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Ferrara film corto festival

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Presto di mattina. Jon Fosse e l’inevidenza evidente

«Quando scrivo, ascolto.
Ascolto il silenzio e cerco di farlo parlare»
(Jon Fosse).

Ad attrarre la mia attenzione verso lo scrittore norvegese Jon Fosse è stato dapprima leggere in un articolo della sua abitudine di scrivere all’albaPresto di mattina, come riporta il titolo di questa rubrica – ma soprattutto il fatto che per lui la poesia stia a fondamento delle molteplici forme della sua scrittura.

Non mi ha sorpreso, dunque, che l’anno scorso abbia ricevuto il Nobel per la letteratura, perché – queste le parole a motivazione del premio – «la sua drammaturgia e la sua prosa innovative danno voce all’indicibile».

Tutto ciò mi ha spinto in biblioteca a cercare un suo libro e, inaspettatamente, proprio sugli scaffali delle novità nell’atrio dell’Ariostea, mi sono ritrovato con meraviglia, faccia a faccia, con il suo libro di poesie Ascolterò gli angeli arrivare (Crocetti editore, Milano 2024), che sembrava aspettasse proprio me.

A farmi decidere però di percorrere un tratto di strada in sua compagnia è stato leggere nel saggio introduttivo di Andrea Romanzi, qualcosa dell’autore che ho sperimentato anch’io:

«“Quando scrivo bene, non sono io che scrivo. [ … ] scrivere dischiude dimensioni dell’esistenza che non si possono spiegare, ma che sono comunque attive”. La cifra spirituale della scrittura di Fosse – afferma Romanzi – risiede quindi in un’assenza, in un essere altrove e altro-da-sé, nell’esperienza paradossale del voler insistere nella fatica di comunicare l’incomunicabile.» (ivi, 8)

Letteratura è il profondo, il silenzio narrato in parole, come la scrittura è il tacere della voce, la narrazione dell’indicibile la troviamo attraversando il silenzio delle parole e la notte della luce. Dalla poesia non ci vengono informazioni, essa ci comunica la sua stessa vita.

Le stelle hanno la propria notte
e la notte ha le proprie stelle                          Esco nel mattino e
ascolto una chitarra La stella abita nella notte
e la notte dà alle stelle la propria luce                      Ti tengo la
mano
e tu tieni la mia mano                                   Entriamo in noi e
usciamo nel mondo
(ivi, 147)

«E per me, scrivere – ha ricordato Jon Fosse – è ascoltare: quando scrivo, non preparo mai niente, non pianifico niente, vado avanti ascoltando. Quindi se dovessi usare una metafora per scrivere, sarebbe ascoltare… La scrittura, come ho detto, è un’attività solitaria, e la solitudine è buona fintanto che, per citare un altro poema di Olav H. Hauge, la strada di ritorno verso gli altri rimane aperta» (Un linguaggio silenzioso 7 Dicembre 2023 – Stoccolma, discorso del Premio Nobel).

Ascoltare gli angeli arrivare

Così Ascoltare gli angeli arrivare è lo stesso che restare aperti e attendere dal silenzio il venire delle parole; ed è tutto un ascoltare il brusio del silenzio. Mi vengono così improvvise anche a me, ora, parole inattese come ricalcate su quelle del poeta, germogli sulle sue radici, replicando a modo mio le asciutte, stringate parole di Jon Fosse, senza punteggiatura e con stacchi e pause tra di esse. E così scrivo a lui di rimando:

Le parole hanno il proprio silenzio,
e il silenzio ha le proprie parole,                             Esco ascoltando il mattino
La parola abita il silenzio
e il silenzio dà alle parole la propria voce.               Tenendosi la mano
entrambi entrano in me e io rivivo,
spalancato                                                              al mondo altro.

E di nuovo la sua risposta non tarda a venire:
te ne stai nella luce del tuo volto
dove un nuovo silenzio
ha iniziato il suo lavoro
non racconti storie, sono
soltanto piccoli scorci concordati
di un insieme
troppo luminoso                        per te                             è così
che puoi raccontare
il tuo insieme illuminato, silenzioso                        silenzioso
mentre la notte canta i suoi soli
[e tu devi, tra non molto, entrare nel grande movimento
dove il giorno arriva col suo dolore]
(Ascolterò gli angeli, 85).

Come amore nei capelli

e fuori dall’ oscurità.
proprio come un amore
che ci piace respirare Ti prego
apri la finestra
e lasciami vedere
che il fiordo è azzurro
E nel fiordo ci sono barche
e il vento è trasparente
ed è come amore
nei tuoi capelli
(ivi, 137)

Colui che scrive si perde come barca tra i fiordi del mare del nord, che si muove cercando un approdo che non c’è ancora e tuttavia nella scrittura egli ritroverà se stesso come un altro, su un nuovo arenile che egli stesso non sa dire, se non nel movimento, come un’onda dopo l’altra nel flusso di quelle parole.

