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Presto di mattina. Maestro dello sguardo

Ridare la vista è restituire la parola

Maestro dello sguardo, e non solo della parola, è stato e continua ad essere anche oggi il Priore di Barbiana. Perché è dallo sguardo che nasce la parola: dal toccare la realtà con gli occhi per far uscire balbettanti quelle primordiali parole: “Che cos’è? Chi è? Perché?”. La parola germoglia esce fuori dal vedere e lo sguardo va in cerca delle parole, cerca la relazione con la parola nel volto dell’altro, nel e con il suo sguardo fatto parola.

La parola comincia molto prima del vocabolario, della grammatica, della sintassi essa ha origine nello sguardo. Come la vita, lo sguardo sovverte lo sguardo stesso di com’era un momento prima, è la porta da cui entra il nuovo, l’inatteso, l’ospite segreto.

Per don Milani vi è un legame profondo tra la visione e la parola, tra il linguaggio e il guardare. Essi «fanno eguali». Ridare la vista è restituire la parola, è aprire un dialogo che fa rifiorire la vita nelle parole ancora germinali.

Così ridare la vista è restituire la parola. Ce lo ricorda anche il vangelo nel racconto del cieco nato. Dopo la guarigione egli incontra di nuovo il Maestro che gli dice: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. (Gv 9,1-41).

C’è una sequenza nel film di Andrea e Antonio Frazzi con Sergio Castellitto su don Milani nella quale il priore fa vedere per la prima volta il mare a dei montanari. Per lui imparare un nuovo vocabolo sulla pagina era solo un imparare a metà; occorreva, per comprenderlo fino in fondo, non solo intuirlo mentalmente ma vedere, immergersi nella parola come nelle acque del “mare”.

Così portò i suoi ragazzi a vedere non solo il mare, ma la fabbrica, il teatro, l’opera; li mandò a vedere il mondo all’estero a imparare le lingue guardandole in volto.

Dire “mare”

Un conto è dire “mare” a Barbiana, un altro vederlo apparire d’improvviso dietro una duna. È lì che la parola si compie, ricongiungendosi oltre il “muro di carta”, oltre “il muro d’incenso” con la vita e lo stupore degli occhi; lì la voce si dischiude in un grido di meraviglia vedendo sorgere l’alba dal mare per la prima volta.

Per quei montanari fu come l’aprirsi di un mondo senza confini, l’uscir fuori da un mondo esistenziale e linguisticamente conchiuso verso l’infinito delle parole in un mare senza sponde.

Una parola letta solo sul vocabolario e mai vista prima necessita di una levatrice, di uno sguardo immerso nel reale, che tagli il cordone ombelicale che la trattiene al puro ambito culturale, al mondo delle lettere, insufficiente per don Milani ad educare. Come dell’aria che si respira essa ha bisogno del contatto vivo con le realtà sociali, politiche e spirituali.

In una lettera al magistrato Gian Paolo Meucci nel 1955 don Milani scrive: «Voi vi valete di vocaboli e citazioni e nomi propri che nelle persone colte che vi leggono richiamano milioni di conoscenze già acquisite. Io invece uso ogni parola come se fosse usata per la prima volta nella storia come usano fare gli analfabeti e quelli che a loro si vogliono efficacemente rivolgere… Io con tuo permesso seguiterò a pensare che un’ora di scuola mia a Barbiana vale più che “Le 12” in mano a tutti gli intellettuali d’Italia. Non perché io valga più di voi, ma perché vale di più il pubblico che mi son scelto» (Lettere, Mondadori, Milano 1970, 33; 35).

Sguardo, parola, gesto: una scrittura in lotta per la vita

Perché la differenza del “suo pubblico” non la fa solo lo sguardo, né solamente la parola imparata, detta o scritta, ma il gesto sovversivo e innovatore che rimuove lo status quo e il “si è sempre fatto così”. La scuola di Barbiana diventa allora il luogo di una lotta e una scrittura rivoluzionaria per la dignità propria e degli altri.

