Presto di mattina. La cerva dell’aurora
Il canto del desiderio
Come una cerva
che si trascina
verso corsi d’acqua pura,
tutto il mio essere,
anela a te, brama te.
La gola mia ha sete di te del Dio vivente
e quando verrò e potrò il volto di Dio vedere?
(Sal 42/41)
Nel vado/uadi austero e secco della Quaresima è il tempo di cantare la sete: «tempo è di tornare poveri/ per ritrovare il sapore del pane,/ per reggere alla luce del sole/ per varcare sereni la notte/ e cantare la sete della cerva./ E la gente, l’umile gente/ abbia ancora chi l’ascolta,/ e trovino udienza le preghiere» (D. M. Turoldo, O sensi miei, Rizzoli, Milano 1997, 617).
È il canto del desiderio, del bramito dei cervi, pure quello della notte oscura, del cuore del salmista non ancora rincuorato, del sentire Dio lontano come un Uadi senz’acqua. È il canto che sgorga dalla sete della cerva, il suo sospiro, quello con cui si identifica e si presenta a noi il salmista, che errando lontano, come in esilio, va alla ricerca del suo Dio. Lo stesso canto dell’amata nel Cantico dei cantici che cerca l’amato suo, ed è intriso da quel desiderio di essere dissetati/rincuorati, guariti da ferita d’amore che ci deve accompagnare verso la Pasqua.
In Canti ultimi nell’imminenza della sua ultima pasqua p. Turoldo scriveva:
Quando sarà venuta… [la morte]
Pure allora mi sgorghi
dal cuore ferito il canto:
come dal costato di Cristo
Usciva sangue e acqua.
Cantare quanto in vita
ti abbia inseguito quale
la cerva del salmo
fiutando sorgenti lontane.
Cantare ancora i gemiti
che la sera – e le notti! – empivano
le vaste solitudini;
e il lungo errare per i boschi
sempre disperato e illuso.
Ora almeno che prossimo
sono all’incontro
svelami come,
pur malato mortalmente di te,
abbia potuto essere a Te infedele:
tradirti nel mentre stesso
che dicevo di amarti!
o forse anche il peccato
è un gesto folle per cercarti?
Pace non c’è per gli amanti,
lo sai!
(Canti ultimi, Garzanti, Milano 1991, 137-138).
Preghiera: il parto del desiderio
Anche questa Pasqua è il parto di un nuovo universo, di un altro orizzonte, di un mattino nuovissimo, un amore non più atteso, un desiderio compiuto, in presenza e per sempre, un faccia a faccia con il volto risorto, vita nel suo spirito che rincuora anche ora, come di sorgente d’acqua sorgiva dall’interno.
La sete, le doglie, le lacrime, la morte, le cose di ogni giorno vengono alla luce, sono trasfigurate e trasformate dalla vita del risorto. Pasqua, un immenso parto proprio nel cuore della terra che riapre il futuro e la speranza.
Vivere come oranti nel tempo di quaresima è come vivere il tempo del desiderio del parto: “parturitio desiderii” così Agostino, Gregorio Magno e Bernardo, maestri del desiderio. Il desiderio è comunicazione per e con qualcuno; è generativo dell’incontro. E la preghiera è espressione del desiderio, l’esercizio diuturno, ininterrotto del desiderio: esercizio e pratica non solo quaresimale: un dare forma ai desideri non mortificando ma facendo vivere, portando alla luce se stessi e gli altri.
Scrive Agostino «Il tuo desiderio è la tua preghiera: se continuo è il tuo desiderio, continua è pure la tua preghiera. L’Apostolo infatti non a caso afferma: “Pregate incessantemente” (1Ts 5,17). S’intende forse che dobbiamo stare continuamente in ginocchio o prostrati o con le mani levate per obbedire al comando di pregare incessantemente? Se intendiamo così il pregare, ritengo che non possiamo farlo senza interruzione.
Ma v’è un’altra preghiera, quella interiore, che è senza interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato (che è il riposo in Dio), non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere di pregare, non cessare di desiderare. Il tuo desiderio è continuo, continua è la tua voce. La freddezza dell’amore è il silenzio del cuore, l’ardore dell’amore è il grido del cuore. Se resta sempre vivo l’amore, tu gridi sempre; se gridi sempre, desideri sempre; se desideri, hai il pensiero volto alla pace» (Commento sui Salmi, dalla Liturgia delle Ore, vol. I, p. 289).
