Il bene comune, cuore della vita buona
Scrive il filosofo Charles Taylor [Qui] che l’orizzonte e la meta a cui tendono il nostro vivere non è solo quello di una vita buona in senso aristotelico. Non basterebbe, infatti, per la felicità di ogni cittadino, raggiungere il culmine dei valori a cui ciascuno aspira nelle loro giuste proporzioni.
Nell’età moderna, l’umanità scopre una nuova tappa del proprio cammino, nella quale acquista consapevolezza, che la vita buona trova nel “bene comune” la propria sorgente.
«È solo con la Riforma che si impone l’idea di ispirazione cristiana che la vita comune è il nucleo stesso della vita buona… e – prosegue Taylor – credo che questa affermazione della vita comune, per quanto tutt’altro che pacifica e spesso svolta in termini non religiosi, sia diventata una delle idee più potenti della civiltà moderna…
La percezione dell’importanza della quotidianità e, conseguentemente, della sofferenza colora di sé l’intera nostra concezione di che cosa voglia dire veramente rispettare la vita e l’integrità umana» (Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993, 27-28).
Non è un’intuizione, quella di Taylor, ma una constatazione difficilmente refutabile. Non si può giungere alla vita buona senza consapevolezza del bene comune o prescindendo dall’esercizio della condivisione come suo strumento di ricerca ed attuazione.
Il bene comune è così il bene stesso della vita buona: che è un bene per sua natura relazionale, in quanto si forma, cresce e matura solo dall’incontro della nostra libertà con quella dell’altro. Si verifica solo nelle relazioni interpersonali e trova il suo fine adeguato nella loro maturazione.
Già per Tommaso d’Aquino [Qui], del resto, il bene comune è il bene di tutti e di ciascuno, un bene che non sottrae l’essenziale alla persona, né impoverisce l’ambiente o la società. È quel bene che si attua negli individui per il fatto stesso della loro unione, e a cui tutti sono chiamati a partecipare.
Nel contesto dell’esperienza cristiana si esprime e si attua nell’orizzonte di una comunione e nello stile di un camminare insieme, sinodale appunto: «Il bene comune – così si esprime il Concilio − si concreta nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più pieno e più rapido della loro perfezione» (Gaudium et spes 74 b; cfr. anche 26; pure la Dichiarazione Dignitatis humanae, 6).
Con gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo la Conferenza episcopale intendeva offrire «alcune linee di fondo per una crescita concorde delle Chiese in Italia nell’arte dell’educazione».
Nel mezzo di questo cammino papa Francesco si è inserito facendo emergere un’ulteriore consapevolezza: quella che si educa alla vita buona del vangelo se si educa alla sinodalità, vivendola come stile permanente di chiesa in una convivialità delle differenze e comunione nelle diversità.
Il Cristo in noi è così speranza di vita buona, il bene comune, come pure la sua “pro-esistenza”, il suo esistere per la vita buona degli altri diventa quel bene comune a cui partecipare.
Se si fa proprio lo stesso sguardo di Gesù, questo sarà capace di aprirci ad una umanità nuova e piena: «Nel gesto della moltiplicazione dei pani e dei pesci è condensata la vita intera (vita buona) di Gesù che si dona per amore, per dare pienezza di vita (vita comune). Neppure il suo corpo ha tenuto per sé: “prendete”, “mangiate”» (EVBV, 18).
Emblematico, come uno scossone, fu l’intervento di papa Francesco nel gennaio del 2021, cinque anni dopo il Convegno ecclesiale di Firenze, in cui espresse l’urgenza di non fermarsi a quell’evento.
Egli sprona ad essere anzi solleciti nel ripartire da quell’evento per avviare un processo di conversione in stile sinodale, che testimoni la gioia di vivere, quella vita buona che scaturisce dall’annuncio e dalla pratica vicendevole del vangelo negli ambiti decisivi del proprio vivere.
Così papa Francesco: «Cruciale risulterà la sfida dell’annuncio del Vangelo in un’Italia in continuo cambiamento che fatica a incontrare la gioia di credere. Una sfida che passa dalla liturgia, dalla famiglia, dai giovani, dalla carità: tutti ambiti (quelli emersi al convegno) che entreranno nel processo sinodale. Lo sguardo verrà rivolto anche alla società: il che significa, ad esempio, toccare i temi della cultura, delle povertà, delle fragilità, della cittadinanza, del lavoro.
E idealmente il Sinodo congiungerà quasi un ventennio di vita ecclesiale italiana, recependo gli ultimi due Convegni nazionali: quello di Firenze nel 2015 e quello di Verona nel 2006 (con i suoi cinque ambiti: affettività; lavoro e festa; fragilità; tradizione; cittadinanza)».
