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Ferrara film corto festival

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Presto di mattina. Per che cosa vivere

La forza della parola in ogni debolezza

«A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti».

Così recita la motivazione per il conferimento nel 1980 del premio Nobel per la letteratura a Czesław Miłosz, (1911-2004) poeta e saggista polacco di Lituania. Laico e cittadino del mondo perché sempre esule, andò cercando nelle parole un senso esistenziale dell’umano, alla libertà e al loro rovescio, a ciò che è dentro e oltre l’uomo nascosto nella sua parola.

Miłosz, dopo aver preso parte alla resistenza contro il nazismo, chiese nel 1951 asilo politico in Francia e nel 1961 si trasferì in America dove, in California, all’università di Berkeley, insegnò letterature slave, e presso la quale già nel 1978 aveva ricevuto il Neustadt International Prize for Literature. Fondamentale il suo testo: History of Polish Literature, del 1969, tradotto in italiano nel 1983.

Nel discorso in occasione del conferimento del Nobel ricordò, esule come lui, Dante Alighieri da lui definito il “santo patrono di tutti i poeti in esilio che visitano le loro città e province solo nel ricordo” e aggiunse: “come è aumentato il numero delle città come Firenze”. Cacciaguida previde l’esilio: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.

Dante ha saputo trasformare con la poesia in un movimento di amore – giungendo attraverso i bassifondi algidi della terra fino al suo divino culmine – quel camminare le strade tortuose di un ingiusto esilio, usando la forza della parola per fare argine a risentimenti e rivalse. Così, penso, è stato anche l’incamminarsi per altre vie oscure della storia di Czesław Miłosz, un perdersi fin da principio e un ritrovarsi sempre di nuovo nella parola.

Quando sono debole è allora che sono forte, perché dimora in me la forza rinascente della parola: «Siccome, scrivendo, egli pensa ai suoi fratelli e non a sé gli è concessa in premio la potenza della parola» (C. Miłosz, La mente prigioniera, Adelphi, E-book, Milano 2022, senza numerazione).

Ciò che ancora è possibile

Scrive Karl Jaspers nella Nota introduttiva: Miłosz è «uno scrittore per il quale il distacco dal mondo della sua lingua madre rappresenta un dolore inestinguibile, qualcosa che lo induce a mettere continuamente in questione il suo proprio essere.

Capita talvolta nei suoi saggi che egli dialoghi con sé stesso per trovare il proprio terreno d’appartenenza. Cosa ne è dell’uomo che da quel terreno è stato strappato? È un destino che nel mondo di oggi accomuna milioni di uomini.

Noi sappiamo che equivale a non avere uno stato giuridico, sappiamo che un cittadino del mondo senza passaporto nazionale è considerato meno che un uomo agli effetti di qualsiasi cosa gli possa succedere. (Hannah Arendt sul totalitarismo).

In Miłosz c’è qualcosa di più. Anche quelli che si procacciano un altro passaporto sono come recisi dalla propria radice. Che ne sarà di loro spiritualmente, moralmente, umanamente? È una domanda che resta aperta, alla quale darà una risposta il nostro secolo attraverso la realtà che uomini come Miłosz, in quanto rappresentanti di un destino universale, sapranno creare. Con la serietà della loro esperienza non velata, in forza del loro porsi come uomini in quanto cittadini del mondo, essi mostreranno ciò che ancora è possibile» (ivi, 14-15).

Qualche testo di Czesław Miłosz è affiorato già altre volte in Presto di mattina; proprio perché la sua “poesia è compagna d’umanità”; pertanto proprio nulla di quanto sia umano la lascia indifferente, anzi essa dimora anche tra le ceneri e le rovine della distruzione. È lì che il poeta l’abbandona seminandola.

Quand’anche dovesse incenerirsi e perdersi nel vento cosmico, il senso delle vicende della storia, delle cose, del mondo, rimarrebbe irriducibile nella parola d’uomo, anche se essa dovesse gridare nel silenzio delle galassie, il senso del suo vivere rimarrebbe “nella fodera del mondo”: l’interpretazione della parola è infinita, inesauribile.

Un senso resiste nella parola

– Quando morirò, vedrò la fodera del mondo.
L’altra parte, dietro l’uccello, il monte e il tramonto del sole.
Letture che richiamano il vero significato.
Ciò che non corrispondeva, corrisponderà.
Ciò che era incomprensibile, sarà compreso.
Ma se non c’è la fodera del mondo?
Se il tordo sul ramo non è affatto un indizio
Soltanto un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
Si susseguono non curandosi del senso
E non c’è niente sulla terra, tranne questa terra?
Se così fosse, resterebbe tuttavia
La parola una volta destata da effimere labbra,
Che corre e corre, messo instancabile,
Verso campi interstellari, nel mulinello delle galassie
E protesta, chiama, grida.
(Da Le regioni ulteriori, in Czesław Miłosz, La fodera del mondo, Fondazione Piazzolla, Roma, 1966).

