Skip to main content

Presto di mattina. Lo sguardo allo sperar della mattina

La conversione dello sguardo

«Lo sguardo allo sperar della mattina! La fuga delle nuvole v’illumina»
(C. Betocchi, Tutte le poesie, 136).

A volte basta un solo verso di un poeta amato e le parole ritornano a guardarsi, e si abbracciano, rivelando le cose che si erano spente nel sonno della notte senza più figure.

Questo mattutino volgersi alla luce e abbracciar con lo sguardo il dilatarsi delle nuvole e poi il loro dileguarsi in chiarore di speranza, è immagine suggestiva, che esprime con efficacia la conversione dello sguardo, la sua luce nascente, appunto come uno “sguardo allo sperar della mattina”.

O benedetta, benedetta sia
la cristallina,
benedetta mattina:
benedetta la gente
che va che viene,
benedetta la mente che l’avvia,
ciascuno alla sua prova.
Come un campo fiorito si rinnova
(ivi, 187).

Lo sperare mattutino verso cui converge lo sguardo è tale perché è il luogo dell’immaginazione del possibile, del non ancora, apertura alle realtà o verità ancora infinitamente possibili: “se esiste il senso della realtà deve esistere anche il senso della possibilità” (R. Musil). Questo senso sa che ciò che era impossibile ieri, lo sguardo estroverso, portato oltre se stesso, lo attende come possibile, veniente così “la speranza è la passione del possibile” (E. Borgna).

La conversione dello sguardo richiede l’attesa perseverante di un altro sguardo. È un mutare la direzione dello sguardo, il suo farsi estroverso ad un orizzonte invisibile: «se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,25). È nello scambio e convergenza di sguardi che acconsentono l’uno all’altro che appare un orizzonte altro, un vedere nuovo. Cambiando il punto di vista mutano gli orizzonti e le cose nascoste vengono alla luce.

La conversione dello sguardo implica così una decisione della libertà, una scelta, una rottura anche con ciò che è dato, saputo e visto per ospitare un nascere, un vedere con gli occhi d’altri, con occhi altri.

È questo infatti uno sguardo che sa farsi sequela dietro a un altro sguardo e impara a vedere ciò che vede l’altro, un passo un altro passo, uno sguardo un altro sguardo: nei suoi occhi i nostri occhi. È questo così un processo che cambia con lo sguardo, la vita; itinerario attraverso i volti umani, una via di crescita e maturazione, di cambiamento e superamento infiniti. Attraverso i volti veniamo alla luce, viviamo di nuovo.

Lo sguardo che salva

Nel deserto del Sinai il cammino del popolo di Dio era insidiato da serpenti velenosi annidati tra le pietre. Il libro dei Numeri racconta che la guarigione da quei velenosissimi morsi veniva dallo sguardo rivolto a un serpente di bronzo innalzato da Mosè e indicato da Yhwh come simbolo di salvezza. Così la spiegazione di quell’episodio riportato nel libro della Sapienza (16,6-7): «Chi si volgeva a guardarlo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da Te, salvatore di tutti».

Nel Vangelo di Giovanni Gesù stesso, nel dialogo notturno con Nicodemo, riprende questa figura mostrando un parallelo tra quel segno di salvezza innalzato e offerto agli sguardi dei morenti e «il Figlio dell’uomo innalzato», cioè lui stesso innalzato sulla croce posto sotto gli occhi di tutti.

Queste le sue parole: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,14). Come a dire che lo sguardo che attraversa e abita la sofferenza d’altri, trafigge quel dolore, è ferita portatrice di salvezza.

Scrive Simone Weil: «Una delle verità capitali del cristianesimo, oggi misconosciuta da tutti, è che la salvezza sta nello sguardo. Il serpente di bronzo è stato innalzato affinché gli uomini che giacciono mutilati al fondo della degradazione lo guardino e siano salvati… Tutti gli uomini, qualsiasi cosa stiano facendo, dovunque si trovino, dovrebbero poter tenere lo sguardo fisso, per tutta la durata del giorno, sul Serpente di bronzo. Ma dovrebbe anche essere riconosciuto pubblicamente, ufficialmente che la religione non consiste in nessun’altra cosa, se non in uno sguardo» (Attesa di Dio, 159; 165-166).

E ancora per la Weil «lo sguardo è la sola forza efficace in questo ambito della trascendenza, poiché è lo sguardo che fa discendere Dio fino a noi. E quando Dio è disceso fino a noi, ci solleva, ci dà le ali» (Amore di Dio, 110).

Ripartire dallo sguardo

‘Sguardo’ è una parola chiave nel lessico di papa Francesco. Del resto nella spiritualità ignaziana la trasformazione dello sguardo è molto importante. L’uso del verbo ‘mirar’ (guardare) è uno dei più presenti negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola e si coniuga con altri verbi come ‘osservare’, ‘discernere’, ‘contemplare’ e anche ‘prendersi cura’.

Nel discorso ai vescovi a Città del Messico, nella cattedrale dell’Assunzione il 13 febbraio del 2016 egli ricordava che la prima riforma ecclesiale sta negli atteggiamenti, e tra essi fondamentale e quello dello sguardo che si specifica come sguardo di tenerezza, capace di tessere, attento e vicino, non addormentato, sguardo d’insieme e di unità:

«Dio vi chiede di avere uno sguardo che sappia intercettare la domanda che grida nel cuore della vostra gente, l’unica che possiede nel proprio calendario una “festa del grido”. A quel grido bisogna rispondere che Dio esiste ed è vicino mediante Gesù. Che solo Dio è la realtà sulla quale si può costruire, perché Dio è la realtà fondante, non un Dio solo pensato o ipotetico, ma il Dio dal volto umano».

