L’utopia compagna della speranza
“Da un’economia che uccide a un’economia della vita”. Questo, in estrema sintesi, l’obiettivo del “Patto” per il futuro del mondo firmato dal papa ad Assisi con i giovani di The Economy of Francesco.
Si tratta di un gruppo di giovani economiste ed economisti, imprenditrici ed imprenditori, changemakers, studentesse, studenti, lavoratrici e lavoratori che hanno sottoscritto un documento finale riportato alla fine del testo.
Può sembrare un progetto utopico. Eppure abbiamo imparato da narratori, filosofi e teologi della speranza che utopia non è qualcosa di illusorio, una fuga, un fuori luogo che distoglie dalle responsabilità del presente.
L’utopia è come un seme di una pianta che non c’è ancora, ma che verrà. La città futura, la nuova Gerusalemme secondo l’Apocalisse, in cui si celebrerà una liturgia cosmica, nunziale, lo sposalizio tra cielo e terra.
L’utopia esprime un “altro possibile”. È quella voce minima, come la poesia, una contro parola in cui il tu diventa noi; voce e parola che, invocando il riconoscimento di un altro possibile, rompono la chiusura e liberano dall’estraniazione la realtà in cui il potere come dominio vuole confinarla.
È ancora utopia l’homo absconditus, che è presente in noi, ma non ancora nato. L’utopia è pure quella terra nuova, quel cosmo ed universo esterni e fuori di noi, ma che sentiamo in profondità come nostri, sentendo che noi apparteniamo a loro e senza di loro non possiamo vivere; la meta oltre ogni meta nel nostro cammino di umanità: «nulla è più umano di superare ciò che è» (E. Bloch [Qui]).
Utopia è ciò che domani potrà essere per far nascere quell’oeconomia abscondita, che ancora non c’è. L’utopia è dentro di noi come “coscienza anticipante” capace di precorrere, progettare e costruire – sin da subito − vie nuove, un cantiere in progress, aperto sul futuro.
Questa coscienza anticipante diventa così valico per superare e progredire oltre l’economia presente che ancora impoverisce, degrada o sopprime l’umano, per intravedere ed iniziare a disporre un’economia della vita, perché «pensare (sperare) significa oltrepassare»(E. Bloch).
Sotto questo profilo l’utopia è in compagnia della speranza: la più piccola di tre sorelle, direbbe Charles Peguy [Qui]. Ed invece, segretamente, essa è la più grande perché è lei che conduce le altre due.
È più grande di ogni paura perché conosce la strada. Ma è più grande anche della disperazione, perché la travalica o vi passa sotto. “Spes contra spem” dice Paolo, una speranza connessa a tutte le altre, piccole e grandi speranze sparpagliate sul pianeta che fanno rete e sono attratte da ciò che sperano, anche se ancora non si vede.
Pur essendo la più piccola delle tre sorelle, è la speranza che tiene per le mani l’utopia (la fede) e l’economia (la carità). Le fa avanzare. È lei che allarga la vita, dilata gli orizzonti dello sguardo e del cammino, dà consistenza e futuro all’utopia e all’economia, alla stessa fede e alla carità, scoprendo nuove vie che la paura e la malvagità umane avevano cercato di oscurare e proclamato impossibili da realizzare:
«La piccola speranza – dice Peguy – avanza tra le sue due sorelle grandi e non si nota neanche. Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada tra le due sorelle grandi, la piccola speranza. Avanza…
Ma la mia piccola speranza – dice Dio – è quella che io preferisco, essa dà il buongiorno al povero e all’orfano. La Fede è un grande albero, è una quercia radicata nel cuore della Francia. E sotto le ali di quest’albero la Carità, mia figlia, la Carità ripara tutte le desolazioni del mondo. E la mia piccola speranza non è altro che quella piccola promessa di gemma che s’annuncia proprio all’inizio d’aprile…
Quest’enorme avventura, come dopo un’ardente mietitura, la lenta discesa di una grande sera d’estate. Se non ci fosse la mia piccola speranza. È solo grazie alla piccola speranza che l’eternità sarà. E che la Beatitudine sarà. E che il Paradiso sarà. E il cielo e tutto. Perché lei sola, come lei sola nei giorni di questa terra. Da una vecchia veglia fa sprizzare un domani nuovo» (C. Peguy, I misteri, Jaca Book, Milano 1984, 167; 290; 348).