Iosif Brodskij, nell’introduzione alle sue poesie, scrive che Miłosz «è perfettamente consapevole del fatto che il linguaggio non è strumento di conoscenza, quanto piuttosto strumento di assimilazione in ciò che sembra essere un mondo chiaramente ostile, a meno che non venga utilizzato dalla poesia, che, sola, cerca di vincere il linguaggio nel suo stesso gioco, portandolo così il più vicino possibile alla conoscenza reale… la poesia di Miłosz libera il lettore dalle trappole psicologiche o puramente linguistiche, perché non risponde alla domanda «come vivere» ma a quella «per che cosa vivere» (C. Miłosz, Poesie, Adelphi, Milano 1985,12).

Un “Tu” che “libertà va’ cercando, ch’è sì cara”

Alla poesia

Perdonami, poesia, se fu una colpa prendere
questa voce di dolore, umana voce che da me si leva,
per la tua voce così dissimile da un garbuglio di lamenti
come una bianca onda marina da coralline paludi.
Tu, che sei l’abbozzo delle narici
di un cavallo non ancora nato, la forma ed il colore
della mela dissoltasi in polvere, le ali lampeggianti
della rondine che sfiorò il capo di Tiberio
in quel determinato punto dell’eternità,
spiegami, cosa significa dire “Tu”
alle cose, che non hanno altro linguaggio oltre al loro essere
ed esistono là dove finisce il tempo, lontano, lontano
dall’odio umano e dall’amore.
(C. Miłosz, dalla rivista Poesia, Anno XVIII, Dicembre 2005, n. 200).

Cercatori di libertà e senso sono pure gli stranieri. Per questo ricorda Miłosz «se fra voi verrà a stabilirsi uno straniero/ Accoglietelo affabilmente, perché non conoscete i boschi/ Per i quali correva bambino e non sapete pronunciare/ I nomi a lui cari – eppure ciò che è suo/ davvero anche vostro, benché nessuno lo sappia» (Poesie, Adelphi, Milano 1983, 82).

Selva Rudnicka: il cuore della poesia

Raggiungere il cuore della foresta è come raggiungere il cuore della poesia. È mai possibile – si domanda Miłosz – risalire all’origine e coglierne il senso vero? «La parola “selva” suscita oggi associazioni diverse rispetto a un tempo. Quelle dell’antica Polonia, per esempio, erano selve promiscue, con una prevalenza della quercia d’alto fusto, del tasso e del tiglio, e non avevano dunque molto in comune con gli esili pini che ne hanno presto il posto… La selva stimola l’immaginazione ed è fonte di immagini mitiche nella poesia di molti popoli» (Il cagnolino lungo la strada, Adelphi, Milano 2022, 221-222).

Così il suo pensiero va alla Selva Rudnicka: «Mi meraviglia quanto radicata fosse nell’immaginazione mia e – credo – di molti abitanti di Vilna la direzione sud, dove sorgeva la Selva Rudnicka. Era, questo, un grande complesso boschivo in mezzo al quale si estendevano terreni acquitrinosi – i cosiddetti rojsty difficilmente accessibili, dimora di urogalli e alci. La Selva aveva inizio al di là del lago Popis, dove una volta, nel giorno dei Santi Pietro e Paolo, andai con mio padre a caccia di anatre» (Abbecedario, Adelphi, Milano 2010, 211).

Ad ispirargli questa domanda sul cuore della foresta è stato il libro di Adam Mickiewicz Messer Tadeus che per i polacchi rappresenta l’epos nazionale, assunto a simbolo dell’essenza polacca. Nel testo la selva viene così descritta:

«Chi ha mai esplorato a fondo le terre smisurate delle selve lituane, chi mai le ha penetrate? Il pescatore a riva può soltanto intuire il fondo; il cacciatore gira intorno al giaciglio delle selve lituane, ne sa appena il contorno e il volto, però ignora gli arcani del suo cuore: solo favola o fama sanno quel che vi accade.

Se passassi le fratte di arbusti e la boscaglia incontreresti un vallo di tronchi e di ceppaie difeso da pantani, da rivoli a migliaia, reti di erbacce, mucchi di formicai e nidi di vespe e calabroni, grovigli di serpai. Se impavido avrai vinto anche quelle barriere ti dovrai aspettare pericoli maggiori… Vi si trovano i semi d’ogni albero e d’ogni erba, le cui specie si espandono dovunque sulla terra.

