Presto di mattina. Nel giardino dei Salmi
Come sarà incontrare Cristo nei Salmi? Per quali sentieri raggiungerlo? Quali segni e personaggi ci guideranno per arrivare a riconoscere e ad accogliere Lui, in quella raccolta di suppliche e ringraziamenti, desolazioni e consolazioni, notti e giorni mirabilmente intessuti dalla fede di Israele, che va sotto il nome del re Davide, figura e tipo del Re Messia?
Preghiere da subito raccolte dalla Chiesa delle origini quali irrinunciabili parole per la sua liturgia della lode, da intrecciare alla stessa liturgia eucaristica.
È il Cristo stesso che ricorda ai due discepoli di Emmaus che le Scritture, i Profeti e i Salmi parlano di lui (Lc 24, 44).
Incontrare Cristo nei Salmi sarà come incontrarlo in un giardino; sì, proprio così, sarà come incamminarsi per i sentieri di un giardino, quello del mattino di Pasqua, dove Maria di Magdala dapprima lo scambiò per il custode ma poi lo riconobbe come il suo Maestro (Rabbuni).
Non dice forse s. Atanasio, scrivendo a Marcellino sulla intelligenza dei Salmi, che questo libro «è come un giardino che contiene i frutti di tutti gli altri libri e mentre dà a questi lo squisito sapore della poesia, ve ne aggiunge pure dei propri»?
Lo Pseudo Macario, nelle sue Omelie spirituali, mettendo in guardia il cristiano sulla sua terra interiore, perché non sia priva di un contadino che la lavori, non esita ad indicare il Cristo come l’Ortolano celeste, che coltiva il giardino dello Spirito, e Thomas Eliot ci ricorda che, insieme al Cantico dei Cantici, il Salterio è Giardino dei simboli ed a coloro che vi si incammineranno sarà concesso di sentire la stessa Parola di Dio parlare di se stessa e del suo mistero.
Stella pomposiana
Una volta mi trovavo nell’abbazia di Pomposa, guardando il catino absidale con l’affresco del Cristo Pantocrator. Il Cristo, seduto nel trono della sua gloria, è racchiuso in una mandorla con i colori dell’arcobaleno in un cielo stellato. Lo sguardo vi cercava una via d’accesso, un orientamento tra le stelle per farsi più vicino, più intimo a quella visione.
Così spostandosi dal centro della navata verso quella di destra, lo sguardo vi scorse dipinta sulla colonna una stella ad otto punte già vista nelle ceramiche del nartece: la stella con la scritta tra raggio e raggio: P o m p o s i a.
Pensai, il Cristo ai viandanti che lo cercano si fa precedere ancora una volta da una stella. Sotto di essa intravidi come un ingresso simile a una grotta; anzi a guardare bene era un portale da cui, oltre la soglia, si vedeva un albero sbiadito ma carico di frutti.
Pensai subito che fosse l’ingresso di un giardino, il giardino del salterio, quello che tra le mura di Pomposa i monaci, per molti anni, avevano coltivato intrecciando melodie e salmi, l’hortus conclusus del Cantico dei cantici (4,12), il luogo più intimo che c’è, quello dell’amore.
Da quella porta idealmente sono risalito al catino absidale ed ho scorto così un angelo con un cartiglio in cui era scritto: «Beati gli occhi di coloro che vedono quello che voi guardate!».
Dal Padre nostro ai salmi: una via alle beatitudini del monte
San Romualdo fondatore di Camaldoli, che fu monaco nelle nostre valli, nel Pereo all’inizio del secondo millennio cristiano, ricordava a Bruno di Querfurt e ai suoi cinque monaci che i salmi sono l’unica strada per fare esperienza di una preghiera veramente profonda: “Una via in psalmis” che conduce all’unione con Cristo al “donum lacrimarum” e al “privilegium amoris”.
Se i salmi sono il giardino della Bibbia, la preghiera del Pater noster è nel giardino il luogo più segreto, la fonte sorgiva, il senso profondo e compiuto di tutte le parole contenute nelle Scritture antiche e nuove.
Scrive s. Agostino: «Se passi in rassegna tutte le parole delle sante invocazioni contenute nella Scrittura, non troverai nulla, a mio parere, che non sia contenuto e compreso nel Padre nostro. Chi dice: “Come ai loro occhi ti sei mostrato santo in mezzo a noi, così ai nostri occhi mostrati grande fra di loro” (Sir 36, 3) e: I tuoi profeti siano trovati pii (cfr. Sir 36, 15), che altro dice se non: “Sia santificato il tuo nome”?