Jürgen Moltmann [Qui]. esponente della teologia della speranza, ha dichiarato ad un recente convegno: noi «non moriamo nella morte ma nella risurrezione».
La Teologia della speranza è stata la proposta cristiana che negli anni sessanta ha inteso proporre una visione del mondo ponendo al centro le questioni della giustizia e della pace per fare fronte e offrire una visione alternativa a quella dei totalitarismi di ogni matrice ideologica essendo «la speranza la più fondamentale forza di resistenza».
Economia, finanza e profezia
I giovani di molti paesi hanno aderito alla lettera invito del papa già nel 2019 precedendo il Papa ad Assisi. Come una giornata della gioventù di tre giorni, dal 22 al 24 settembre, per riflettere sulle alternative da offrire allo statu quo e pensare una nuova economia «amica della terra – come auspicato da papa Francesco − un’economia di pace».
Durante l’evento conclusivo, Francesco ha esortato a «mettere al centro i poveri», le due realtà, quella economica e la povertà, vanno di pari passo, ricordando che «fino a quando il nostro sistema produrrà scarti e noi opereremo secondo questo sistema», ne «saremo complici».
È molto chiaro con i giovani papa Francesco: «Oggi quasi parlare di economia sembra cosa vecchia: oggi si parla di finanza, e la finanza è una cosa acquosa, una cosa gassosa, non la si può prendere… State attenti a questa gassosità delle finanze: voi dovete riprendere l’attività economica dalle radici, dalle radici umane, come sono state fatte.
Voi giovani, con l’aiuto di Dio, lo sapete fare, lo potete fare; i giovani hanno fatto altre volte nel corso della storia tante cose. State vivendo la vostra giovinezza in un’epoca non facile: la crisi ambientale, poi la pandemia e ora la guerra in Ucraina e le altre guerre che continuano da anni in diversi Paesi, stanno segnando la nostra vita.
La nostra generazione vi ha lasciato in eredità molte ricchezze, ma non abbiamo saputo custodire il pianeta e non stiamo custodendo la pace… Voi siete chiamati a diventare artigiani e costruttori della casa comune, una casa comune che “sta andando in rovina”. Diciamolo: è così. Si tratta di trasformare un’economia che uccide».
La profezia va intesa come immaginazione anticipante e alternativa.
Così nel suo discorso papa Francesco ha apprezzato la scelta dei giovani di “modellare” l’incontro di Assisi sulla profezia, ricordando non solo la profezia di Francesco, ma come nella stessa Bibbia la profezia abbia a che fare con i giovani:
«Un’economia che si lascia ispirare dalla dimensione profetica si esprime oggi in una visione nuova dell’ambiente e della terra. Dobbiamo andare a questa armonia con l’ambiente, con la terra. Sono tante le persone, le imprese e le istituzioni che stanno operando una conversione ecologica.
Bisogna andare avanti su questa strada, e fare di più. Questo “di più” voi lo state facendo e lo state chiedendo a tutti. Non basta fare il maquillage, bisogna mettere in discussione il modello di sviluppo. La situazione è tale che non possiamo soltanto aspettare il prossimo summit internazionale, che può non servire: la terra brucia oggi, ed è oggi che dobbiamo cambiare, a tutti i livelli».
L’economia delle piante
Quanto mi piace papa Francesco quando prende ad esempio gli alberi nel contesto territoriale, culturale e spirituale della sua Querida Amazzonia. L’input stavolta gli è venuto mettendosi in ascolto dei giovani, apprezzando il lavoro da loro svolto sul tema economico nell’ultimo anno:
«In questo ultimo anno voi avete lavorato sull’economia delle piante, un tema innovativo. Avete visto che il paradigma vegetale contiene un diverso approccio alla terra e all’ambiente. Le piante sanno cooperare con tutto l’ambiente circostante, e anche quando competono, in realtà stanno cooperando per il bene dell’ecosistema.
Impariamo dalla mitezza delle piante: la loro umiltà e il loro silenzio possono offrirci uno stile diverso di cui abbiamo urgente bisogno. Perché, se parliamo di transizione ecologica, ma restiamo dentro il paradigma economico del Novecento, che ha depredato le risorse naturali e la terra, le manovre che adotteremo saranno sempre insufficienti o ammalate nelle radici.