Là, come dentro l’arca, cresce almeno una coppia di bestie d’ogni razza, per la riproduzione. Nel centro (così dicono) regnano l’uro antico, l’orso e il bisonte, cesari assoluti dell’intrico. Annidati sugli alberi vigilano i ministri: la lince perspicace e il vorace ghiottone; più in là i loro sudditi, vassalli nobiliari: gli alci dalle gran corna, i lupi e i cinghiali. In alto aquile e falchi selvaggi, i delatori di corte che si nutrono alla mensa dei signori» (Messer Taddeo, Marsilio ed. Venezia 2018, 169-170).

Sono solo un bracconiere

“Solo favola e fama” sanno e narrano il segreto della selva, come a dire che solo i poeti sanno il cuore della poesia. Io mi accontento di fugaci sortite all’interno come un bracconiere, un cacciatore di frodo o anche come «un pescatore che sulla riva può solo intuire il fondo».

Vado cercando, qua e là parole in libertà, che dicano l’umano e il disumano insieme; vado mendicando senso, immaginazione pure anche per le mie parole logore, sbiadite perché tornino a vivere, si risveglino al sentire dentro, si trasformino al sentire d’altri:

«Nell’atto della scrittura – scrive Miłosz – ha luogo una singolare trasformazione: i dati immediati della coscienza, intesa come percezione di sé dal di dentro, si convertono nell’idea di altri individui identici, dotati di un’uguale percezione di sé dal di dentro. Questo fa sì che io possa scrivere di loro, non solo di me» (Il cagnolino lungo la strada, 35).

Più di tanto non mi inoltro nella selva dei poeti. Neppure raggiungo il cuore delle loro poesie, ma me ne nutro come fosse la manna nel deserto per il popolo in cammino. Ne prendo un poco perché basti per quel giorno, vado così ruminando parole e significati al modo con cui ho imparato a ruminare in me, come i Padri del deserto, la parola di Dio e le Scritture, provando a legare insieme vangelo, preghiera, spiritualità e letteratura.

In questi dieci anni papa Francesco spesso ha parlato dei poeti, dell’arte e della letteratura in particolare. Ed è del 17 luglio 2024 una sua Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione. «Alla luce di questa lettura della realtà, oggi il problema della fede non è innanzitutto quello di credere di più o di credere di meno nelle proposizioni dottrinali. È piuttosto quello legato all’incapacità di tanti di emozionarsi davanti a Dio, davanti alla sua creazione, davanti agli altri esseri umani. C’è qui, dunque, il compito di guarire e di arricchire la nostra sensibilità» (n. 22).

Ancor più che ammirato, consolato direi leggendo le parole lungimiranti di Czesław Miłosz che coglie in pieno il momento particolare che stiamo vivendo: «È un momento particolare nella plurisecolare storia della religione! La Provvidenza ha stabilito che si stemperasse la lama di sermoni e trattati teologici, e che per l’uomo intento a meditare sulle cose ultime non restasse altro strumento di conoscenza se non la poesia.

Quanti poeti hanno trovato una ragione al proprio lavoro in questa massima di Simone Weil: “L’attenzione, nel suo grado più elevato, e la preghiera sono la stessa cosa”. Così una civiltà dissacrante e dissoluta, oggetto di riprovazione da parte dei religiosi, è capace nella propria arte di recare il dono della fede (ivi, 44).

Poesia dell’attenzione o del come vivere

Miłosz ripropone il tema dell’attenzione in un altro libro: Abbecedario: «Attenzione significa un atteggiamento di premurosa benevolenza verso la natura e verso gli uomini, in virtù del quale scorgiamo ogni particolare di quel che accade intorno a noi, anziché passare distrattamente oltre…

Una simile disposizione d’animo, opposta rispetto alle consuetudini della civiltà della tecnica, con la sua fretta e i suoi rapidi flash televisivi, favorisce di certo anche l’interesse per la tutela della natura, giacché la mente si volge a ciò che esiste qui e ora.

La poesia contemplativa costituisce inopinatamente un contrappeso rispetto ai processi disgregativi in atto nella poesia e nell’arte in genere, reagisce cioè alla loro generale perdita di senso. E, si può dire, una sorta di resistenza che la spiritualità oppone al mondo a una dimensione.

Talvolta l’ispirazione è cristiana, più spesso buddhistica, ma non mancano i poeti che si richiamano a entrambe le religioni.