La scrittura è un movimento, un movimento d’amore – ricorre come un leitmotiv in Fosse – ti porta dove non te l’aspetti, verso ciò che non è ancora nelle profondità dello spirito, che è amore, e provando ad illuminarlo con parole, se vi riesci, fai luce agli altri e anche a te stesso.

«E l’amore non è mai qualcosa che è!/ È soltanto rivolto verso qualcosa che è. Per questo io sono amore! Sono rivolto verso ciò che è/ ma come movimento Sono un movimento in un movimento/ Io sono in un movimento d’amore! / E guardo le barche/ muoversi attraverso uno stretto/ E allora tutte le barche non devono far altro che arrivare» (ivi, 117).

C’è ancora un verde possibile e una scintilla nella vita trasformata in morte

I due estremi della vita narrati nei due margini del giorno: mattino e sera: un bambino nasce si chiamerà Johannes, un vecchio pescatore muore, si chiamava Johannes.

«Johannes rimane in piedi a guardare i pendii e le alture e le rocce e le case sulla terraferma, c’è la sua piccola barca a remi che si trova ormeggiata a una boa ed è attraccata anche al molo, e osserva le rimesse delle imbarcazioni e vede le case lassù in cima e lungo la strada e si sente colmare da una sensazione molto forte per via di tutto questo, per l’erica, per tutto quanto, conosce ogni cosa, è il suo posto nel mondo, è suo, tutto quanto, i pendii, le rimesse delle barche, i sassi sulla battigia e ha la sensazione che non rivedrà mai più tutto questo allo stesso modo, ma rimarrà dentro di lui, come ciò che è davvero, come un suono, sì, quasi come un suono dentro di lui, pensa Johannes e si porta le mani agli occhi e li sfrega e vede che ogni cosa riluce, dal cielo laggiù, da ogni parete, da ogni sasso, da ogni barca, tutto scintilla verso di lui» (Mattino e sera, La nave di Teseo editore, Milano 2019, 83-84).

Che cosa scintilla? Ho pensato: è la barca della più grande vita, quella rilucente nella barca grande dell’oceano, della barca che è l’oceano, che è la vita come amore.

Sono lì come barche
su un oceano
grande come tutto ciò che è
molte
barche
piccole
e piccole e immobili sono cullate avanti
e indietro
e avanti
sulle barche del grande
oceano
dentro la grande barca
sulle barche del grande
oceano
dentro la grande barca
la grande barca dell’oceano
la barca grande quanto l’oceano
la barca che è l’oceano
e che vede 1’oceano                                      Le piccole barche sul grande
oceano
Vedo le piccole barche sul grande oceano      E afferro
di fronte a me il bordo della barca
E l’amore che ho
possa
restare con voi
miei cari
(Ascolterò gli angeli, 133 e 135).

Scrittura: una mistica dell’altro

La scrittura e la parola come apertura al mondo nel suo trascendimento, sono una ricerca e movimento che si orienta verso una totalità misteriosa, un luogo dove tutto converge ed irradia e per questo rivela in Jon Fosse una sensibilità mistica, una perdita della parola nel silenzio della scrittura ed il suo ritrovamento nella lettura.

«Quando scrivo, scrivo sempre in direzione di una totalità che immagino esistere in un luogo, come qualcosa di assolutamente determinato, e qualsiasi cosa io scriva, qualunque periodo, anche una parte un po’ più estesa, qualsiasi cosa, è una ricerca della totalità di cui non ho in anticipo conoscenza alcuna, trattandosi di una totalità verso cui mi oriento scrivendo» (Saggi gnostici, Cue press, Imola 2018, 56).

E ancora, sempre nei saggi si legge: «Alcune delle mie esperienze più profonde possono, come ho compreso a poco a poco, essere definite esperienze mistiche. E queste esperienze mistiche sono connesse alla scrittura come un «essere consegnato all’altro e nelle mani di quel ch’è altro» (ivi, 25).

Scrittura: un atto musicale

Jon Fosse ritrae insieme ai paesaggi della sua terra − i monti, la nebbia e la trasparenza del vento, l’azzurro dei fiordi − anche il mattino e la sera dell’esistenza, il nascere e il morire, morte e vita, il credere e il non credere e il provare a credere di nuovo.

Nei personaggi cerca non solo l’oltre, ma lo sprofondo, ciò che vi è di più intimo e oscuro. Entra nei grovigli, nelle fragilità e resistenze della loro interiorità e sintonizza il linguaggio e le parole come una musica che si adatta di volta in volta al loro spartito d’esistenza vissuta in quel determinato momento.

Esse declinano il ritmo delle loro interiorità che fa vibrare, intensificare anche quella di chi legge: una lettura difficile quella di Fosse, perché ti costringe a corrispondere alle variazioni e ai sussulti del ritmo, delle sue parole quasi come note.