Chi dice: “Rialzaci, Signore nostro Dio; fa` risplendere il tuo volto e noi saremo salvi” (Sal 79, 4), che altro dice se non: “Venga il tuo regno”?
Chi dice: “Rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male” (Sal 118, 133), che altro dice se non: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”?
Chi dice: “Non darmi né povertà né ricchezza” (Pro 30, 8), che altro dice se non: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”?
Chi dice: “Ricordati, o Signore, di Davide, di tutte le sue prove” (Sal 131, 1) oppure: “Signore, se così ho agito, se c’è iniquità nelle mie mani, se ho reso male a coloro che mi facevano del male, salvami e liberami” (Sal 7, 1-4), che altro dice se non: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?
Chi dice: “Liberami dai nemici, mio Dio, proteggimi dagli aggressori” (Sal 58, 2), che altro dice se non: “Liberaci dal male”?
Si deve cercare la vita beata e chiederla al Signore Dio. In che consista l’essere beato è stato discusso a lungo da molti con motivazioni diverse. Ma non è necessario ricorrere a tanti autori e a tante trattazioni. Nella Sacra Scrittura è stato detto tutto con poche parole e con piena verità: “Beato il popolo il cui Dio è il Signore” (Sal 143, 15).
Per appartenere a questo popolo e arrivare a contemplare Dio teniamo presente questo: “Il fine del precetto è la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” (cfr. 1 Tm 1, 5)», (Lettera a Proba, 130, 12-13).
Nei salmi l’umanità è benedetta: canta l’amore
«Il suo amore è per sempre» : Sal 136 (135); 118 (117); 107 (106); 100, (99).
Agostino sentiva in tutti i salmi le voci degli uomini e delle donne delle beatitudini che esultavano e che gemevano, che si allietavano nella speranza o che sospiravano un’umanità nuova.
Per Ambrogio il salterio è una benedizione e ne indica l’efficacia: «Mitiga l’ira, libera dalle sollecitudini, solleva dalla mestizia. È protezione nella notte, istruzione nel giorno, scudo nel timore, festa nella santità, immagine di tranquillità, pegno di pace e di concordia che, a modo di cetra, da voci molteplici e differenti ricava un’unica melodia.
Il salmo canta il sorgere del giorno, il salmo ne fa risonare il tramonto. Nel salmo il gusto gareggia con l’istruzione. Nello stesso tempo si canta per diletto e si apprende per ammaestramento. Che cos’è che non trovi quando tu leggi i salmi?
In essi leggo: “Canto d’amore” (Sal 44, 1) e mi sento infiammare dal desiderio di un santo amore. In essi passo in rassegna le grazie della rivelazione, le testimonianze della risurrezione, i doni della promessa. In essi imparo ad evitare il peccato, e a non vergognarmi della penitenza per i peccati» (Commento sui salmi, Sal 1, 9-12).
Basilio, che ha ispirato con le sue omelie lo stesso s. Ambrogio e s. Agostino, ne elenca i pregi: «Il salmo è tranquillità dell’anima, arbitro di pace, allontana il tumultuare e l’ondeggiare dei pensieri. Reprime infatti l’ira dell’animo, corregge e modera la sfrenatezza. Il salmo concilia l’amicizia, riconcilia coloro che sono separati, dirime, le inimicizie.
Chi infatti può ancora ritenere come nemico colui col quale ha elevato a Dio un unico, comune canto? Così la salmodia procura anche il massimo dei beni, l’amore, in quanto introduce l’uso del canto comune, come una specie di vincolo di concordia, e in quanto fonde armoniosamente la moltitudine nella sinfonia di un solo coro…
È scudo nei timori notturni, è pausa nelle fatiche diurne; è sicurezza dei fanciulli, ornamento di coloro che sono nel fiore dell’età, consolazione ai vecchi. È l’ornamento per le donne; rende abitabili i deserti, modera le comunità umane. È la base per coloro che muovono i primi passi sulla via della perfezione, incremento di coloro che progrediscono in questo cammino, sostegno di coloro che giungono alla meta» (Omelie sui salmi, Paoline, alba 1978,39-40).
La fede si fa canto e la preghiera si fa poesia in un dialogo senza fine
«I salmi sono espressione poetica di esperienze religiose» ci ha ricordato il biblista Alonso Schökel. La poesia dei salmi è trasformare l’esperienza religiosa in parola che canta o che grida, che supplica o che ringrazia, che attende, che cerca e che trova, che abbassa e che rialza, una parola che è attraversata dal dolore e dal dubbio ma che va sempre oltre, oltre la morte.
