Presto di mattina. Natale invocazione d’identità
Natale, ricerca d’identità
Il Natale è come un seme, semente di una identità data, compiuta in sé e tuttavia di nuovo principiante, luce nascente verso un’identità a venire. Il Seme di luce adagiato da Maria sulla nostra terra scura è qui ora, e non altrove, ancora tirocinante della luce, in cerca di quel passante promesso: la sua e nostra Pasqua di luce. In ogni maternità/identità che volge al termine, che si compie; in ogni parola proferita, detta, se ne concepisce e germoglia una nuova, incamminata verso un ulteriore compimento.
Così fin dal suo nascere, la luce è precorritrice e compagnia nel viaggio alla ricerca di un di più di coscienza di sé, rivelatrice di un’eccedenza insperata eppure attesa d’identità che la rende una fissità in movimento, identità in trasformazione, radicata e, al tempo stesso, in espansione.
L’identità di colui che è nato a Betlemme e la nostra stessa identità si svelano attraverso un processo di relazione che si origina nell’incontro, in un’alternanza dall’io al tu, al noi, di progressione e regressione, sosta e ripresa fatta di luci ed ombre che oscurano o rivelano, mortificano o accrescono sempre di nuovo la coscienza della nostra identità.
Un viaggio terreste e celeste, suggerisce Mario Luzi in un suo testo poetico (Il viaggio terreste e celeste di Simone Martini, Garzanti, Milano 1994). Come quello di un seme in cerca del suo fiore, del suo frutto, è infatti quell’itineranza che fa anche di noi cercatori della luce, quella scaturita da una pienezza di amore: «fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).
Così l’incontro con la terra, l’aria, l’acqua, nonostante la trascuratezza e il disamore degli uomini, a contatto con la pioggia, il sole, la neve, il freddo e il caldo, in profondità e altezza, in lunghezza e larghezza fanno del seme brunito e introverso una spiga tra spighe lucenti estroverse ondulanti nel vento. «E Gesù diceva: “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga”, (Mc 4,27-28).
Sempre di sostanza in sostanza
dove la sorte ci precorse o il numero,
la legge o la necessità diffusa,
fummo la fissità nel movimento,
identità soggiunta a identità,
tempo nel tempo vivendo.
Ed i giorni rinascono dai giorni
l’uno dall’altro, perdita ed inizio,
cenere e seme, identità nel cielo.
Solo a volte ne esorbita un pensiero
come palla lanciata troppo in alto
non ritorna, sparisce nella gronda.
(Mario Luzi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, 181; 182).
Il percorso poetico di Mario Luzi (1914-2005) può essere immaginato come il venire alla luce di una semente gettata nella terra e chiusa ermeticamente nel suo guscio, ben protetta nella sua resistente pelle, ma poi costretta ad uscir fuori dal richiamo di forze amiche: «da forze buone, miracolosamente accolti che attendono confidenti qualunque cosa accada» (D. Bonhoeffer), non senza smarrimenti di sentieri entro l’intricata foresta del vivere nel mondo.
Natività, invocazione d’identità
E m’inoltro sospeso, entro nell’ombra,
dubito, mi smarrisco nei sentieri.
E nel ceppo non so che avviene, rigido
nel vortice di foglie macerate
e divise dai rami e dalla terra.
…
È la nostra foresta inestricabile,
ascoltane le foglie vive, i brividi
e la remota vibrazione, il timbro
d’arpa di cui percuotano le corde.
E questa la foresta inestricabile
dove cadono i semi, dove allignano,
genti che cercano il sole, viluppi
ciechi prima di attingere la luce,
prima di giungere al vento repressi.
Vieni tu portatrice di colori,
tentane con le mani caute i pruni,
estirpa i rovi, medica le scorze,
ma ferisciti, sanguina anche tu,
soffri con noi, umiliati in un tronco.
…
Che vuoi dirmi ancora, ancora farmi conoscere?
Chiuso nella sua pelle d’ombra
molto, è vero, deve finire
ma altro sgranarsi in pieno sole.
(ivi, 179-180; 492).
È da questo sprofondo avviluppato, cieco, chiuso nel legno, luogo di sementi cadute, di radicate genti, è nell’ombra scura, magmatica e vorticosa del reale che scaturisce il desiderio della luce, invocazione pure perché dispieghi i suoi colori a trasformare uno schizzo in paesaggio, l’abbozzo in un’immagine in movimento.
