Ordinario della Diocesi e mons. Mosconi, emerito arcivescovo di Ferrara. I sacerdoti presenti concelebranti erano 82».

 Padre Marcello, o dell’essenziale

 «Si potrebbe dire: p. Marcello o dell’essenziale.

Non diceva una parola di più di quanto occorreva, né in confessionale né fuori. Come un novizio di altri tempi, sapeva sorridere senza ridere. Camminava a passi brevi, ma senza affrettarsi.

A questo tratto esteriore corrispondeva la sua immagine interiore. Era disponibile nell’intrattenersi senza tirare in lungo e senza dare corda a conversazioni non indispensabili.

Ascoltava con interesse, senza mostrarsi curioso. Era attento al prossimo quanto bastava per servirlo, senza lasciarsi distrarre dal suo dialogo interiore.

Dire l’essenziale non significa dire poco. E cosa ci sarà da dire di un religioso che ha diviso i suoi quasi quarant’anni di vita ferrarese tra il confessionale e l’ospedale dei bambini?

L’eccezionale nel quotidiano: era il sospetto che si imponeva a chi incontrava p. Marcello. La prova è venuta dopo. Dopo la morte, quando tanti hanno dovuto dire: «Non ardeva forse il nostro cuore mentre ci parlava lungo la strada?».

Quest’uomo, inspiegabilmente ricercato in vita, viene comprensibilmente ricordato in morte. Tutti ricordano, in fondo, cose molto semplici, ma per loro così importanti, cosi ricche.

Essenziale in vita; essenziale in morte. P. Marcello, prima di chiudersi nel silenzio e nell’assenza, in cui rimase per tante settimane, ha avuto l’opportunità di lasciarci il suo testamento, anch’esso naturalmente essenziale: «Vado in paradiso, vogliatevi bene». Come dire: “nada” e “todo”, tradotti per noi «duri di cuore e lenti a capire»
(Dalla presentazione di Giulio Zerbini, a D. Libanori, Padre Marcello dell’Immacolata o.c.d. Un ritratto, Gabriele Corba Editore, Ferrara, 1997, 5,-6).

 Una porta di speranza (omelia alla messa in S. Maria in Vado)

Cosa cercava chi andava da padre Marcello? Andava cercando speranza, una parola di speranza, il dono della speranza: Come è detto nel salmo 81 del Dio che libera il suo popolo dal giogo della schiavitù egiziana: «Un linguaggio mai inteso io sento: Ho liberato dal peso la sua spalla, le sue mani hanno deposto la cesta». Anche padre Marcello ha preso in mano la cesta pesante delle nostre umanità mortificate liberando dal peso che impediva il cammino della speranza.

Ci ha ricordato la preghiera di colletta all’inizio della messa che “Nell’umiliazione e abbassamento del suo Figlio unigenito il Padre ha risollevato in noi la speranza è venuto liberandoci dalla schiavitù del peccato e ha ridonato la gioia di sperare in lui”.

Ma anche le letture della liturgia di oggi aprono uno squarcio di speranza: Os 14,2-10; dal Sal 50 (51); Mt 10,16-23. Il profeta Osea è profeta del Dio sposo che conduce con sé nel deserto e parla al cuore del suo popolo come l’amato parla all’amata e dice “Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza”. È la valle vicino a Gerico il cui nome significa ‘valle di afflizione e tormento’.

Ecco padre Marcello è stato una porta di speranza nelle nostre afflizioni e turbamenti. Anche in lui sono risuonate per noi le parole profetiche di Osea nella prima lettura:

“Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente,
Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio
e metterà radici come un albero del Libano,
si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo
e la fragranza del Libano.
Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano,
fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano.”

La speranza: «è come la rugiada del monte Ermon che scende sui monti di Sion, là il Signore manda la sua benedizione, la sua vita per sempre» (Sal 133, 3)

La rugiada sulla terra è simbolo della speranza che viene dall’alto, dal cielo. Così pure la rugiada è paragonata al pane disceso dal cielo; pane è speranza. Rugiada feconda è l’eucaristia, pegno dato per nutrire la nostra speranza.

È molto carmelitano questo, non foss’altro perché la parola rugiada ritorna cinquanta volte sotto la penna di Teresa di Gesù Bambino del Volto santo, ed ella fa certamente un’associazione d’idee tra la rugiada (rosée, in francese), la rosa (il suo fiore) e il sangue, senza dimenticare le lacrime (cfr. Ms A, 71r°).

Il sangue di Cristo è rugiada, che nutre la vita come nella simbologia dell’inno gregoriano Pie Pellicane Iesu Domine. E racconta la piccola Teresa che la prima parola che scrisse era cielo, perché una sera, rientrando con il padre, gli indicò alcune stelle a forma di T dicendo che il suo posto era la. Ma al cielo non era anche sempre rivolto lo sguardo di padre Marcello quando guardava sulla terra, non attingeva alla speranza in alto per irrorarla sulle nostre disperanze?

Il salmo penitenziale di Davide è invito alla lode: “La mia bocca Proclami la tua lode”, è invocazione allo Spirito il quale è come rugiada; l’epiclesi del canone secondo non afferma forse questo “Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito”? Lo spirito è colui che guida e porta a compimento la speranza che riapre sempre il cammino verso di essa.

Triplice sorgente della speranza è per noi la stessa Trinità nascosta in questo salmo 50; fu il vescovo Luigi Maverna a farmi comprendere questo significato mistico riportando l’esegesi di Origene:

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo. (Non è forse lo Spirito del Padre? Fonte di speranza)
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. (Non è forse lo Spirito santo? Cammino di speranza)
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso. (Non è forse lo Spirito del Figlio? Grazia Dono di speranza?)

Nel Vangelo di oggi poi ci viene ricordato che anche nella persecuzione e nelle tribolazioni davanti ai giudici nei tribunali, anche in quelli della quotidianità, nei contrasti, nei rifiuti di non disperare: «non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi le parole della speranza».

Come sentinella alla porta di Acor

La profezia di Padre Marcello è stata quella di annunciarci e ricordarci che Dio riapre sempre a noi la porta della valle di Acor, quella della speranza, che lui teneva sempre aperta.

Padre Macello ha abitato la soglia della porta della speranza come custode, come insonne sentinella. Lì la sua dimora angusta, la soglia e il confessionale e l’incontro con le persone: non sono luoghi comodi. E tuttavia, siccome a quella porta arrivavano trafelati, come i prigionieri di Sion ricondotti dal Signore, egli per incoraggiarne il transito, sorrideva loro, dischiudendo anche la porta gioiosa e profetica dalla sua bocca con l’espressione: “Avanti, avanti”, senza timore, il Signora cammina con voi.

Suo è allora il salmo 125 che traduce l’esperienza della speranza per lui e per noi ora e per il futuro. “Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni”.

Fu questa pure l’esperienza, davvero indicibile, di Charles Peguy, il quale fa dire a Dio, nell’opera poetica Il portico della seconda virtù: «La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza. Ma la speranza, dice Dio, questa sì che mi stupisce. Me stesso. Mi stupisce. Che dei poveri figlioli vedano come tutto avviene credano che domani andrà meglio. Che vedano quel che accade oggi e credano che andrà meglio domani mattina. Questo stupisce, ed è la più grande meraviglia della nostra grazia».

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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