I salmi creano così consapevolezza di sé e consapevolezza dell’altro, del mondo dentro e di quello fuori, del cielo e della terra; è il loro movimento dentro e fuori, in alto e in avanti. Ogni salmo è come il continuo ribalzo di una spola sul telaio, un gioco di alternanze dall’io al tu e al noi che genera relazione tenendo insieme, accorpando un filo ad un altro filo.
È come un ritornare su di sè e poi ancora volgersi verso l’altro, come una tessitura della propria con la vita d’altri: «Comprendere e spiegare i salmi è soprattutto comprenderli e spiegarli come espressione di esperienze religiose. Se puntiamo lo sguardo al fine, Dio, i salmi interpellano; se guardiamo all’orante, i salmi esprimono. Così distinguiamo questo corpo letterario dalla profezia, nella quale Dio interpella l’uomo; e dalla storia, che è primariamente informazione.
È vero che ogni parola di Dio all’uomo lo interpella; anche i salmi, come parola ispirata. Ma all’interno di questo valore generale, i salmi hanno uno statuto proprio. Come portatori dello Spirito, mettono in grado l’uomo di rivolgersi validamente a Dio, in spirito e verità. I salmi sottolineano il ruolo di protagonista dell’uomo» (A. Schökel, Trenta salmi: poesia e preghiera, Dehoniane, Bologna c1982, 20).
Essi sono testimoni nel tempo e nello spazio di una esperienza vera, di una storia di storie, luogo di libertà che si donano, attestano infatti la reale possibilità di incontrare Dio come l’altro della propria vita e noi della sua:
«Diciamo che l’esperienza è vera, quando raggiunge veramente un termine reale; ossia, l’esperienza non è puramente immanente; tende realmente ad un termine estrinseco ad essa; non è pura illusione, perché in qualche modo raggiunge ciò verso cui tende. Colui che attualmente, recitando un salmo, raggiunge realmente il vero Dio, lo adora in spirito e verità» (ivi, 24).
Il Cristo, cantore dei Salmi
È Lui il mirabile cantore dei salmi, dice s. Agostino. Egli canta per sé e per ciascuno di noi e per ogni uomo e ogni donna che viene in questo mondo. Egli, a dodici anni, sale a Gerusalemme cantando i salmi delle ascensioni e di pellegrinaggio, il salmo 122 (121): «Chiedete pace per Gerusalemme… Sopra di te scenda la pace… e chiederò “venga su di te il bene”».
Quando si fa commensale con i suoi il Cristo canta l’Hallel pasquale dei salmi 114 (113)–118 (117), che dice la speranza presente dentro la storia, e che si compirà andando oltre, in una nuova storia. Nell’ultima cena il canto diventa la sua stessa vita, l’amoroso transito significato nel segno del pane spezzato dato ai suoi e per tutti: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (Mt 26,30 = Mc14,26).
I versetti centrali del grande Hallel [166 (114-115), 9-8] dicono il motivo del canto e della lode: «Sì, mi hai strappato la vita alla morte, mi hai terso gli occhi dal pianto, trattenuto il piede dal precipizio. Così avanzerò alla presenza di Dio nei campi della vita».
In croce, sul suo intimo tormento, il Cristo silenziosamente fa scendere il salmo 22 (21), 2: «Élôï, ÉIôï, lama sabachthani!/ Dio mio, Dio mio, perché, ma perché mi hai abbandonato?». Ma l’ultimo salmo lo dirà a modo suo: poche parole come un cartiglio di foglie secche inframezzate al vento, spirando il suo spirito: «Alle tue mani affido il mio spirito».
Fanno parte del salmo 31 (30), parole di colui che prega nella prova; «Mi affido alle tue mani; tu mi riscatti, Signore, Dio fedele… hai conosciuto le mie angosce; non mi hai consegnato nelle mani del nemico, hai guidato al largo i miei passi… Ma io confido in te, Signore; dico: “Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono i miei giorni”».
Senza dimenticare poi il salmo 10: «Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi? Il misero soccombe all’orgoglio dell’empio e cade nelle insidie tramate… Eppure tu vedi l’affanno e il dolore, tutto tu guardi e prendi nelle tue mani. A te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei il sostegno».
La liturgia dei salmi è come un bacio
Così i salmi pregati nella liturgia delle ore costituiscono il contesto vitale, credente di chi li ha scritti e tramandati, nel susseguirsi delle generazioni di un popolo, forgiati pure nell’abbraccio con la poesia, il canto e la preghiera degli altri popoli del vicino Oriente e pure di chi continua a proclamarli ed a pregarli anche oggi.
