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Presto di mattina /
Jon Fosse e il teatro degli sconfinamenti

Articolo pubblicato il 26 Ottobre 2024, Scritto da Andrea Zerbini

Tempo di lettura: 11 minuti


Presto di mattina. Jon Fosse e il teatro degli sconfinamenti

Quel che ci serve oggi: sconfinare

«Ci serve questo: una cultura che allarga i confini, che non è settaria – e voi non siete settari – né si pone al di sopra degli altri ma, al contrario, sta nella pasta del mondo portandovi dentro un lievito buono, che contribuisce al bene dell’umanità. Questo compito, questa speranza più grande, è affidata a voi».

«Allargate i confini! Siate inquieti cercatori della verità e non spegnete mai la passione, per non cedere all’accidia del pensiero, che è una malattia molto brutta». «Siate protagonisti nel generare una cultura dell’inclusione, della compassione, dell’attenzione verso i più deboli e verso le grandi sfide del mondo in cui viviamo» (Papa Francesco ai docenti dell’Università cattolica di Lovanio, Belgio, 26 – 29 settembre 2024).

I confini si allargano non spostandoli o rimuovendoli, ma attraversandoli: sconfinando, andando e venendo da sé agli altri, da loro a noi. Relazioni che creano sconfinatezza, come quella dello sguardo, non senza tuttavia un criterio di riferimento etico: Ubi amor ibi oculus, ricorda Riccardo di san Vittore (PL 196, col. 10 A).

Dov’è compassione samaritana lì converge lo sguardo, lì diventiamo, conosciamo l’altro. Amore e conoscenza vanno insieme, perché solo l’amore conosce perfettamente (s. Paolo) e si conosce solo ciò che si ama (s. Agostino).

Teatro: verbum visibile, signum audibile

Così ho osato anch’io sconfinare in un ambito quasi mai frequentato e per me straniero: il Teatro.

Veramente un buio luminoso. Luogo di sconfinamenti performativi. Le parole in voci, che fanno quello che dicono. I corpi e i gesti espressivi voce dell’azione. Nell’atto teatrale vi è corrispondenza e intreccio delle qualità e limiti dei differenti idiomi, linguaggi, gesti, segni. Di più. Si dà uno scambio di funzioni tra opposti vettori e agenti: uno fa ciò che dovrebbe fare l’altro, sta in vece sua.

Un mirabile commercio e uno scambio che disorienta al punto che “le parole si vedono” e “i gesti si ascoltano”: verbum visibile, signum audibile. L’espressione è di s. Agostino per far cogliere il carattere performativo dell’evento sacramentale e dell’atto liturgico: l’enunciazione coincide con la sua attuazione. Nell’assemblea convocata dalla Parola e dai Segni, come un invito a teatro, si ripresenta, si attua, vive e rivive allo stesso tempo, per tutti l’unico evento sempre nuovo di un mistero narrato e celebrato.

Teatro: sconfinamento che coinvolge in una totalità che non si possiede, ma è cercata ogni volta perché si percepisce esistente, misteriosamente presente in una comunanza di vita, di differenze plurali ed estranee tra loro. Autori, attori e le persone del pubblico; palcoscenico e platea figure e luoghi così differenti tra loro sono chiamati ad incontrarsi, nonostante il sipario si apra e si chiuda, oscuri o illumini, come un varco, fessura possibile all’incontro perché Qualcuno verrà.

Penso che a teatro accada come quando un fiume entra nel mare e le acque dell’uno si scontrano con quelle dell’altro; contrastano, ribollono, crescono come fronteggiandosi tra loro per un attimo, per un attimo solo, ma lunghissimo, che fa tenere il fiato sospeso e poi, poi come il lievito nella pasta, un’onda è abbracciata dentro all’altra a portare vita e a riceverla e forse a ricrearla. Il teatro è come un mare che apre il guscio di relazioni soffocanti senza gli altri, senza sbocco al mare.