La Bibbia è piena di alberi e di piante, dall’albero della vita al granello di senape. E San Francesco ci aiuta con la sua fraternità cosmica con tutte le creature viventi. Noi uomini, in questi ultimi due secoli, siamo cresciuti a scapito della terra. È stata lei a pagare il conto!
L’abbiamo spesso saccheggiata per aumentare il nostro benessere, e neanche il benessere di tutti, ma di un gruppetto. È questo il tempo di un nuovo coraggio nell’abbandono delle fonti fossili d’energia, di accelerare lo sviluppo di fonti a impatto zero o positivo».
E aggiunge anche che i danni fatti vanno poi riparati, la necessità di una riparazione è un principio di etica universale: «Se siamo cresciuti abusando del pianeta e dell’atmosfera, oggi dobbiamo imparare a fare anche sacrifici negli stili di vita ancora insostenibili. Altrimenti, saranno i nostri figli e i nostri nipoti a pagare il conto, un conto che sarà troppo alto e troppo ingiusto».
Non solo transizione ecologica
Non solo transizione ecologica, ma opzione preferenziale per i poveri.
Così Papa Francesco ha voluto sottolineare che la parola sostenibilità non va declinata solo a livello ecologico. La sostenibilità ambientale non è sufficiente per ridare equilibro e compensare le varie e molteplici forme di squilibrio generate dal sottosviluppo e dalla marginalizzazione sociale. Ecco perché dobbiamo intendere la sostenibilità come una parola a più dimensioni: sociale, relazionale ed ambientale.
«Quella sociale incomincia lentamente ad essere riconosciuta: ci stiamo rendendo conto che il grido dei poveri e il grido della terra sono lo stesso grido. Pertanto, quando lavoriamo per la trasformazione ecologica, dobbiamo tenere presenti gli effetti che alcune scelte ambientali producono sulle povertà».
Del pari, occorre fronteggiare una triplice “insostenibilità”: quella sociale, quella relazionale e la spirituale,
Dell’insostenibilità sociale già papa Francesco aveva scritto nell’enciclica Laudato si’, 49: «ci stiamo rendendo conto che il grido dei poveri e il grido della terra sono lo stesso grido».
Ed ora ad Assisi ricorda che «mentre cerchiamo di salvare il pianeta, non possiamo trascurare l’uomo e la donna che soffrono. L’inquinamento che uccide non è solo quello dell’anidride carbonica, anche la diseguaglianza inquina mortalmente il nostro pianeta.
Non possiamo permettere che le nuove calamità ambientali cancellino dall’opinione pubblica le antiche e sempre attuali calamità dell’ingiustizia sociale, anche delle ingiustizie politiche.
Pensiamo, per esempio, a un’ingiustizia politica; il povero popolo martoriato dei Rohingya [Qui] (un gruppo di fede musulmana in Myanmar Bangladesh), che vaga da una parte all’altra perché non può abitare nella propria patria: un’ingiustizia politica».
Insostenibilità nelle relazioni: «in molti Paesi le relazioni delle persone si stanno impoverendo. Soprattutto in Occidente, le comunità diventano sempre più fragili e frammentate. La famiglia, in alcune regioni del mondo, soffre una grave crisi, e con essa l’accoglienza e la custodia della vita. Il consumismo attuale cerca di riempire il vuoto dei rapporti umani con merci sempre più sofisticate — le solitudini sono un grande affare nel nostro tempo! — ma così genera una carestia di felicità».
Insostenibilità spirituale. Con molta chiarezza papa Francesco indica nel nostro capitalismo una insostenibilità spirituale, perché ha reso gli uomini cercatori di beni e ricchezze a tal punto da far loro dimenticare la fondamentale ricerca di senso dell’esistere; perdendo il senso si perde la speranza perché la vita non dipende dai beni che uno ha:
«L’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, prima di essere un cercatore di beni è un cercatore di senso. Noi tutti siamo cercatori di senso. Ecco perché il primo capitale di ogni società è quello spirituale, perché è quello che ci dà le ragioni per alzarci ogni giorno e andare al lavoro, e genera quella gioia di vivere necessaria anche all’economia.