La liturgia è questo pregare insieme, desiderando insieme, davanti a una presenza reale: “davanti a te ogni mio desiderio e il mio gemito non ti è nascosto” (Sal 38,10). “Lasciando fluire il tuo desiderio in lui, in lui confida e lascialo agire a colmare le brame del cuore” (Sal 37,5).
Dalla preghiera liturgica e delle Ore impariamo pure la pratica della sinodalità dell’andare insieme: desiderio e preghiera ne sono la linfa vitale. È sempre Agostino che riconosce nella postura dei cervi in cammino uno stile sinodale:
«C’è qualcos’altro da notare nel cervo. Dicono che i cervi quando camminano nella loro mandria, oppure quando nuotando si dirigono verso altre regioni, appoggiano la testa gli uni sugli altri, di modo che uno precede, e lo segue un altro che appoggia il capo su di lui, e il terzo lo appoggia sul secondo e così via fino alla fine del branco. Il primo che porta il peso del capo di quello che lo segue, quando è stanco va in coda, in modo che il secondo diventa il primo e lui appoggiando la testa sull’ultimo possa riposarsi dalla sua stanchezza; in questo modo, portando alternativamente il peso, portano a termine il viaggio senza allontanarsi gli uni dagli altri. Non parla forse di cervi di questo genere l’Apostolo, quando dice: portate gli uni i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo» (Esposizione sul salmo, 41[42]).
La cerva dell’aurora
Siamo ora nel vado/uadi del salmo 22/23, il cui incipit è sulle labbra di Gesù in croce, che ripete il grido dell’abbandonato al Dio sentito come assente e lontano: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?». Le parole del salmista vi scorrono in esso dapprima come un urlo di passione, un vuoto di speranza, ma poi, dopo uno sprofondo sempre più devastante, improvvisamente avviene un mutamento: dal buio impenetrabile una luce, un passaggio che si apre alla vita, un anticipo pasquale.
Così i suoi versi si mutano in un canto di gioia e di vittoria: parole assetate che vengono dissetate, parole morte che risorgono e riprendono il cammino. Quelle di colui che ha trionfato sulla cerchia dei suoi assalitori, passando in mezzo a loro; e così, dopo aver sperimentato la sua gola come creta riarsa, egli sperimenta il suo Dio come l’acqua ritrovata e fonte del suo cantare nuovo, perché Egli lo ha liberato nonostante i suoi nemici gli avessero mani e piedi perforati e contate tutte le sue ossa e il suo cuore fosse ormai liquefatto come cera.
I salmi hanno spesso questo carattere torrentizio: inariditi e sgretolati, d’improvviso l’acqua e la vita ritornano, come nei torrenti del Negev in Palestina, vuoti e assetati per un certo tempo, ricolmi solo di suppliche e grida, e poi, d’improvviso, inondati ed esondanti di acque impetuose, di gioia, di gratitudine, della lode, del rendimento di grazie, degli inni per il manifestarsi della salvezza insperata.
Acqua viva quella dei salmi che passando per l’uadi del pianto lo cambia in una sorgente, una prima pioggia l’ammantata di benedizioni (Sal 83).
Si rompono le acque a primavera per far nascere di nuovo la terra a primavera:
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi delle sue ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu fai crescere il frumento per gli uomini.
al tuo passaggio stilla l’abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.
I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di grano;
tutto canta e grida di gioia.
(Sal 65 [64])
«Cerva dell’aurora» era probabilmente il nome della melodia sulla quale si doveva cantare il salmo. Ma un’altra traduzione è «per il conforto mattutino», oppure anche «per la fine», come a ricordarci che quel salmo era riferito alla passione, morte e risurrezione del Cristo. Così in questo salmo si può ripercorrere il cammino d’Israele e dei popoli al monte del Signore come pure la preghiera del Servo del Signore, le sue sofferenze e la glorificazione.
Il canto dell’amore mistico
L’invito finale del salmo è di narrare del Signore alla generazione che viene e annunciare al popolo che verrà: «Ecco l’opera del Signore». L’iscrizione ebraica “la cerva del mattino” allude per i cristiani al mattino di Pasqua, alla bellezza della risurrezione che ha il suo emblema nella cerva, all’alba, al sorgere dell’aurora. «Chi è costei che sorge come l’aurora» si canta nel Cantico dei cantici: è l’amata che attende il sorgere del sole amato.