Quando il mare si fa bianco e nero
e pensa come farà freddo in casa
quando il vento passa tra i muri
e pensa quanto è lontana dagli altri
pensa al buio che c’è
al silenzio che ci sarà
e pensa come soffia il vento
come infuriano le onde
E laggiù c’è il mare
con tutte le sue onde
il mare
è bianco e nero
con le sue onde
con le sue profondità
morbide e scure
E noi che volevamo solo restare
l’uno di fianco all’altro
(Jon Fosse)

Il teatro degli sconfinamenti

E niente è stabile
tutto è in movimento
come le nuvole
una vita è un cielo percorso da nuvole
prima che scenda l’oscurità
(Jon Fosse, Teatro, Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG) 2006, 62-63; 215).

Ho così varcato la soglia della biblioteca comunale al civico 5 di Corso Martiri della libertà a chiedere due testi: Teatro una raccolta di alcune sue opere teatrali e uno studio sulla sua drammaturgia.

Subito scorrendo la prefazione del primo mi hanno preso le parole di Rodolfo Di Giammarco: «leggere o veder realizzato il teatro di Fosse equivale ad abbandonarsi a zone della psiche che vengono di volta in volta molestate, affascinate, turbate, trascinate in altre dimensioni. E tuttavia si stabilisce sempre un rapporto con qualcosa di naturale, con un flusso vitale e al tempo stesso contemplativo» (ivi, VII).

Ma è stato da Leif Zern, giornalista nonché uno dei più importanti critici teatrali europei contemporanei, che, come un non vedente, mi sono lasciato guidare tra le quinte del palcoscenico in Quel buio luminoso che è la drammaturgia di Jon Fosse.

Scrive Leif Zern: «Vedere un suo dramma è come vedere qualcuno che si affretta a passare, come se l’unico compito della scena fosse rendere possibile questo passaggio. E quindi questi movimenti, come ombre, attraversano soglie, porte aperte, andando di stanza in stanza. Fosse scrive con amore e comprensione sui molti che non ce la fanno, quelli che non vogliono o non possono accettare la felicità dell’autorealizzazione» (Quel buio luminoso. Sulla drammaturgia di Jon Fosse. Cue Press, Imola 2023, 31).

“Io non so, ma Tu sai” e non ci separeremo mai

Fosse si interessa di quello che non può essere detto, dell’indicibile appunto; così anche l’immobilità, le pause i silenzi le attese sono fatte di movimento, segnate dall’inquietudine. Risposte il più delle volte sospese a due frammenti di parole “Non so”, “non lo so”; è la risposta ricorrente nei suoi testi sconfinanti nell’oltre- ed intra- umano, luoghi non luoghi che come nei mistici rappresentano la via negativa della conoscenza del mistero.

La notte canta è un testo dell’autore in cui una scintilla è nascosta in essa. Così pure E non ci separeremo mai rappresenta e interpreta il legame che tiene uniti dentro e nonostante gli sconfinamenti, le sospensioni, le separazioni, lo stare fuori di sé (estasi).

Non so cosa sia
che fa sempre succedere qualcosa
Ma qualcosa deve pur essere
Perché di fatto succede sempre qualcosa
Non voglio che succeda qualcosa
ma di fatto succede
qualcosa
Cos’è che fa succedere tutto
Sono io
Qualcun altro
Non lo so
(ivi, 173).

Qualcuno verrà titola un altro testo, come a dire che quello di Fosse è un teatro dell’attesa. «Teatro della sospensione» lo chiama Zern, appunto come qualcuno in equilibro instabile che attende di essere mosso da qualcun altro. E continua: «Nei drammi di Fosse l’anonimità è una speranza. So bene che altri sono di parere diverso, ma il mio viaggio nel suo teatro mi ha portato sempre più vicino a quello che considero il cuore della sua drammaturgia: il misticismo, il fragile equilibrio fra vuoto e senso» (ivi, 9).