Il nostro mondo sta consumando velocemente questa forma essenziale di capitale accumulata nei secoli dalle religioni, dalle tradizioni sapienziali, dalla pietà popolare. E così soprattutto i giovani soffrono per questa mancanza di senso: spesso di fronte al dolore e alle incertezze della vita si ritrovano con un’anima impoverita di risorse spirituali per elaborare sofferenze, frustrazioni, delusioni e lutti».
Tre indicazioni di percorso per andare avanti
*Guardare il mondo con gli occhi dei più poveri; *non dimenticatevi del lavoro, non dimenticatevi dei lavoratori. *Incarnazione: nei momenti cruciali della storia, chi ha saputo lasciare una buona impronta lo ha fatto perché ha tradotto gli ideali, i desideri, i valori in opere concrete. Cioè, li ha incarnati.
Anche con questo discorso papa Francesco si è rivelato “il pastore degli sguardi”. Lo sguardo dice inizio e rilancio di una relazione, è l’utopia di ciò che non c’è ancora.
Così il suo invito è quello di provare a ideare un modello economico ispirandosi a Francesco d’Assisi, al suo sguardo di sposo innamorato di Madonna Povertà che lo ha condotto e converso con i poveri (conversatio cum pauperibus). Nei poveri egli ha visto e incontrato Dio: perché Dio sta dalla parte dei poveri e ne condivide le sorte e le loro speranze.
Di più: egli si nasconde in loro come sorgente di insopprimibile e inestinguibile di speranza. Occorre pertanto guardare a loro e «a partire da essi guardare l’economia, a partire da essi guardare il mondo». Se manca la stima, la cura e l’amore per ogni persona povera, per ogni persona fragile e vulnerabile, non c’è “Economia di Francesco”.
Anzi: «un’economia di Francesco non può limitarsi a lavorare per o con i poveri. Fino a quando il nostro sistema produrrà scarti e noi opereremo secondo questo sistema, saremo complici di un’economia che uccide». Così non solo i poveri ma per Francesco anche la povertà è da stimare se non da amare.
La via da seguire è dunque quella di «creare ricchezza senza disprezzare la povertà. Il nostro capitalismo, invece, vuole aiutare i poveri ma non li stima, non capisce la beatitudine paradossale: “beati i poveri” (cfr. Lc 6, 20).
Noi non dobbiamo amare la miseria, anzi dobbiamo fronteggiarla, anzitutto creando lavoro, lavoro degno. Ma il Vangelo ci dice che senza stimare i poveri non si può combattere nessuna miseria».
“Noi, giovani chiamati qui ad Assisi da ogni parte del mondo,
consapevoli della responsabilità che grava sulla nostra generazione,
ci impegniamo ora, singolarmente e tutti insieme, a spendere la nostra vita affinché l’economia di oggi e di domani diventi una Economia del Vangelo.
Quindi: un’economia di pace e non di guerra,
un’economia che contrasta la proliferazione delle armi,
specie le più distruttive,
un’economia che si prende cura del creato e non lo depreda,
un’economia a servizio della persona, della famiglia e della vita, rispettosa di ogni donna, uomo, bambino, anziano e soprattutto dei più fragili e vulnerabili,
un’economia dove la cura sostituisce lo scarto e l’indifferenza,
un’economia che non lascia indietro nessuno, per costruire una società in cui le pietre scartate dalla mentalità dominante diventano pietre angolari,
un’economia che riconosce e tutela il lavoro dignitoso e sicuro per tutti, in particolare per le donne,
un’economia dove la finanza è amica e alleata dell’economia reale e del lavoro e non contro di essi,
un’economia che sa valorizzare e custodire le culture e le tradizioni dei popoli, tutte le specie viventi e le risorse naturali della Terra,
un’economia che combatte la miseria in tutte le sue forme, riduce le diseguaglianze e sa dire, con Gesù e con Francesco, “beati i poveri”,
un’economia guidata dall’etica della persona e aperta alla trascendenza,
un’economia che crea ricchezza per tutti, che genera gioia e non solo benessere perché una felicità non condivisa è troppo poco.
Noi in questa economia crediamo. Non è un’utopia, perché la stiamo già costruendo.
E alcuni di noi, in mattine particolarmente luminose, hanno già intravisto l’inizio della terra promessa.
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Andrea Zerbini
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