Malgrado l’enorme varietà di forme, la poesia dell’attenzione presenta determinate caratteristiche comuni, riconducibili al fatto che in tutte queste opere la finalità di chi scrive non è meramente estetica, ma è la stessa che ispira i grandi libri religiosi, nati per dare una risposta all’interrogativo: che cosa è l’uomo e come deve vivere?

La poesia dell’attenzione è affine a certi libri della Bibbia, cosiddetti sapienziali, come i Proverbi, l’Ecclesiaste, determinati salmi. Al contempo, contrariamente alla letteratura devozionale cristiana, di solito estranea ai cambiamenti di stile propri della cultura alta, essa partecipa di ciò che si definisce poesia contemporanea» (ivi, 44-45).

 Inter-esistere

Con la sua lettera papa Francesco forse ha voluto ridestare la passione per l’inter-esistere che è il cuore del vangelo e il segreto stesso della poesia. È ancora Miłosz a stupirmi: «Se tu fossi un poeta, vedresti chiaramente che su questo foglio di carta scorre una nuvola. Senza la nuvola non può esserci la pioggia; senza la pioggia gli alberi non crescono; e senza gli alberi non possiamo fare la carta. La nuvola è essenziale perché la carta esista. Se non c’è la nuvola, non può esserci neppure questo foglio di carta. Dunque possiamo dire che la nuvola e la carta inter-esistono.

Inter-esistere è una parola che non c’è ancora nel dizionario, ma se combiniamo il prefisso inter con il verbo esistere otteniamo un nuovo verbo, «inter-esistere» appunto. Se poi guardassimo più attentamente questo foglio di carta, potremmo scorgervi la luce del sole. Senza la luce del sole la foresta non potrebbe crescere. Niente in effetti potrebbe crescere. Nemmeno noi potremmo crescere senza la luce del sole. Così sappiamo che su questo foglio di carta c’è anche il sole. Carta e sole inter-esistono.

E se continuassimo a guardare, vedremmo il taglialegna che ha tagliato l’albero e l’ha portato alla cartiera perché fosse trasformato in carta. E vedremmo il grano. Noi sappiamo che il taglialegna non può vivere senza il suo pane quotidiano, e perciò sul foglio di carta c’è anche il grano con cui è stato fatto il pane.

E ci sono il padre e la madre del taglialegna. Se guardiamo in questo modo, capiamo che senza tutte queste cose il nostro foglio di carta non potrebbe esistere. Guardando ancor più attentamente, vedremmo che ci siamo anche noi. Non è difficile da comprendere: quando guardiamo un foglio di carta, il foglio è parte della nostra percezione. La tua mente è là dentro, come anche la mia. Dunque possiamo dire che su questo foglio di carta c’è tutto. Esistere significa inter-esistere. Non puoi esistere da solo, separatamente. Devi inter-esistere con tutte le altre cose» (ivi, 45-46).

Teologia e poesia: cosa aspettiamo?

I miei passi furtivi di bracconiere nella selva sono non senza timore. Dovrò mettere sempre più attenzione anche agli occhi guardinghi dei guardiacaccia. Ma è ancora una sorpresa chi può rinunciarvi?

«Teologia e poesia. Quanto vi è di più profondo, e di più intimamente sperimentato nella vita di ciascuno – caducità, malattia, morte, vanità di opinioni e convinzioni -, non può essere espresso nel linguaggio della teologia, le cui risposte, limate nell’arco di molti secoli, sono come sfere perfettamente lisce, facili da far rotolare ma praticamente impenetrabili.

La poesia del ventesimo secolo, nella sua componente più essenziale, è una raccolta di dati sulle cose ultime della condizione umana, ed elabora a tal fine un proprio linguaggio, che la stessa teologia può o meno utilizzare» (ivi, 47).

Il credere alla parola porta alla speranza come amore

La speranza c’è, quando uno crede
che non un sogno, ma corpo vivo è la terra,
e che vista, tatto e udito non mentono.
E tutte le cose che qui ho conosciuto
son come un giardino, quando stai sulla soglia.
Entrarvi non si può. Ma c’è di sicuro.
Se guardassimo meglio e più saggiamente
un nuovo fiore ancora e più d’una stella
nel giardino del mondo scorgeremmo.
Taluni dicono che l’occhio ci inganna
e che non c’è nulla, sola apparenza.
Ma proprio questi non hanno speranza.
Pensano che appena l’uomo volta le spalle
il mondo intero dietro a lui più non sia,
come da mani di ladro portato via.
(Poesie, 34)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
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PAESE REALE
di Piermaria Romani


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