Lao Tse filosofo cinese del sec. V a. C. scrisse: «La via (Tao) che si può nominare non è la vera via».

Una volta, durante la malattia di don Sandro, egli mi disse: «Non so cosa vuole il Signore da me». Rimasi in silenzio, ma alla sera, alla preghiera di compieta, gli lessi un detto dei Padri del deserto che avevo trovato pochi giorni prima circa un tale, Abba Giuseppe, che come lui andava ripetendo: “non lo so”. E ritornò il silenzio tra noi.

Quella sera pensai che anche don Sandro in quella oscurità stesse già camminando nella “via”, anzi fosse uno della “via”, come gli Atti degli Apostoli chiamano i cristiani (“quelli della via): «Un monaco egiziano del IV secolo disse ai fratelli: “Veramente Abba Giuseppe ha trovato la via poiché ha detto non lo so”». E tra le pieghe della notte, ascoltando quel silenzio, mi sembrò che ruminasse i segreti pensieri di don Sandro: “Io non so, ma Tu sai”.

E s. Atanasio, commentando l’ultimo versetto del monumentale salmo alfabetico sulla parola di Dio [118 (119), 176], ha scritto: «Mi sono smarrito, abbandonando te che sei il vero pastore; ma tu sai dove sono: vieni a riprendermi!» (I Padri commentano il Salterio della tradizione, Gribaudi, Torino 1983).

Sconfinando nella notte

In quei “non so” vi è qualcosa di genuinamente evangelico, di mistico: la forma stessa del credere. Il nascondersi tra gli ultimi e, nella notte oscura, l’affidarsi nelle mani dell’Indicibile. Questa fede «non si dà né come spettacolo, né come esempio, non fa commercio né di certezze di un discorso di verità (supposte come valide una volta per tutte e per tutti), né di assicurazioni per l’eternità.

Essa ha a che fare con la notte, il silenzio, la debolezza, essa si avventurerebbe sul cammino oscuro, non tracciato, “tutto interiore”… La fede suppone una fiducia che non ha garanzia di ciò che la fonda: l’altro», (Luce Jard, Cercando Dio, in Michel de Certeau, Debolezza del credere Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2006, XXVII).

E in Fabula, mistica I de Certeau scrive: «È mistico colui o colei che non può fermare il cammino e, con la certezza di ciò che gli/le manca, di ogni luogo e oggetto sa che non è questo, che qui non si può risiedere né contentarsi di quello. Il desiderio crea un eccesso. Eccede, passa e perde i luoghi. Fa andare più lontano, altrove. Non abita da nessuna parte. Dice ancora Hadewijch (mistica e poetessa fiamminga di Aversa sec XII), [luogo] che è abitato da “un nobile “non so” che né questo, né quello, che ci conduce, introduce e assorbe nell’Origine”» (Il Mulino, Bologna 1987, 404-405).

Un incontro inatteso come un bagliore

Nella scrittura Jon Fosse scopre il senso dell’esperienza religiosa, mistica pure come esperienza di smarrimento e di ritrovamento, di movimento e di immobilità, di trasformazione e identità; un’esperienza di consolazione, forse una grazia che come tale non è cercata, inseguita ma si riceve, è donata, si dona essa stessa. Non è l’uomo che la trova, ma è questo bagliore di bellezza che trova lui: un incontro inatteso, come una sorpresa indefinibile.

Il suo ultimo testo Un Bagliore (La nave di Teseo, Milano 2024) si conclude come una Fabula mistica certeliana, intrisa dello stesso linguaggio dei mistici. Una storia apparentemente ordinaria, quasi banale, diventa cifra di un’esperienza universale del mistero dell’umano e del divino nell’umano.

Narra di un uomo che viaggia con la sua auto senza una precisa direzione e senza sapere dove va; l’auto vien bloccata dal fango, scende repentina la sera; poi la neve, il freddo e la notte fanno il resto ed egli si sente spinto ad entrare in una foresta e in quell’oscurità impenetrabile accade un bagliore misterioso.

