Presto di mattina. La rosa di Natale
Il volto della stella
In un’intervista degli anni ’90, Iosif Brodskij (1940-1996) ricordava di aver cercato di scrivere una poesia per ogni Natale e non sempre ci riuscì. Le sue Poesie di Natale (Adelphi, Milano 2004), in tutto diciotto, le compose quasi fossero «un augurio di compleanno». Nella Natività amava vedere «quella concentrazione di ogni cosa in un solo luogo – il che è quanto si verifica nella scena della grotta» (ivi, 2a di copertina).
Nella fredda stagione, in luoghi avvezzi all’afa
più che al gelo, e a piatte distese più che ai monti,
nacque un bambino per salvare il mondo, in una grotta;
turbinava il vento, come può solo nel deserto d’inverno.
Enorme tutto gli sembrava; il seno della madre, le nari
del bue fumanti di vapore, i re Magi; quei doni
da Gaspare, Melchiorre e Baldassarre fin lì portati.
Il bimbo era un punto solamente. E un punto era la stella.
Con gran circospezione, senza neppure un battito
di ciglia, tra rade nubi, di lontano, dalle profondità
del Cosmo, giusto dall’altro estremo, la stella fissava
nella grotta il bimbo sulla greppia. Di un padre era lo sguardo.
(Ivi, “Stella di Natale”, 24 dicembre 1987, 73)
Sì, proprio tutto è concentrato lì in quella grotta dell’umano gelo, direbbe Clemente Rèbora (1885-1957), ma un fuoco dentro resta, e pace altra sta a custodire l’infinita pena d’uomini e di donne. Pace parla ancora al cuore che domanda.
Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo;
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
(Clemente Rebora, Le poesie 1913-1957, Garzanti, Milano 1994, 288).
“Ave”, è d’inverno il canto delle rose
Carlo Betocchi (1899-1986), che fonda la sua poetica su un linguaggio diretto, sul realismo e su una forte tensione etica, pensa che a Natale l’inverno sarà rivestito di fiori reali e in terra, come il gloria degli angeli in cielo, la rosa, il giglio, l’elleboro diranno il loro “Ave”, “Bene valete”: saluto e benedizione.
Ma non basta augurare il bene; è poca cosa. Credere proprio a Natale allora sarà non senza gli altri, non senza rivestire il patire loro; per noi come per gli ellebori sarà stare erbosi e fitti come croci nel gelido freddo dei conflitti, rivestendo “l’empio sterno delle città distrutte” dalle guerre.
Sarà, per i fiori reali, inverno,
un mitico inverno di brine,
d’ albori, di chiarezze tutte gelo;
e diranno «Ave» senza fine.
La rosa con il giglio con l’elleboro
rivestiranno l’empio sterno
delle città distrutte, un roseo fuoco
a vaghi armenti. Ma sarà poco
credere! Dovremo star confitti
nel freddo, di là dallo schermo
della rassegnazione, erbosi e fitti
come croci, nell’inverno.
(“Sarà inverno”, in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1996, 512).
La luce dell’elleboro, sole infante, luce nascente nell’inverno
Per la sua radice nera è nominato l’Helleborus niger. È una pianta perenne resistente al freddo che appartiene alla famiglia delle Ranunculaceae, alta non più di 40 centimetri. Ha corolla pendula formata da cinque petali, come i cinque sensi nostri.
L’elleboro, nonostante il suo brunito nome, ha fiori candidi e pistilli dorati come solari raggi di luce. Fiorisce all’inizio dell’inverno nel mese di dicembre, come a simboleggiare «l’alba del solstizio invernale e l’oro del sole nuovo, del sole “bambino”, destinato a crescere sull’orizzonte» (A. Cattabiani, Florario, 319).
Il suo nome deriva dal termine greco “elleboros”, termine formato da due parole che tradotte significano “far morire” e “nutrimento”: le sue radici se ingerite sono infatti velenose, ma da esse si ricava un rimedio e nutrimento medicinali che nell’antichità si pensava fossero curativi della pazzia.