In un’intervista dice: «Le mie prime esperienze con la scrittura risalgono a quando, ragazzo, ho iniziato a scrivere testi per le melodie che componevo con la chitarra. A quel tempo per me la musica era l’elemento più importante, ma anche oggi, scrivere per me rimane comunque un atto musicale, in fondo, e questo vale sia che io scriva poesia, prosa o drammi» (Teatro, Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG) 2006, XIII).

Il trascendente si cela nella scrittura

Tra i fiordi delle sue parole e i silenzi, le pause, i ricominciamenti vi si trova non solo trascendenza della parola ma ricerca del trascendente, che il più delle volte è nascosto tra i vuoti, i silenzi delle parole e nelle innumerevoli ripetizioni che rallentano ma non fermano il movimento della scrittura.

Nella letteratura patristica il simbolo della barca è molto frequente: e il gesto di Gesù di salire sulla barca è detto con l’espressione “salire sul legno” l’equivalente di salire sulla croce. Ecco allora

Il dio morto
vedo un occhio in fiore
posarsi sul fiordo, una mano
tiene aperta una finestra: un vento
da un oblio
dice nella sua foschia azzurra
che c’è ancora un verde possibile
dietro ciò che chiamiamo vita e morte                     Sulla croce Dio
ha terminato la sua vita
e le nostre vite furono terminate                              Sulla croce Dio è
morto
Sulla croce è morta la vita
morta la morte Un verde trasparente
si diffonde dal dio morto
come una foschia azzurra
di vita trasformata in morte
(ivi, 121).

Profondamente credente, a modo suo, Fosse è passato in anni recenti dal protestantesimo – nella Chiesa luterana di Norvegia – al cattolicesimo. Una volta si lasciò sfuggire che la letteratura non solo era per lui un dono, anzi una grazia, ma pure una preghiera.

Così racconta nel discorso fatto alla consegna del Nobel: «In un’intervista, molto tempo fa, ho detto che la scrittura era una sorta di preghiera. E mi sono vergognato quando ho visto quelle parole stampate. Ma un po’ più tardi ho letto, e mi ha confortato, che Franz Kafka aveva detto la stessa cosa. Allora forse – dopo tutto?».

Nel suo romanzo Melancholia vi è un personaggio Vidme, uno scrittore agnostico che, pur riconoscendo l’ispirazione artistica somigliante ad una grazia accadutagli di fronte al quadro che s’intitola Dall’isola di Borgøya del pittore Lars Hertervig (1830-1902) di cui voleva scrivere un libro, cerca altre parole per definire quell’esperienza, quel lampo di creatività, ma nessuna arrivava ad essere come quella che si rifiuta di pronunciare: “un lampo divino”.

«Vidme crede che il suo lavoro di scrittore lo abbia condotto nelle profondità più recondite di qualcosa che lui in momenti improvvisi, istanti felici di lucidità, è arrivato a considerare come un lampo di divino, ma sia il lampo sia il divino sono espressioni che a Vidme non possono piacere, se non avesse disprezzato così tanto queste espressioni avrebbe potuto dire che in singoli istanti illuminati ha avuto un’ esperienza che non può negare, un’ esperienza che può anche sembrare ridicola, è ridicola, sia per Vidme sia per la maggioranza della gente, però in alcuni istanti di grazia, se solo potesse fare uso di questa espressione, Vidme, uno scrittore fallito quanto basta, invecchiato presto, si è reso conto di essere stato in prossimità di ciò che con un’ espressione che non si sarebbe mai immaginato di utilizzare non può chiamare altro che il divino.

Per questo adesso Vidme sta camminando lungo il marciapiede. Ma il divino, per non dire Dio, è un’espressione che Vidme non può tollerare di usare. Eppure non ha un’espressione migliore con cui definirlo» (Melacholia I-II, La nave di Teseo editore, Milano 2023, 283-284).

L’abbandonarsi dell’abbandonato è la fede, un movimento resistente che ti solleva

Sto in piedi nel vento
La pioggia cade dal cielo
Apro i miei abiti
Afferro
e vedo quel movimento dentro di me
che scompare
e diventa un movimento grande che mi solleva
abbandonandomi
(Ascolterò gli angeli, 155).

L’amore: l’inevidenza evidente

mani invisibili ci guidano
intorno nessuno vede le mani nessuno sa di loro
ma senza queste mani la nera nebbia nei nostri cuori
ci trascinerebbe in un’inquietudine schiacciante
mentre stiamo lì
e non riusciamo a vedere
Sono queste mani invisibili che distendono la propria
musica silenziosa
dentro di noi
come un vortice che ci solleva
all’interno di quel silenzio
che fa sì che il giorno si possa vivere

sei così evidente
così presente
nelle cose piccole e in quelle grandi
e in tutto ciò che avresti dovuto fare
Vai lontano
Lo fai lentamente
ma per te
così infinitamente veloce
Sei il mio più grande amore
Se devo dire che cosa è l’amore
posso dire il tuo nome
Sei il mio amore
Sei il tuo proprio amore
Sei amore.
(ivi, 157 e 159)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
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(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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