All’Angelus del 30 ottobre 2022, commentando l’episodio evangelico di Zaccheo, ancora papa Francesco ricordava che la conversione dello sguardo parte dal basso. Lo sguardo dei cristiani e della Chiesa deve sempre abbracciare dal basso e cercare “chi è perduto, con compassione” – come quello di Gesù verso Zaccheo – e non può essere “uno sguardo dall’alto, che giudica, disprezza ed esclude”. Sguardo che a volte rivolgiamo anche a noi stessi, quando “ci sentiamo inadeguati e ci rassegniamo”, e non cerchiamo invece “l’incontro con Gesù che guarda con infinita fiducia a ciò che possiamo diventare”.

Nell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia del 2016 la conversione dello sguardo diviene l’ordito dell’intero testo. Vi è esplicitata l’esigenza di una conversione dello sguardo sulle abitudini familiari, sulla dottrina matrimoniale vista nel suo aspetto prevalentemente giuridico, sull’agire pastorale nella chiesa e nelle comunità. Per questo cambiamento di prospettiva occorre partire dallo sguardo di Gesù che «ha guardato alle donne e agli uomini che ha incontrato con amore e tenerezza, accompagnando i loro passi con verità, pazienza e misericordia, nell’annunciare le esigenze del Regno di Dio» (ivi, 60).

Anche in Querida Amazzonia papa Francesco ha invitato ad uno sguardo decentrato per far emergere un nuovo sviluppo sociale, una diversa cultura, un’altra relazione con la natura, una singolare forma ecclesiale.

Il volgersi degli occhi per abbracciare con lo sguardo

Occhi del mattino, occhi di discepoli che incalzano nell’ombra il venire della luce nell’abbraccio dello sguardo. Questo abbraccio cominciò a Betlemme, segnò l’inizio della missione di Gesù e della chiamata a sé dei discepoli; culminò sul Golgota e ripartì di nuovo dalla Galilea delle genti per non fermarsi più.

Il volgersi dello sguardo di Gesù a quella domanda dei discepoli di Giovanni all’inizio del suo ministero pubblico quando vedendo che lo seguivano egli chiese: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?”. E la risposta fu e continua ad essere ancora quella, anche oggi: “Venite e vedrete” (Gv 1, 38-39).

Il volgersi dello sguardo di Gesù è rivelativo della sua persona. Il suo sguardo si volge là dove qualcosa germina o muore, dove è ferita da risanare, dove è soffocamento da rianimare, chiusura da aprire, caduta da rialzare. Si volge verso l’ignoto e il mistero di ogni volto per illuminare nel suo, lo sguardo del Padre nostro.

Fondamentale è lo sguardo di Gesù nei vangeli e ogni evangelista ne tratteggia un particolare aspetto. Esprime la sua attenzione di amore. Si pensi allo sguardo con cui Gesù abbraccia i discepoli e le folle all’inizio del discorso della montagna (Mt 5,1), o a quello con cui fissa il «giovane ricco» (Mc 10,21), o a quello rivolto a Maria di Magdala il mattino di Pasqua. Letteralmente è l’amore che guarda.

Gesù “si volge” verso qualcuno perché questi si volgano a loro volta, alzino il loro sguardo verso di lui e ricevano il suo: uno sguardo altro, uno sguardo diverso sulla realtà circostante, una conversione appunto. È lo sguardo della sua fede come fiducia filiale, che egli trasmette e chiede ai suoi discepoli e alla gente che incontra: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 36-37). E ancora: «Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore!» (Lam 1, 12).

La prima forma di amore

Volgere lo sguardo è la prima forma di amore: è come aprire una porta per farne uscire la luce, quella di uno spazio di ospitalità inatteso, imprevedibile per colui che sembrava bussare invano. Si dischiude un altro mondo, un altro senso possibile: “lo sperar della mattina”.

E negli sguardi che convergono si genera attenzione ed energia di vita, tanto che passa qualcosa capace di colmare il cuore e lavare gli occhi pieni di polvere. È la luce dell’intimità dell’altro che appare nel volgersi dello sguardo: «I tuoi occhi sono come una lampada: se i tuoi occhi sono semplici, tu sei totalmente nella luce» (Mt 12, 34)

Aprite dunque la porta e noi vedremo i frutteti,
Berremo l’acqua fresca ove la luna ha posto a sua traccia.
La lunga strada brucia, ostile agli stranieri,
Noi camminiamo ignari e non troviamo un luogo dove fermarci.
Vogliamo vedere dei fiori. Qui ci divora la sete.
Aspettando e soffrendo, eccoci davanti alla porta.
Se occorre, abbatteremo la porta con le nostre mani.
Spingiamo con tutte le forze, ma essa è troppo robusta.
Dobbiamo languire, aspettare, guardare invano.
Guardiamo la porta: è chiusa, incrollabile.
Vi fissiamo lo sguardo: piangiamo, tormentati.
La vediamo sempre; il peso del tempo ci opprime.
La porta è davanti a noi: a che serve volere?
Meglio rinunciare, abbandonare la speranza.
Non entreremo mai. Siamo stanchi di guardarla …
E la porta, aprendosi, lasciò passare tanto silenzio.
Ma né frutteti né fiori abbiamo visto;
Solo lo spazio immenso dove sono il nulla e la luce
Ci apparve improvvisamente da ogni parte, ci colmò il cuore
E lavò i nostri occhi quasi ciechi sotto la polvere.
(S. Weil, L’amore di Dio, 73).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

sostieni periscopio

Sostieni periscopio!

tag:

Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *



Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it