Di Eduard Mörike (1804-1875), poeta e narratore tedesco pastore luterano e docente di letteratura tedesca, è la lirica più famosa dedicata all’elleboro: A una rosa di Natale, (Auf eine Christblume, 1842).
Di lui Cristina Campo scrive: «Solitario e purissimo cantore svevo… nostalgico pastore “in cilindro e parapioggia” colui che prediligeva Mozart quando l’Europa intera apparteneva a Beethoven: che giocava coi bambini, parlava con gli alberi e faceva dell’amicizia una religione» (Sotto falso nome, Adephi, Milano 1998, 189-190. Il suo testo più conosciuto è Mozart in viaggio verso Praga, Passigli Editori, Bagno a Ripoli FI 1990).
L’Helleborus niger nella lingua del poeta suona Christblume e Weihnachtsblume: Fiore di Cristo e insieme Fiore di Natale. Il poeta, osserva anche gocce purpuree sul biancore dei petali a ricordargli il sangue della Passione, presagio della morte già nella immacolatezza della nascita e paragonando la sua corolla alla veste nunziale di Maria la Madre Benedetta.
A una rosa di Natale
Figlia della foresta, parente dei gigli,
quelli sconosciuti, cercata da me da tanto tempo,
nel camposanto dimenticato di una chiesa, freddo e invernale!
Per la prima volta, o bella, ti ho trovata!
Per mano di chi sei fiorita qui,
non so, né di chi sia la tomba che custodisci;
Se è un giovane, gli è stata donata la salvezza,
Se è una fanciulla, dolcemente è caduta la sua parte.
Nel boschetto vicino, coperto di luce nevosa,
dove il cervo pascola piamente davanti a te,
Vicino alla cappella, vicino allo stagno cristallino,
Lì cercai il tuo regno magico.
Sei bella, figlia della luna, non del sole;
La delizia di altri fiori ti sarebbe fatale,
Ti nutre, il casto corpo pieno di gelo e di fragranza,
l’aria dolce e balsamica del freddo celeste.
Nel tuo seno dorato si crea
Una fragranza che a malapena si annuncia;
Così profumava, toccato dalla mano di un angelo,
La veste nuziale della madre benedetta.
Tu saresti, ricordando la santa sofferenza,
vestita da cinque gocce di porpora, bella e unica:
Ma tu ti adorni come un bambino, nel periodo natalizio,
di verde chiaro con un soffio il tuo vestito bianco.
L’elfo, che nell’ora di mezzanotte
va a danzare nella terra luminosa,
di fronte al tuo mistico splendore si ferma timidamente
Curiosamente tace da lontano e si allontana.
Nella terra invernale dorme un fiore,
La farfalla che un tempo si aggirava intorno a cespugli e colline
Nelle notti di primavera cullando l’ala di velluto;
Non assaggerà mai il tuo seme di miele.
Ma chi sa se il suo tenero spirito
Quando ogni traccia dell’estate sarà svanita,
un giorno si inebrierà della tua morbida fragranza,
invisibile a me, circonderà te fiorita!
(Canti scelti di Eduard Mörike, Carabba editore, Lanciani [Chieti] 1939, 104-105, nuova traduzione di Christine Schwienbacher).
La leggenda della Rosa di Natale
Anch’io a Natale ho scritto per diversi anni storie di alberi per la gente della parrocchia e così per non saltare l’anno ho ricevuto un’assit. Non mi sono lasciato sfuggire la storia della scrittrice svedese Selma Lagerlöf (1858-1940).
È stata la prima donna a vincere il Nobel per la letteratura nel 1909 a soli 51 anni e nel 1914 entrò a far parte dell’Accademia svedese. Nei suoi racconti rivive la Svezia delle antiche fiabe, quella dei miti e delle leggende, delle storie tramandate nella lunga notte nordica.
Così inizia il racconto:
«La moglie del brigante, che viveva in una caverna lassù nella foresta di Göinge, si era messa un giorno in viaggio per andare a mendicare giù in pianura. Il brigante era un bandito fuorilegge e non osava uscire dalla foresta, accontentandosi di stare in agguato dei viandanti che si avventuravano nella fascia dei boschi. Mendicando di casa in casa, la moglie del brigante arrivò un giorno a Öved, che all’epoca era un monastero. Suonò e chiese del cibo. Il guardiano abbassò uno sportellino che si apriva nel portone e le allungò sei pani rotondi: uno per lei e uno per ogni ragazzo».