Se da un lato la poesia di Luzi è una discesa nell’abisso della realtà umana e delle sue storie disumane sino a incontrare il non senso, il patire e le angosce disperanti nondimeno, in modo simile, si aprono in essa brecce tra queste dure zolle, interstizi e fessure in cui entra la luce a schiarire le parole assimilate, sedimentate e oscurate poi nella memoria.
Così la discesa si muta in ascesa, da terrestre diviene celeste: sussulto, zampillo di luce è quel principiare ancora creativo, un’onda di luce che porta su in superfice parole finite, dimenticate che nel venire di un soffio di luce ridestano ancora senso e movimento, si sgranano e si riaggregano in altri pensieri e suscitano un altro sentire, uno sguardo altro in noi e fuori di noi.
L’identità come la poesia è fiotto di luce sgorgante dall’oscurità della coscienza rappresa, resa nuovamente ospitale ad una nuova natività.
Come la parola poetica così l’identità non è data una volta per sempre, ma rimane possibilità in divenire, creatività risorgente, infinita, di nuovo dono e conquista anche drammatica della luce sull’ombra. Essa srotola la sua raggiante oscurità, parola dopo parola, luce da luce, essa porta ad ampliare la verità su se stessi, sugli altri, sul reale come aurora risorgente dall’oscurità.
Identità aperta all’inverarsi e al trasalire del mistero
Chi sei? non so, ma certo qualcuno come te m’apparve altrove
in lembi di città visti e perduti
dietro un velo di pioggia o sotto un cielo
diviso tra una nuvola e un sorriso.
E silenzio e clamore d’un popolo che lotta ti fa ala.
(ivi, 251).
Ai versi di Mario Luzi fanno eco le parole di Giovanni Battista al Giordano che viene interrogato da scribi e farisei: «“Chi sei tu?”. Egli confessò e non negò, e confessò: “Io non sono”» e annuncia loro: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”» (Gv 1,19; 26).
Giovanni e Gesù: l’Avvento e il Natale, la Voce e la Parola, la Lampada e la Luce, il precursore e la Via, l’Acqua e lo Spirito del battesimo, l’amico dello sposo e lo Sposo, il profeta e il Messia: vite in relazione, identità nascenti e convergenti, svelamento d’identità ignote, identità corrispondenti nel vincolo di un medesimo martirio di amore:
«Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,33-34).
Così scoprendo l’identità del Figlio amato, il Battista scopre la sua identità e missione in relazione al Cristo. È il testimone della luce, e al tempo stesso indica presente nel mondo la luce dell’Agnello (Ap. 21, 23). «Fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!» (Gv 1, 36) colui che strappa la tenebra dell’empietà, ed è venuto alla luce nell’“anteluce” del mondo direbbe Mario Luzi:
Fermo nell’anteluce
Immane
sopra di lui quel blocco
d’attesa e di silenzio,
gradinato dal suo verso,
scalato dal suo canto.
Non ha limite. Sempre
gli si riforma intorno, cresce
a dismisura, cuba quella montagna.
Non c’è nota così alta
che tutta la sormonti.
Storia dell’uomo
scesa tutta quanta
al seme, inclusa nell’ embrione
della sua doppia potenza –
Covano
male e bene
muti
in sospensione, all’incrocio degli eventi.
(Luzi, Il viaggio terreste e celeste, 32).
Chi sei tu?
Luce s’illuminò da luce,
fu ogni oscurità, la mia non meno,
abbagliata fino a quando … oh verità …
(ivi, 121)
“Sono colui che sarà”. È questa la risposta dell’apostolo Giovanni circa l’identità: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2). Sarà la stessa identità ricordata da Paolo svelando il grande mistero della vera religiosità in una lettera a Timoteo: immagine e somiglianza a Colui che
Fu manifestato in carne umana
e riconosciuto giusto nello Spirito,
fu visto dagli angeli
e annunciato fra le genti,
fu creduto nel mondo
ed elevato nella gloria.
(1Tm 3, 16)
“Ma voi, chi dite che io sia?”
L’identità nostra è come un sussulto sussultorio: inveramento e trasalimento di luce. Come l’alba fatica a nascere avviluppata e stretta nel buio grembo della notte che la trattiene al nascere, tutti aspettano il mutamento delle sorti, il miracoloso avvento al venire della luce: le genti insonni nei loro luoghi e il paesaggio, cime e precipizi, attendono il venire della luce nuova, luce vera «quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).