Una lotta non già di 365 giorni l’anno, ma per tutta la vita: una lotta per portare alla luce e far nascere l’umano, liberandolo da quella ingiustizia che “fa parti uguali tra diversi”, e che potrà far valere ancora la dignità smisurata nascosta nel vangelo.

La scuola di Barbiana è stato il luogo di una mistagogia didattica e spirituale che fu un imparare a conoscere “facendo” e “agendo”, “demolendo” e “ricostruendo” dentro e fuori se stessi, con quelli di casa, senza trascurare i lontani.

Così, al pari di un mistagogo, il Priore di Barbiana ha introdotto e guidato i suoi alunni nella pratica della cittadinanza e della mondialità, conducendoli fin dentro il mistero della gratuità e del dono, per poi aprirli infine all’esercizio della responsabilità verso la comunità civile, religiosa e umana.

Con la pratica del leggere, pensare e dello scrivere insieme, si sprigiona la novità di un dono che viene scoperto di volta in volta con sorpresa di tutti al termine di ogni incontro con quelli che salivano a Barbiana. Lo ricorda lo stesso priore con riferimento alla La lettera ai giudici: «un dono che abbiamo ricevuto e abbiamo fatto. Prima di scriverla né io né i ragazzi sapevamo quelle cose» (Tutte le opere Meridiani, v. 2, Mondadori, Milano 2017, 1262).

Scrive Alberto Melloni nell’introduzione a Tutte le opere che la scrittura di don Milani «rivendica sempre il suo essere gesto».

La scrittura di don Milani «è quella di un uomo che con la penna e con la carta lotta per tutta la vita. Dall’età dolce e lussuosa della casa paterna, all’agonia del malato terminale nel letto di casa della madre. Da giovane pittore, aveva imparato a bottega che quel che tocca l’artista non è la forma o il colore nella sua inerzia chimica: ma lo luce che lo ravviva, ed è con lo luce che l’artista lotta. Allo stesso modo egli vede la scrittura non come forma o “letteratura”, ma come lotta con la parola che ha bisogno di una mistagogia» (ivi, v. 1, XIV).

Persone non parole

Le parole a Barbiana si imparano per leggere la realtà e per cambiare la vita; per aprila non per chiuderla nei circoli culturali. Così guardare il mondo diventa un atto civile, politico e religioso. Come a dire che la cultura staccata dall’umano, senza l’amore e attenzione per l’altro, innalza barriere, genera divisioni, differenziazione sociale e religiosa. E allora non i concetti, ma le persone vanno per prime: non è la persona fatta per la cultura, ma la cultura fatta per le persone.

Don Milani, maestro dello sguardo, della parola e del gesto, così operando “ha fatto strada ai poveri senza farsi strada”, e amando – si badi − più i poveri della povertà. Non ha cercato solo legami tra le parole, ma tra la sua vita e le persone che aveva incontrato a San Donato e a Barbiana.

L’arte dello scrivere, si legge in Lettera ai cappellani militari, è legame non solo di parole, ma degli affetti; è una “religo/ religare”, un essere legati e un legare gli uni agli altri: «l’arte dello scrivere è la religione, il desiderio d’esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore». Ripenso con gratitudine a don Piero Tollini, che su un muro della parrocchia aveva fatto scrivere una frase di don Milani: “Il problema degli altri è uguale al mio, risolverlo insieme è la politica, da soli è l’egoismo”.

Persone non parole. Nella lettera aperta a un predicatore domenicano così don Milani scrive: «Vede, Padre, la mia scienza è poca, la mia esperienza poi non si estende al di là di queste 275 case. Lei invece ha studiato, viaggiato e confessato tanto. Ma anch’io ho un dono che lei non ha: quando siedo in confessionale posso anche chiuder gli occhi. Le voci che mi sfilano accanto, per me, non son mai voci e basta. Sono persone…

Così dunque avviene che quella voce impersonale, sulla quale lei applica i testi e i decreti, per me è carne della mia carne. Ciò che quell’anima chiede io chiedo, ciò che la tenta me tenta più di lei. Ecco, Padre perché noi parroci confessiamo quasi tutti in una maniera che lei riprova. Se tagliassimo netto come fa lei, taglieremmo su di noi stessi… Il cuore di un uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola» (Esperienze pastorali, LEF, Firenze 1967, 267).