Sia l’assemblea di Israele che attende il Signore più che le sentinelle il mattino, sia l’assemblea cristiana nella veglia pasquale, come pure l’amata nel Cantico dei cantici portano il nome di cerva. Assemblee che ad ogni Pasqua sono chiamate a incamminarsi nel uadi del salmo 63 (62) e a cantare il canto nuovo, quello dell’amore mistico.
Così lo chiama padre Turoldo e aggiunge «…o assetati di lui, altro non dite perché tutto è già detto cantato, sofferto da altri innamorati. È grazia di lui pregare così: O Amato solo te dall’alba desidero, il mio essere ha sete di te, per te spasima la mia anima come arida terra riarsa… Quando in veglie la notte sussurro e ti penso dal mio giaciglio!… canta il mio cuore di gioia all’ombra delle ali tue… A te l’esser mio si stringe, in tua destra è il mio sostegno» (Lungo i fiumi. I salmi, San Paolo, Cinisello Balsamo MI, 1987, 211-212).
Il cervo, considerato nemico dei serpenti perché li fa uscire dai loro nascondigli con l’acqua e poi li colpisce con gli zoccoli, diviene in alcuni scrittori quale emblema e paradigma della fedeltà di Dio contro il serpente antico. È visto altresì come metafora del Cristo che sulla croce fa scaturire dal suo costato l’acqua viva che guarisce dai morsi velenosi della morte, preludio del fonte battesimale da cui scaturisce l’acqua della vita che guarisce la ferita antica.
Nella raccolta patristica Clavis Melitonis si racconta che «il cervo uccide i serpenti dei crepacci con l’acqua che fa uscire dalla sua bocca, un simbolo di Cristo, che ha dato a noi: dal suo costato le acque celestiali, l’acqua della sapienza». Divenne poi anche nell’iconografia dei battisteri simbolo del catecumeno e dei neofiti, i nuovi battezzati a Pasqua.
Desiderio assetato di pace
«Murato nel desiderio senza amore», «chiuso fra cose mortali», dove anche «il cielo mortale finirà», Giuseppe Ungaretti si domanda: «Perché bramo Dio?».
Gli fa eco il salmo della cerva: «Dirò a Dio: «Mia roccia!/ Perché mi hai dimenticato? Perché triste me ne vado, oppresso dal nemico?». Mi insultano i miei avversari quando rompono le mie ossa, mentre mi dicono sempre: “Dov’è il tuo Dio?”».
In altro modo la sete della cerva che brama e sospira l’acqua che non c’è e quella dell’anima del salmista che brama di vedere il volto nascosto del Vivente è ripresa nei testi poetici di Giuseppe Ungaretti.
Leggendo la poesia Accadrà mi è venuto di declinare la situazione della città di Roma occupata dai nazisti durante la guerra alla condizione della cerva del salmo 42. Anche Roma, oppressa dalla “cenere” della guerra, brama libertà e con lei tutte le città incenerite dalla desolazione infernale e distruttiva delle guerre.
Nella sezione Roma occupata la lirica Accadrà fa parte della raccolta Il dolore. Il poeta immagina Roma occupata dilaniata dai bombardamenti, “tesa sempre in agonia” in cui il male sembra ormai avere il sopravvento e non finire più. Le sue parole sono un appello al Cristo perché confermi la sua promessa di Roma città per sempre.
Sogno, grido, miracolo spezzante,
Seme d’amore nell’umana notte,
Speranza, fiore, canto,
Ora accadrà che cenere prevalga?
Anelante come la cerva al uadi è così decritta Roma: «umile interprete del Dio di tutti» in attesa – come tante città anche oggi – di essere dissetata dall’arsura rovente del fuoco della guerra spento dalle acque della pace.
Tesa sempre in angoscia
E al limite di morte:
Terribile ventura;
Ma, anelante di grazia,
In tanta Tua agonia
Ritornavi a scoprire,
Senza darti mai pace,
Che, nel principio e nei sospiri sommi
Da una stessa speranza consolati,
Gli uomini sono uguali,
Figli d’un solo, d’un eterno Soffio.
…
Da venti secoli T’uccide l’uomo
Che incessante vivifichi rinata,
Umile interprete del Dio di tutti.
(Vita d’uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, 231-232).
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Andrea Zerbini
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