Questo perché essi comunicano l’esperienza stessa di una vita che si lega in alleanza, che cerca l’incontro e viene interpellata a corrispondere, un fare strada insieme per aprire spazi di comunicazione, solidarietà, amorevolezza e comunione.
Così nei salmi si intrecciano il desiderio di Dio stesso di parlare agli uomini come ad amici: «Ascolta, popolo mio… Sono io il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto; apri la bocca e io la riempirò» [Sal 81 (80), 9-11] con il desiderio dell’uomo di ricevere dentro di sé, per custodire nell’intimo e non solo all’udito, le parole di Dio: «Apro anelante la mia bocca, perché desidero le tue parole» [Sal 119 (118),131] e ancora: «Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode» [Sal 51 (51),17].
Di Mosè è detto che Dio parlava con lui bocca a bocca e che finì proprio bene i suoi giorni, perché morì nel bacio di Dio, così narra il midrash della sua morte. Nel simbolismo della bocca è la totalità dell’uomo che si rapporta alla totalità veniente dell’altro: significa l’attuarsi del dono e dice pure la sua dimensione costitutiva che è l’essere in relazione, desiderio: mai senza l’altro. Attraverso l’immagine della bocca è la relazionalità dialogica e amorosa che viene alla luce e si irradiata.
Così nel simbolo della bocca-soglia, passaggio, viatico alla parola, si esprimono le dimensioni vitali di ogni persona, quella comunicativa, nutritiva e affettiva. «Mi baci con i baci della sua bocca!»: questo desiderio sta proprio all’inizio del Cantico dei cantici e il termine greco philesáto me e osculetur me della Nova Vulgata, con cui si apre il desiderio della Sulamita, sembra avere qui il senso di una realizzazione immediata e piena del desiderio: «Mi baci subito» (Ct 1,2), un ardente desiderio di unione, non solo proprio dell’amore umano, ma, in modo indicibile, dell’amore mistico.
Il salmo 63 (62) è detto infatti canto dell’amore mistico e così lo traduce David Maria Turoldo: «Dio, Dio mio, o amato Signore, solo te fin dall’alba desidero, il mio essere ha sete di te, per te spasima l’anima mia come arida terra riarsa… le mie labbra per questo ti cantano… A te l’esser mio si stringe, in tua destra è il mio sostegno».
Scrive la teologa e liturgista Morena Baldacci «Baciare qualcuno, baciare un oggetto, abbracciarsi, scambiarsi un bacio, sono riti che accompagnano il nostro vivere quotidiano, ma anche il nostro celebrare cristiano… nelle favole il bacio è in grado di ridonare la vita, di spezzare incantesimi o di trasformare i rospi in principi, anche nella realtà il bacio è pegno sicuro di speranza e di ogni trasformazione!
Nella poesia di David Maria Turoldo, il bacio narra il dramma della lotta tra la morte e la vita, respiro dato e respiro tolto… La liturgia [e così pure quella del salterio] si fa maestra e guida degli affetti: li alimenta e al tempo stesso li contiene, li illumina e purifica, li accende e li eleva, preserva quel delicato confine tra l’esternazione e il riserbo, educando così al giusto rispetto dell’intimità. La liturgia è come un bacio…» (in: Donne, Chiesa, Mondo, mensile de L’Osservatore Romano, n. 124, luglio 2023, 32-33).
«Con i baci che imparai dalla tua bocca
le mie labbra impararono a conoscere il fuoco»
(Pablo Neruda)
«Mi baci con i baci… ». Ma è con il bacio
che Egli il suo respiro di nuovo si prende:
il respiro che alitando bocca a bocca
ti rese «persona vivens», lassù …
Da quella vetta dunque inizia
la grande Contesa
e Morte con Amore convive.
E tu hai solo una scelta:
aspirare il suo alito
con la stessa passione…
(David Maria Turoldo, Canti ultimi, Garzanti, Milano 1991, 199).
Che amare attese, che pianti!
Ma ora ho sentito il tuo lungo
bacio e le nostre carezze ai capelli
non più scomposti dal vento:
l’erba era così dolce, la corteccia
degli alberi quasi carne.
Allora mi prende la danza dei gesti assurdi
e bacio le pietre, la patena, il libro
delle tue parole; a volte, disteso al suolo,
il corpo si fonde in unica realtà con la terra.
E paure e speranza m’invadono che tu parli
e insieme non parli; e sempre
frangendo il pane sgomento m’assale
di veder sangue colare sui lini.
(Id., O sensi miei…Poesie 1948-1988, Rizzoli 1997, 234; 319).
Nel testo foto dell’Autore
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