Una vocazione nata dallo sguardo

Proprio così. A ricordarcelo è Neerea Fallaci nel suo libro Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Rizzoli, Milano 1993, annotando l’intervista al pittore Hans Joachim Staude.

Fu lui «a indirizzare Lorenzo Milani, con i suoi insegnamenti sull’arte, alla ricerca di un “assoluto spirituale”… Fui io a fargli fare il primo, vero disegno della sua vita. Mi resi subito conto che era un giovane dotato di grande intelligenza.

Così, invece di limitarmi a correggere i suoi disegni, gli spiegai da che cosa doveva partire: gli parlai della scelta di tutto ciò che è essenziale; gli parlai della semplificazione; gli parlai della unità che deve regnare in ogni lavoro, disegno o pittura che sia. E lui capì al volo queste cose…».

«È tutta colpa tua!»

E quale pensava fosse la strada di Lorenzo Milani?

«A me sembrava un ragazzo più portato per la letteratura. Quell’estate sul Lago Maggiore, ricordo con quale entusiasmo leggesse D’Annunzio. Ma non aveva gusti estetizzanti, come altri giovani intellettuali della sua generazione. Approfondiva sempre tutto. Non parlava per esprimere un pensiero con eleganza. Parlava per capire meglio le cose. Voleva capire sempre più a fondo, chiarirsi bene le idee…

Le racconto volentieri questo. Lorenzo era già in seminario a Cestello, qui a Firenze. Venne a trovarmi in via delle Campora. Stava molto bene col nero ma, personalmente, non lo vedevo volentieri con quel vestito nero. E colsi l’occasione per chiedergli: “Ma, Lorenzo, dimmi un po’: come mai questo cambiamento?” Perché, ripeto, prima era stato molto lontano da preti e chiesa, diciamo così.

Dette una risposta, per me, indimenticabile: “È tutta colpa tua. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada”» (ivi, 47-48; 50; 51-52).

Ricorda ancora il pittore Staude: «Per me, una cosa memorabile è proprio lo slancio con cui si mise all’opera per realizzare quanto gli avevo comunicato. Mai avevo trovato tanta veemenza in uno scolaro. Mentre fuori era il più bel maggio del mondo, si chiuse in questo studio polveroso che prendeva luce da nord» (Fallaci, 48).

Se l’arte è l’altro fuoco, lo sguardo di don Milani cercava “un fuoco oltre” che lo muovesse altrove. Egli cercava di vedere con “veemenza” − che è un muoversi agendo, come accesi dentro − il volto nascosto nel Roveto ardente la cui parola diventa comprensibile solo a chi si mette in cammino, guardando nei volti le persone incontrate, accogliendole e prendendole con sé, percorrendo la strada insieme.

La scuola di Barbiana fu il suo roveto ardente. Fu proprio questa esperienza del roveto che gli fece dettare sul letto di morte ai suoi ragazzi il suo testamento: «Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo» (Lettere, 324).

Uno stile di chiesa in riforma sinodale: il capovolgimento dello sguardo

Il 4 ottobre, memoria di Francesco d’Assisi, si è aperto a Roma il Sinodo dei vescovi per una riforma ecclesiale, degli stili di vita delle persone e delle strutture nelle nostre comunità. Sinodo per un cambiamento frutto di un processo di consultazione nato dal basso, da un guardare, discernere e agire insieme a tutti i cristiani, per un rinnovato annuncio e presenza del vangelo tra la gente.

Così, ricordare Esperienze pastorali significa richiamare alla memoria e alla pratica l’attualità di un metodo pastorale che all’inizio fu rigettato, sanzionato e dopo sei mesi il testo fu fatto ritirare dal commercio dal Sant’Uffizio perché la sua lettura era considerata inopportuna.

“Un capovolgimento dello sguardo” fu invece agli occhi di don Milani e di molti quell’esperienza riportata poi sulla carta, come ricorda in una lettera ad Arturo Carlo Jemolo che sul quotidiano la Stampa aveva recensito con il suo il libro anche quello di don Primo Mazzolari, La parrocchia.