«E ora non vedo quasi più niente, tanto è diventato buio tra gli alberi. E poi questa neve. E questo freddo … Ora, però, si è fatto così buio, Mi fermo. Guardo davanti a me, dentro il buio nero, è come se non si vedesse nulla, solo il buio nero. Guardo in alto, dritto in alto, e vedo un cielo nero senza stelle» (ivi, 22; 25).

«Poi un bagliore indefinibile, sempre più nitido. È bello a guardarsi e non fa male», poi la luce scompare ma ad essa subentra una voce e inizia un dialogo con quella misteriosa voce che fa percepire sempre un’indefinibile sensazione di prossimità e compagnia che alla fine rivela la sua identità con parole simili a quelle della teofania del roveto ardente nel libro dell’Esodo: “Io sono chi sono” (ivi, 42).

Sulla soglia di qualcos’altro

«[Un] uomo con l’abito nero tende la mano, tende la mano verso di me e lo guardo… prendo la sua mano protesa e mi accorgo di essere immerso nella luce bianca e splendente che adesso percepisco come una specie di nebbia luminosa, ma in un certo senso morbida, e nulla è chiaro, o meglio sono dentro una specie di chiarità, in un certo senso lo sono, poi l’uomo con l’abito nero inizia a camminare lentamente ed è come se stesse uscendo dal bosco, ma per dove non lo so… È come se stessimo camminando nell’aria sottile, sì, sì. Stiamo davvero camminando nell’aria sottile e non sembra nemmeno che camminiamo anche se ci stiamo muovendo. Sì in un certo senso lo stiamo facendo ed è un po’ come se non fossi più me stesso ma fossi diventato parte dell’entità splendente che non è più scintillante nel suo bagliore splendente. E come se tutto fosse privo di significato come se il significato, sì, il significato non esistesse più perché tutto è solo quello, tutto è significato ed è come se non stessimo più camminando, sì, come se avessimo smesso completamente di muoversi, siamo come in movimento senza esserlo ed è come se io non vedessi più, sono come dentro una griglia che mi abbraccia, sì, che abbraccia tutto ciò che esiste davvero, sì, è come se tutto fosse solo nella sua grigità, non esiste niente, poi all’improvviso sono immerso in una luce così forte che non è una luce, no, non può essere una luce, ma un vuoto, un nulla e, sì, non è forse l’entità splendente quella che c’è davanti a noi, sì, l’entità che fulge radiosa nel suo biancore e dice seguimi e la seguiamo, lentamente, passo dopo passo, respiro dopo respiro, l’uomo con l’abito nero, senza volto, mia madre, mio padre ed io, usciamo a piedi nudi nel nulla, respiro dopo respiro, e all’improvviso non esiste più neanche il singolo respiro, ma solo l’entità splendente, scintillante che dal suo biancore illumina un nulla che respira, che adesso è ciò che respiriamo» (ivi, 72; 74).

Anche gli angeli sconfinano

Jon Fosse ama ricordare che quando il teatro è veramente buono, e si esprime in momenti chiari e intensi seppure inspiegabili «un angelo attraversa la scena». Saggi gnostici (Saggi gnostici, Cue press, Imola 2018, 72-74).

Ascolterò gli angeli che provengono dai miei amici morti
silenziosi come la neve evidenti come la neve
Vedrò la neve sciogliersi e diventare acqua
La vedrò scomparire
e tornare, come aquile
Vedrò le aquile arrivare
Scomparire
e sentirò la musica
nel movimento che creiamo
e che ci crea, così evidenti, nel buio

Ma gli angeli mi traggono ogni giorno fuori
dalla mia pietrificazione
nello splendore e nella pietrificazione li mio movimento
non è minaccioso
La gioia è senza gioia
Per tutto posso ringraziare gli angeli
(Ascolterò gli angeli arrivare, Crocetti editore, Milano 2024, 67; 97).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
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PAESE REALE
di Piermaria Romani