Alba, quanto fatichi a nascere!
stretta
al suo nero impedimento,
non vuole tu ti sciolga
la notte
dal suo buio grembo.
O sono io non pronto
ancora
al tuo miracoloso avvento …
Ti aspettano con me –
lo sento – i profili montuosi,
le cime,
I precipizi
Ti tiene
alcuno
del luogo e della mente
nella plebe degli insonni
e anche
nelle gallerie dell’anima
…
e le acque
che aprono
il loro borbottio notturno
a un più vetrato
e cristallino canto
e gli uccelli
che smaniano e non tengono
nella gorga il loro verso,
tutti,
alba, ti aspettiamo
sapendo e non sapendo
quel che porterai con te
nella tua ripetizione antica
e nel tuo immancabile
antico mutamento.
(ivi, 95-96).
Una risposta attende ancora
La luce attende una luce, la mia. Risposta non d’altri, ma nostra, proprio e solo nostra. È questa che manca ancora. È quella che sola ci farà davvero pronti al suo miracoloso avvento. Egli oggi non può parlare ancora – La Parola è senza parole, solo silenzi, vagiti nel pianto e nella gioia abbracciato – in tutto simile a noi, eccetto la violenza che mortifica e spegne la luce che vive nei fratelli e nelle sorelle, il male oscuro che sfigura e dissolve la primitiva immagine dell’identità nostra.
Ma vi è stato un giorno narrato nel vangelo pieno di domande e risposte, così ricorda l’evangelista Marco: «Gesù saliva a Gerusalemme, là dove un centurione, un pagano sotto la croce, avrebbe riconosciuto la luce più segreta e più intima della sua identità di Unigenito: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (Mc 8,27-30).
Non basta la risposta d’altri. Nemmeno quella di Pietro che parla a nome di tutti. Per balbettante o silenziosa che sia occorre dare una risposta anche ora, per non rendere finita un’identità infinita, come quella di un bambino appena nato: almeno due mani protese, due occhi stupiti e lieti e pur increduli di fronte l’ignoto, allo straniero che è venuto alla luce, luce da luce ai nostri sguardi rapiti.
Come ceri vacillanti tra due abissi
Sì, una risposta è attesa, che potrà essere anche lunga come un viaggio tra due abissi, terreste e celeste, non importa quanto, e in questa itineranza si sta “come cero vacillante tra due mondi”.
L’espressione è di Marie Nöel scrittrice e poetessa francese praticamente sconosciuta in Italia; nata nel 1883 e morta il 23 dicembre 1967; amica e sorella degli animi turbati dal dubbio, segnati da un’incredula fede di fronte al mistero di Dio e quello inquietante e drammatico della condizione umana.
«Quando Dio ha soffiato sul mio fango per infondergli la mia anima, Egli ha certo soffiato troppo forte. Non mi sono mai ripresa da questo soffio di Dio. Non ho mai cessato di tremare come un cero vacillante tra due mondi… Galleggiare nell’ombra come uno che è per metà affogato e che, di tanto in tanto, riemerge in superficie. E mi riafferro come posso agli sparsi relitti della mia fede» (Diario segreto, trad. Adriana Zarri, Sei, Torino 1961, 27).
«Talvolta Dio mi è dolce e io sono portata da Lui come una piccola nube del buon tempo, come lanugine dalla brezza. Ma, talvolta, è terribile; quando in Lui non vedo più viso né cuore, né Figlio né Padre, niente altro che notte senza limiti, altezza di tenebre senza scale, che mozza il mio respiro» (ivi, 82);
«Mio Dio, abbiamo sofferto l’uno per l’altro. Voi della mia piccolezza, della mia infermità, del mio errore e del mio difetto. Io della vostra grandezza» (ivi, 170);
«O Cristo, imprudente per Amore, Tu sei venuto per morire, con noi, per noi… Nella Notte della Natività Egli viene a cercarci dove siamo, nella nostra bassa umanità, per guidarci a Dio attraverso le nostre strade. Nel giorno dell’Ascensione Egli ci trascina dove è Lui, nella sua alta Divinità e ci attira a Dio attraverso la sua strada» (ivi, 280; 287).
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