Egli farà notare all’autore dell’articolo la sua superficialità nella lettura perché non aveva colto la grande differenza tra i due testi, notando come il suo andasse ritenuto come un vero e proprio capovolgimento dello sguardo, del linguaggio, dell’azione pastorale attraverso un vedere, ascoltare, discernere ed agire.

IL tutto senza dimenticare quanto don Milani aveva imparato nello studio del pittore Hans Joachim Staude: 1) cercare l’essenziale, separandolo dal superfluo; 2) semplificare: non fermarsi ai dettagli ritrovando, per la via di una spogliazione di sé, la semplicità delle origini e l’umiltà del vangelo; 3) per cogliere l’unità delle cose, nella convergenza degli intenti al fine di arrivare a decisioni comuni capaci di cambiamento.

Ma qui non ritroviamo al vivo lo stile e la forma del camminare insieme proposto da papa Francesco alle comunità piccole e grandi, uno stile sinodale? Un paradigma della sinodalità?

Così leggiamo nella lettera: «E perciò mi aspettavo che lei volesse, dall’alto della sua scienza e della sua fama, stendere una mano a questo pretuccio senza scienza e senza fama e, commosso dai rischi che per la veste che porta e per la crudezza del testo egli si assumeva, fare in modo che il chiasso che il libro non poteva non suscitare, fosse indirizzato da un suo potente intervento su un alto livello di pensiero e non cadesse in discussioncelle laterali malevole o benevole, ma sempre piccine. Per esempio non era giusto che ella mi accostasse al libro di don Mazzolari perché il mio è ben altrimenti impegnativo. Non faccio questioni di valore, ma almeno di quantità!

Quello di Mazzolari si legge e si intende in un’ora, il mio no. Mazzolari l’ha scritto in un mese, io in dieci anni. Mazzolari non ci ha rischiato quasi nulla, lei stesso ha inteso che io ci avevo rischiato tutto (non parlo di trasferimenti perché sono già quattro anni che mi hanno trasferito dalle 1200 anime di San Donato a queste 85 anime qui in vetta a Monte Giovi e siccome sto buono e non do noia a nessuno, nessuno, per grazia di Dio, mi potrà più levare di qui), ma parlo del rischio di trovarmi di fronte a una condanna del libro e questa sarebbe una tragedia, non tanto per me, che sono pronto a cedere in tutto, quanto per i miei infelici giovani di San Donato» (Lettere, 83).

Dissonanze armoniose

Dissonanze impetuose, veementi, dirompenti che hanno messo sottosopra le coscienze e gli stili di vita di molti, non solo nella scuola, ma nella società italiana e nella chiesa, eppure quelle di don Milani sono state dissonanze armoniose.

Nella postfazione di Mario Gennari al libro della Fallaci si legge: « Dove vi è un universo etico completo – fa osservare Jean Guitton in un saggio del 1963 – l’amore, nel suo mistero sacro (mystère sacré), può tradursi anche in “dissonanze armoniose” (dissonances harmonieuses)…

Obbedienza e sincerità si accostano alla fermezza e alla bontà, fondendosi nei tratti di una coscienza la cui umanità viene istituendosi su di un sistema di valori religiosi, educativi e sociali privo di dogmatismo ideologico e di moralismo retorico.

La coscienza di don Lorenzo Milani è, in ogni occasione, cristallina; capace di riflettere appunto una santità fatta di armoniose dissonanze. L’apostolato condotto con un profondo senso della missione pastorale del sacerdote rivela, poi, il sostanziarsi di una tensione alla promozione umana.

Un’etica dell’incontro con l’altro sorregge, infine, il rapporto che don Milani costruisce con il mondo. E non importa se a volte renderà la superficie delle relazioni interpersonali ruvida e schietta come la sua scrittura, al fondo l’umanità di don Lorenzo brillerà sempre. Anzi, queste “dissonanze”, colte nel contesto della statura e della personalità del prete fiorentino, potranno essere lette da uno sguardo non ostile o prevenuto solamente come “armoniose”» (ivi, 598-599).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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