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Presto di mattina /
Ritornare alla coscienza per ritrovare la speranza

Presto di mattina. Ritornare alla coscienza per ritrovare la speranza

La testimonianza della coscienza

Riportati al loro cuore smarrito dal Forestiero che si era incamminato con loro lungo la via, i discepoli di Emmaus hanno ritrovato la speranza. Ed anche se era notte, sono partiti per ridestarla negli altri rimasti a Gerusalemme.

Non diversamente, il cammino quaresimale ci fa pellegrini di speranza. Ci chiede cioè, come quello giubilare, di ritornare alla coscienza per ritrovare dentro di essa la nostra gloria: la speranza e il suo operare, l’armonia di un sapere in atto.

È questo l’invito di Agostino d’Ippona che in un’omelia afferma: «Ritorniamo dunque alla coscienza, della quale dice l’Apostolo: La nostra gloria è questa: la testimonianza della nostra coscienza (2 Cor 1, 12). Ritorniamo alla coscienza, della quale egli dice ancora: Ciascuno metta dunque alla prova le sue opere ed allora avrà la gloria in se stesso e non in un altro (Gal 6, 4).

Ognuno di noi dunque metta alla prova le sue opere, se provengono dalla sorgente della carità, se i rami delle buone opere fioriscono dalla radice dell’amore. Ognuno metta alla prova le sue opere ed allora avrà in se stesso occasione di gloriarsi e non in altri: non quando la lingua di altri dà testimonianza, ma quando la offre la propria coscienza» (Omelia 6,2).

La coscienza, «un silenzio parlante»

L’invito a ritornare coscienti a noi stessi ci viene pure da una lirica di Carlo Betocchi – le sue parole a me sempre sorprendenti di senso profondissimo, le mie inadeguate e pur a rincorrere le sue – per il quale la coscienza è «un silenzio parlante», quel muto scovare e ritrovare in se stessi, incombenti, l’Altro e gli altri.

Coscienza pure come voce di quell’esistere che parla «in nome di Lui e in nome di tutti»; luogo dunque d’alleanze e di azione, conoscendo insieme, per far ripartire la vita e il cammino riaprendolo alla speranza. Questa di Carlo Betocchi è una confessio in spe di povertà miserevole e tuttavia in essa si ritrova frammista e bisbigliante la parola poetica.

Od anche, come qui confesserai:
– Questa nuda parola, questo dire
che non può mai essere inutile,
questo equilibrio di pensiero ed atto
che si svela in pronunzia, e non è
che coscienza, un silenzio parlante,
questo muto snidare in se stesso
l’altrui, e l’Altro, che dal sé distinto
incombe, e promuove l’esistere
nel nome di Lui, e il parlare
nel nome di tutti, questo, mi pare,
nella mia miseria, il promiscuo
sentire che sussurra: – poesia.
(C. Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti Milano 1996, 367).

In me sempre latente, viva, irreparabile
è la coscienza della vita, l’erta
del suo dolore, e le contraddizioni
che l’angosciano: e insieme un non so quale
senso che l’esperienza che consuma
anche ripara i mali, anche s’addice
a far del nostro vivere una prova,
anzi un mistero necessario: e restino
in noi lottanti l’esperienze avverse
se poi, non già di là dal bene e dal male,
ma solo oltre il pagare di persona
esiste un premio di cui è parte il male
sofferto, e il suo dolore, così come
la croce al divino incarnarsi
(ivi, 290-291).

In quest’altra lirica, per Betocchi la testimonianza della coscienza è la stessa testimonianza del vivere nel suo misterioso divenire: «un passo, un altro passo» − è il nome della raccolta poetica − nel dolore di prove e contradizioni. In essa si consuma e si compie, lottando angosciati, un «mistero necessario», interrogante sempre e mai disciolto, quello del nostro patire e del suo oltre di cui pure è testimonianza la coscienza, testimone di un valico, di un vado oltre il patire, lo stesso identico mistero che fu «la croce al divino incarnarsi».

La coscienza: suo luogo il cuore

Non solo un corpo e il conoscere dei sensi, neppure solo una psiche con il suo intelligere o lo spirito nel sentire della coscienza ma, nell’antropologia spirituale ortodossa, è essenziale riferirsi alla trascendenza mistica del cuore.