Il monastero era circondato da un altro e massiccio muro. Impossibile era vedervi dentro; ma uno dei figli scoprii una porticina lasciata aperta da un monaco converso. Sgattaiolando dentro la donna rimase stupita nel vedere il giardino e il suo splendore. L’Abate Hans infatti ne aveva fatto un orto botanico senza paragoni. L’aveva arricchito di piante e fiori portati da tanti paesi. Era davvero il suo orgoglio, se così si può dire di un dimesso abate, ma certo il più bello di tutta la regione.
Accortosi dell’intrusione il monaco converso, che aveva l’abitudine di strappare tutte le erbacce che gli capitavano sotto gli occhi, si affrettò prima con le buone maniere, ma poi, visto l’inefficacia di quelle si premurò, per convincere gli intrusi, di chiamare in aiuto alcuni monaci nerboruti così da costringere la donna e i suoi figli ad allontanarsi. Ma non bastarono neppure loro; quella fu irremovibile e li raggelò, gridando e minacciando addirittura di far venire il brigante suo marito.
Accorse così alle grida anche l’abate Hans, preoccupato della quiete, e congedati i monaci, per tranquillizzare la donna, la invitò a visitare tutto il suo orto botanico, sentiero per sentiero aiuola per aiuola attraversando arbusti, siepi e alberi secolari.
L’abate Hans passando tra i sentieri e volgendo intorno lo sguardo su quella meraviglia sempre cangiante che gli sollevava l’animo, tuttavia teneva pure d’occhio la moglie del brigante e vedendola sorridere allegra, si compiaceva. Si accorse però ad un tratto che quel suo sorriso, nascondeva qualcosa, sembrava di sfida ne fu certo quando la donna gli disse: «Alla prima occhiata ho pensato di non averne mai visto uno più bello, ma ora mi accorgo che non regge il confronto con un altro che conosco».
A quelle parole l’abate Hans fu scosso da un fremito interiore e l’afferrò un incontenibile desiderio di vedere quel giardino misterioso nel cuore della foresta di indicibile bellezza, ma che secondo le parole della donna era visibile solo la notte di Natale: di lì a pochi giorni dunque.
Così nonostante la contrarietà di tutti i monaci, l’abate chiese al vescovo di Absalon il permesso di recarsi nella foresta e, sapendo l’ostilità terribile del brigante che gli avrebbe impedito l’ingresso, domandò per lui un lasciapassare: in cambio, il perdono di tutti i suoi misfatti e il ritorno tra la gente dei villaggi.
E il vescovo gli rispose: «“Questo te lo posso promettere, abate Hans”, disse sorridendo. “Il giorno che mi manderai un fiore del giardino di Natale di Göinge, ti farò avere lettere d’assoluzione per tutti i fuorilegge che vorrai”».
Così, presto di mattina la vigilia del Natale, dopo aver attraversato per tutto il giorno la foresta, l’abate e il monaco converso, giunsero ormai congelati alla grotta del brigante guidati da uno dei figli. Trovarono grande miseria e pure ostilità e aggressività, ma solo nelle parole, che non gli furono d’ostacolo ad entrare in quella povertà disarmante.
Nell’incontro tra quei due mondi, ci volle umiltà, pazienza resistente e la promessa d’assoluzione e, alla fine, il brigante patteggiò una tregua temporanea giungendo persino a rispondere all’Abate: «Sì, sì, se avrò una lettera d’assoluzione da Absalon, ti prometto che non ruberò mai più nemmeno un’oca».
Ma intanto giunse piano piano con la neve la notte silenziosa e santa e la donna che era rimasta a vegliare il bosco dalla finestra disse all’abate Hans: «Tu stai qui a chiacchierare, abate Hans, e finiamo per dimenticarci di tenere d’occhio la foresta. Non sentite che le campane di Natale hanno già cominciato a suonare?».