Come realizzare questo? a partire da dove?
Questa la risposta del papa: «Al centro del cammino sinodale ci sarà l’ascolto, che vuol dire primato delle persone sulle strutture, corresponsabilità, attenzione ai variegati volti della Chiesa italiana. La CEI è ben consapevole che la comunità ecclesiale del Paese ha storie e sensibilità non uniformabili che sono, anzi, una ricchezza e lo specchio della “convivialità delle differenze” che caratterizza la vita di fede nella Penisola».
Un debito di ascolto
«Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole» (Rm 13, 8).
Nel suo libro La vita comune, Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) [Qui] scriveva: «Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore di Dio incomincia con l’ascoltare la sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio; anche di fronte a Dio sarà sempre lui a parlare» (La vita comune, Brescia, 1969, 147-149).
Dopo l’intervento del papa, nella 75ª Assemblea generale straordinaria della Conferenza episcopale italiana, il 22-25 novembre 2021, la decisione unanime fu quella di mettersi in ascolto del popolo di Dio, di tutti i battezzati, e di «aprire il cuore e l’orecchio a quanti (…) sono rimasti ai margini della vita ecclesiale», di colmare «la distanza che separa il Vangelo dalla vita», di «riorganizzare la speranza, in una società che corre veloce lasciando spesso indietro i più deboli, che subisce il fascino mutevole delle mode, che parla linguaggi nuovi e fa dell’individuo il suo centro».
Così iniziò il primo tratto di quel processo di consultazione del cammino sinodale con la consapevolezza di dover dare spazio alla creatività di ciascuno, sino a consentirgli di travalicare i confini già tracciati.
La strada da percorrere, per quanto sconcertante possa sembrare, è quella dell’ascolto, del sostegno e della vicinanza, anche da parte dei pastori al popolo di Dio: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve» (Ap 2,17).
Verso chi siamo in debito d’ascolto?
La risposta è venuta ai pastori dalle riflessioni e dagli interventi emersi nei 50.000 gruppi sinodali delle chiese e comunità cristiane, per un totale di 219 testi pervenuti alla CEI. Una cartina di tornasole che ha fornito un quadro delle aspirazioni di rinnovamento più avvertite tra i cristiani, senza risparmiare critiche al panorama ecclesiale italiano.
Così nella Sintesi nazionale della fase diocesana del cammino sinodale, pubblicata il 18 agosto 2022, si è evidenziato il fatto che la Chiesa italiana soffre di “un debito di ascolto” nei confronti di diversi soggetti, tra cui soprattutto i giovani, le vittime di abusi sessuali e di coscienza, i poveri.
È detto pure che la prassi dell’accoglienza dovrà ripartire innanzitutto dalle differenze, specie da quelle nei confronti delle quali le chiese e le comunità si sono mostrate più impermeabili. Differenze generazionali, nate da storie ferite, di genere, d’orientamento sessuale, culturali, sociali o legate alla disabilità.
Forte la sottolineatura sulla necessità di puntare alle relazioni, perché l’incontro con le persone diventi il centro stesso dell’azione pastorale, capace poi di avviare anche una trasformazione degli ambiti e dei soggetti che compongono le stesse istituzioni ecclesiali.
È proprio il lasciarsi permeare dalle differenze intra ed extra ecclesiali, che porterà alla luce il nuovo e indicherà le vie per realizzare quella “riforma della chiesa in uscita missionaria”, auspicata da papa Francesco nella Evangelii gaudium (n. 17).
In questa direzione si muove a non per caso l’intervento di apertura di papa Francesco al Congresso dei leader religiosi del mondo riuniti a Nur-Sultan in Kazakhstan a metà settembre:
«Ma come intraprendere una missione così ardua? Da dove iniziare? Dall’ascolto dei più deboli, dal dare voce ai più fragili, dal farsi eco di una solidarietà globale che in primo luogo riguardi loro, i poveri, i bisognosi che più hanno sofferto la pandemia, la quale ha fatto prepotentemente emergere l’iniquità delle disuguaglianze planetarie».
Ancora e sempre dall’ascolto verrà così la capacità di lavorare insieme nei cantieri di casa nostra: i “Cantieri di Betania”, così titola il testo che raccoglie le proposte e le indicazioni pastorali dei vescovi per il secondo anno della fase narrativa del sinodo.
Avevo già ricordato in precedenza che i cantieri sono tre: “cantiere della strada e del villaggio”, che implica l’ascolto dei diversi “mondi” in cui i cristiani vivono e lavorano, con la connessa questione dei differenti linguaggi da apprendere.