Il cuore per la spiritualità ortodossa è l’uomo interiore paolino o, come dice Teofane, il Recluso «l’uomo profondo, lo spirito… Dove c’è il cuore, là c’è anche la coscienza». È nel cuore profondo che l’uomo viene a trovarsi faccia a faccia con il mistero dell’Altro e degli altri.

La coscienza allora ci pone davanti all’alterità che l’interpella sollecitando una risposta. Questa coscienza accorata − ricorda ancora Teofane − «è la leva più potente del meccanismo della vita spirituale»; essa si compie come esercizio di responsabilità d’altri. È la compassione che attira la coscienza verso il cuore, e quando la coscienza si raccoglie nel cuore, lì si fa presente anche l’altro: in essa vi si imprime indelebile il suo volto.

«Lieti nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Sono questi i segni di una coscienza che abita il cuore e tuttavia non rimane reclusa in esso, ma si fa pellegrina sulla terra, tra la gente, perché essa segue il movimento del cuore; il movimento stesso della persona che esce da se stessa e si volge verso qualcuno con lo sguardo, con l’ascolto, con il pensiero e l’azione.

«Cuore: rosa lacerata, punto d’infinito»

Si può parlare così letteralmente di una conversione del cuore. Questa poi ha i suoi verbi e le loro declinazioni che mutuano paradossalmente dalla sorgente del sentire stesso di Yahweh. Sono i verbi riportati nel racconto del roveto ardente nel libro dell’Esodo quando, mostrandosi a Mosè, Egli manifesta che il suo cuore si è rivolto verso il suo popolo in schiavitù:

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».

La persona si conosce e ha coscienza di sé all’interno del “darsi”, nella relazione con l’altro ed essa ritrova il suo centro eccentrico, il suo cuore appunto, praticando i verbi della speranza che la risvegliano, la rendono consapevole di un futuro e di un esodo di popolo per realizzarlo.

Sarà allora necessario e sempre di nuovo: osservare, udire, conoscere, scendere e infine salire congiuntamente verso una meta, di cui il cuore ha sentito parlare, un’eco profondissima dentro di sé. La testimonianza della coscienza è così mossa, da dentro, da una trascendenza di amore in un cammino che fa uscire dalla schiavitù d’Egitto, il proprio io, e salire verso una terra promessa, comunione di vita, relazioni accorate, rese possibili perché abitate dall’amore.

Di salita del cuore, poi, parla anche Agostino: «Ogni corpo a motivo del suo peso tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. Il tuo Dono ci accende e ci porta verso l’alto. Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo la salita del cuore cantando il cantico dei gradini. Del tuo fuoco, del tuo buon fuoco ardiamo e ci muoviamo, salendo verso la pace di Gerusalemme» (Confessioni, 13, 9.10).

Cuore, mia rosa lacera,
o punta d’infinito
che apparisce di là da ciò che sente
il senso: o voce
del mio credere: ecco
l’età che invecchio: abbi
pazienza: spera; vivi
nella speranza: o se pur erri sia
dans un adieu à jamais,
per ciò che sempre vive, e sempre è.

A discorde, intricata ed enigmatica vita corrisponde l’abbandonarsi della coscienza al sentire del cuore; coscienza fiduciosa, ma sempre in tumulto, altalenate tra due sponde del comprendere, sospira e teme, inquieta pur sapendo; il suo scorrere umile nel cuore è la fede, sostanza non debole di cose non viste, «come grido che tace» trovando «una speranza diversa» riconoscendo un volto e la sua pace.

E so quanto la vita sia discorde
con se stessa; il suo disegno
intricato; il suo discorso enigmatico.
La guardo e ne raccolgo la figura,
le credo e non le credo, anche il dolore
ha due volti, anche l’amore: resto
così, stordito, avvolto in questo slittare
della coscienza che quanto più sa,
meno è tranquilla. Ma non cedo:
dal sapere il comprendere deduco;
dal comprendere il gemere. Sospiro,
temo: e insieme sento di meritare,
dal patire, in esso inabissandomi,
una sostanza men fievole, un’unità
in cui spero nel mio dolore,
una speranza diversa, un volto
umiliato dal non conoscere più,
dall’aver fede, soltanto fede,
come grido che tace e ha la sua pace.
(Ivi, 289-290)

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
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