«Aveva appena pronunciato queste parole che tutti balzarono in piedi e corsero fuori. Ma nella foresta regnava ancora la notte buia e il gelido inverno. L’unica cosa che avvertirono fu uno scampanio lontano portato da un leggero vento da sud.
“Come potranno questi deboli rintocchi ridestare la foresta morta?” si domandava l’abate Hans. Ora che stava nel mezzo dell’oscurità invernale, gli sembrava molto più improbabile di quanto avesse mai creduto che lì potesse spuntare un rigoglioso giardino.
Ma quando le campane ebbero suonato per qualche minuto, un improvviso chiarore penetrò la foresta. L’attimo dopo era di nuovo buio, e poi tornò la luce. Si insinuava come una nebbia radiosa tra gli alberi scuri, e continuò a espandersi finché la notte si diradò in una pallida aurora.
Allora l’abate Hans vide che la neve era sparita dal suolo, come se qualcuno avesse tolto un tappeto, e la terra cominciava a inverdire. Le felci allungavano le loro fronde, incurvandosi come pastorali. L’erica che cresceva sulle rocce e le mirici radicate nel muschio si rivestivano di verde acceso. Il muschio si espandeva e si sollevava e fiori primaverili spuntavano con i loro boccioli rigonfi, con già un accenno di colore.
Il cuore dell’abate Hans batteva forte davanti a quei primi segni del risveglio della foresta. “Che a un vecchio come me sia dato di assistere a questo miracolo!” pensò, e le lacrime premevano per sgorgargli dagli occhi. A tratti diventava così buio che temeva il ritorno delle tenebre della notte. Ma presto irruppe una nuova ondata di luce che portava con sé gorgoglii di ruscelli e scrosci di cascate. Allora sugli alberi germogliarono le foglie, così in fretta che era come se un nugolo di farfalle verdi fosse venuto a posarsi sui rami.
E non erano solo gli alberi e le piante a risvegliarsi, perché tra i rami cominciarono a saltellare i crocieri, e i picchi martellavano le cortecce tra nuvole di schegge. Un volo di storni migranti verso settentrione scese a riposarsi su un abete. Erano storni superbi: le punte di ogni piccola piuma brillavano rosse e quando si muovevano luccicavano come gioielli.
Il buio tornò per un istante, seguito da una nuova ondata di luce. Da sud spirò un forte vento caldo che sparse sul suolo della foresta tutti i piccoli semi delle terre meridionali che gli uccelli e le navi e i venti avevano portato fin lassù e che non avrebbero potuto crescere per i rigori dell’inverno. E ora si radicavano e germogliavano nell’attimo stesso che toccavano terra. Alla successiva ondata di luce sbocciarono i mirtilli rossi e neri. Anitre selvatiche e gru riempirono l’aria dei loro gridi acuti, i passeri costruivano i nidi, e i piccoli degli scoiattoli giocavano sui rami più alti.
… Le ondate di luce calda si succedevano senza posa e ora portavano con sé semi di floristelle. Il polline dorato della segale galleggiava nell’aria, e poi arrivarono farfalle così grandi che sembravano gigli volanti. Un alveare nel tronco cavo di una quercia traboccava già di miele che gocciolava lungo la corteccia.
Ora fiorivano anche le piante provenienti da paesi lontani. Le splendide rose si arrampicavano sulla parete della montagna gareggiando con le more, e nel sottobosco spuntavano fiori grandi come volti umani. L’abate Hans pensava al fiore che aveva promesso al vescovo Absalon, ma non si decideva a coglierlo. Ogni nuovo che sbocciava era più incantevole degli altri e lui voleva scegliere il più bello di tutti.
Ma in tutto quello splendore il monaco converso e apprendista giardiniere, fino a quel giorno sempre dedito a strappare le erbacce, non vedeva niente di buono, presagiva in quella nascita e risveglio precoci della foresta addirittura una macchinazione del diavolo, una stregoneria per ingannare il suo abate e così cercava in tutti i modi di dissuaderlo e convincerlo ad andare via e via in fretta.