Poi quello “dell’ospitalità e della casa” (Betania casa degli amici): è questo il cantiere delle relazioni e delle strutture comunitarie da riformare e rendere vive, mettendo a tema, senza reticenze, ricchezze e limiti degli organismi ecclesiali di partecipazione.
Infine il cantiere “delle diaconie e della formazione spirituale”, che unisce la questione della corresponsabilità femminile nella comunità cristiana e l’ambito dei servizi e ministeri ecclesiali.
I Centri di ascolto
Nella proposta dei Cantieri di Betania vi è pure da svolgere un tema libero, da scegliersi in ciascuna chiesa; vedremo quale emergerà dalla nostra diocesi. Nel frattempo mi sono messo di buona lena e, dall’esperienza fatta in questi ultimi quattro anni nell’Unità pastorale di Borgovado, ho pensato che quello dei Centri di ascolto e del loro coordinamento sia un tema emergente e urgente, da focalizzare, perché capace di dare voce e fotografare non solo l’emergenza, i bisogni delle persone, la loro vita non buona e non condivisa, ma pure in grado di aprire le comunità a quel bene comune che si estrinseca in una cittadinanza solidale quale segno tangibile dell’annuncio evangelico.
Nei Centri di ascolto si prova a mettere in pratica un “ascolto attivo”, un’attitudine dialogica, in cui il momento emotivo si apre all’esperienza di un vero incontro empatico che continua nel tempo, capace di avvicinare le persone rendendole meno rigide e più permeabili di fronte alle differenze che caratterizzano questo nostro tempo.
L’ascolto attivo permette anche quelle connessioni formative e pastorali capaci di far interagire persone, ambiti e realtà diverse e di far emergere non solo la vita buona, ma pure il bene che hanno in comune.
Chiesa e territorio, parrocchie e città, visti come un unico “ecosistema” fatto di diversità che interagiscono nella ricerca e nello scambio, in vista di una vita buona per tutti.
Per le nostre comunità parrocchiali proprio la città nella sua complessità e diversità, con i suoi problemi e le sue periferie esistenziali, ma pure con le sue risorse, diventa spazio e scuola di umanità.
Ogni suo ambito, dalle università ai quartieri più poveri e marginali, può diventare uno spazio per la formazione e maturazione della coscienza personale, comunitaria ed ecclesiale, cantiere che pratica la cittadinanza e la mondialità.
Così i centri di ascolto, nella più ampio e attuale contesto del cantiere ecclesiale, possono diventare quello spazio pastorale di ospitalità, di scambio vitale che il concilio aveva indicato come luogo di evangelizzazione da attuarsi con una duplice apertura di ascolto: di Dio e dell’uomo.
Mi ha sorpreso e soprattutto incoraggiato a proseguire su questa strada l’ultimo numero dell’Osservatore di Strada, supplemento mensile dell’Osservatore Romano, voluto da papa Francesco come giornale che nasce dalla strada: “il giornale dell’amicizia sociale e della fraternità”. Il numero di ottobre è infatti tutto dedicato all’ascolto. L’editoriale di strada titola: Se non ascolti, l’elemosina la fai solo a te stesso.
«Ascolto le parole» dice il poeta Daniele Mencarelli [Qui]: «lì sta il senso della vita»; c’è un bene comune da trovare insieme perché dice ancora il poeta: «Tutto chiede salvezza».
Un volto d’uomo, un anziano che si affaccia sulla prima pagina come ad una finestra: ha preso la parola e anche le mani raccontano la sua storia.
E, appuntato lì vicino, un post-it con una poesia:
Si ascolta con gli occhi. Si parte da lì. Guardando.
Guardare chi si ha di fronte, e accogliere quello che ci sta dicendo,
ancora prima che abbia aperto bocca.
Ascoltare la sua figura, quello che ci dice il suo corpo.
Perché i corpi parlano infinite lingue.
Infine, ascoltare la sua voce.
La voce è un suono di carne.
E se la carne, o lo spirito, di chi ci sta parlando
è schiacciato dal peso del dolore, quel suono ne risente,
si incurva, spesso sprofonda,
altre volte diventa sottile come la punta di un ago.
E dice. Racconta. Rivela. O Mente. Fugge.
Ascoltare chi non ha parole, chi ne urla all’infinito,
chi ce le dice odiandoci, piangendo, chi scappando via.
Il dono, senza l’ascolto,
non è che un dare per annullare,
senza nulla aver dato veramente.
(D. Mencarelli in OdS, ottobre 2022)
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