Ostinato a vedere erbacce in ogni dove dimenticò la parabola evangelica e per togliere la zizzania strappò anche il grano buono. Così quando un piccolo colombo si posò sulla spalla dell’abate il monaco, visti vani tutti i tentativi di persuaderlo, alle fine gridò con tutta la forza che aveva in corpo: «Tornatene all’inferno da dove sei venuto!».
A quelle parole tutto si spense, d’improvviso tutto fu inghiottito dal buio, tornò la notte fonda e il gelo e la neve imprigionarono di nuovo la foresta. In quel momento l’abate Hans si sentì morire, una stretta fortissima al cuore e cadendo sulla neve si ricordò della promessa fatta al vescovo di portagli un fiore da quel giardino e dell’assoluzione promessa al brigante, fece solo in tempo ad annaspare nel muschio con la mano e a frugare tra le foglie per cercare almeno un piccolo fiore. Ma dopo quello sforzo non riuscì più a rialzarsi e rimase morto coperto dalla neve.
Quel giorno, il Natale del Signore, i monaci raggiunta la foresta ritrovarono il suo corpo. E quel Natale fu così anche il dies natalis dell’abate Hans, passando ancora una volta dal buio alla luce egli entrò vivo in quel giardino sorprendente, perduto e ritrovato.
Fu riportato nel monastero con grande dolore e rimpianto. La notte seguente nella veglia funebre i monaci si accorsero che teneva qualcosa serrato nel pugno della mano congelata. A fatica l’aprirono e vi trovarono dei piccoli tuberi bianchi che l’abate doveva aver strappato tra il muschio e le foglie prima di morire.
Il monaco converso che piangeva e gemeva più di tutti, perché sapeva di averne causato la morte con la sua stoltezza, a quella vista trasalì e comprese che c’è anche un tempo per piantare. Si fece coraggio, prese dalla mano del suo abate quei tuberi diventati a lui così preziosi e andò ad interrarli nel giardino del monastero.
Per tutto quell’anno rimase addolorato e terribilmente affranto vegliando giorno e notte su quelle piante. Ora non strappava più le erbacce ma curava le erbe più fragili e malate. Così arrivò anche quell’anno la vigilia di Natale.
In quella vigilia il monaco «sentì più vivo nell’anima il ricordo dell’abate Hans e uscì nel giardino per rivolgere a lui i suoi pensieri. Finché passando accanto al posto dove aveva interrato i tuberi nudi, vide che erano cresciuti dei rigogliosi gambi verdi con in cima dei bellissimi fiori con foglie bianco argentate.
Corse a chiamare tutti i monaci di Öved, i quali, vedendo che le piante fiorivano la vigilia di Natale, quando tutte le altre erano come morte, capirono che l’abate Hans aveva realmente raccolto quei fiori nel giardino di Natale della foresta di Göinge.
Il frate giardiniere chiese il permesso di portarne qualcuno all’arcivescovo Absalon. Quando gli fu davanti gli porse i fiori dicendo: “Questi li manda l’abate Hans. Sono i fiori che promise di cogliere per te nel giardino di Natale della foresta di Göinge”. Al vedere quei fiori nati dalla terra nel gelido inverno, l’arcivescovo di Absalon impallidì come se avesse incontrato un morto. Dopo un lungo silenzio disse: “L’abate Hans ha mantenuto la sua promessa, e io manterrò la mia.”
Quando giunse nella foresta la lettera del vescovo «il bandito rimase lì pallido e muto, ma la moglie rispose per lui: “L’abate Hans ha mantenuto la sua promessa, e il brigante manterrà la sua”. Quando il brigante, la moglie e i figli abbandonarono la caverna, il frate converso vi andò ad abitare e visse lassù in solitudine, continuando a pregare che la sua durezza di cuore potesse essergli perdonata».
A perenne ricordo di quel luminoso Natale di Göinge, nella foresta ritornata oscura, è rimasto anche oggi a far luce un fiore, il più bello di tutti: la pianta di elleboro nero, che da quel giorno fu chiamata Rosa di Natale.
(La leggenda della Rosa di Natale, Iperborea, Milano 2014).
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